Dal 22 settembre, quando Mario Draghi fu accolto con un’ovazione all’assemblea della Confindustria, dove fu definito l’uomo non della Provvidenza, come Mussolini a suo tempo addirittura in Vaticano, ma più semplicemente l’uomo della Necessità, con la maiuscola imposta dall’emergenza che lo portò a febbraio a Palazzo Chigi; dal 22 settembre, dicevo, è trascorso meno di un mese e il presidente del Consiglio si ritrova su tutte le prime pagine dei giornali abbracciato a Maurizio Landini. Che notoriamente non è il presidente della Confindustria nel frattempo succeduto a Carlo Bonomi per chissà quale colpo di mano, ma il segretario generale della Cgil: la controparte della Confindustria, anche nei momenti della più riuscita “concertazione” come quelli del governo di Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, mentre si transitava politicamente dalla prima alla cosiddetta seconda Repubblica.
La vignetta del Corriere della Sera
A compiere il miracolo di questo passaggio di Draghi, o della sua immagine, da un fronte all’altro sono stati quegli energumeni e geni alla rovescia di Forza Nuova, la formazione di estrema destra orgogliosamente responsabile dell’assalto di sabato scorso alla sede nazionale della Cgil. Che così si è procurata la solidarietà naturale, prima ancora che dovuta, anche del presidente del Consiglio, come ha fatto praticamente dire a Landini nella sua vignetta Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera.
Penso che lo avrebbe fatto lo stesso, anche senza la loro copertura, ma le circostanze hanno voluto che Draghi sia accorso nella sede della Cgil dopo che da tutti, proprio tutti i partiti della sua composita maggioranza, erano giunte espressioni di solidarietà al sindacato rosso. Non erano mancate neppure dall’unico o più consistente partito di opposizione, e di destra: quello di Giorgia Meloni. E del suo candidato al ballottaggio capitolino di domenica prossima Enrico Michetti, appoggiato anche dalle altre componenti del centrodestra partecipi invece del governo e della maggioranza a livello nazionale.
Non foss’altro per solidarietà, a loro volta, col presidente del Consiglio espostosi come tale con quella visita svoltasi col massimo della evidenza possibile, i due partiti di centrodestra partecipi -ripeto- del governo e della maggioranza avrebbero dovuto, a mio avviso, aderire senza riserve agli atti o iniziative conseguenti alla visita di Draghi alla sede della Cgil. Fra le quali ci sono, sempre a mio avviso, il proposito di scioglimento di Forza Nuova e persino la manifestazione nazionale di sostegno al sindacato promossa pur nella giornata del cosiddetto silenzio elettorale per i ballottaggi comunali.
Gorgia Meloni
Titolo di Libero
Invece i leghisti di Matteo Salvini e persino i forzisti di Silvio Berlusconi hanno preferito unirsi ai no, alle riserve e quant’altro di Giorgia Meloni. La quale, spalleggiata oggi su Libero da Vittorio Feltri, non a caso eletto nelle sue liste al Consiglio Comunale di Milano, protesta e persino sbraita contro il complotto permanente di cui la sua destra sarebbe vittima ma non si lascia scappare un’occasione -dico una- per fornire argomenti, pretesti e quant’altro agli avversari interessati alla sua emarginazione. Che gliene importa, a questo punto, di Forza Nuova, e delle modalità politiche e legislative con le quali si provvederà allo scioglimento di un movimento che pratica così sfacciatamente la violenza? Parlo di quella materiale, e non solo verbale praticata così pericolosamente anche dai grillini che il loro nuovo presidente Giuseppe Conte ha dovuto cercare di porvi rimedio con una modifica dello statuto delle 5 Stelle.
Più vedevo, per fortuna da casa, le immagini televisive delle piazze e delle strade di Roma messe a ferro e a fuoco dai manifestanti contrari alle vaccinazioni e ai green-pass, più mi tornava sabato sera alla memoria l’immagine militaresca usata qualche giorno prima da Goffredo Bettini per parlare, in una intervista al Corriere della Sera, del ballottaggio del 17 ottobre per l’elezione del sindaco capitolino che dovrà prendere il posto della grillina Virginia Raggi. “La madre di tutte le battaglie”, aveva detto l’amico e consigliere di un po’ tutti i segretari succedutisi al Nazareno, compreso per un pò l’ora bistrattato Matteo Renzi.
Enrico Michetti
Militaresco, in verità, era stato anche il linguaggio usato dalla pur gracile Raggi, rispetto alla mole di Bettini, per descrivere l’impresa tentata ostinatamente con la sua ricandidatura: l’unica -si era vantata la malcapitata- riuscita a contrastare davvero le “corazzate” del Pd, con Roberto Gualtieri a bordo, e del centrodestra. Che a Roma, ancor più che altrove, è più destra che centro. E la destra non è dell’eretico Matteo Salvini, dimentico della definizione di “costola della sinistra” guadagnatasi da Umberto Bossi ai tempi d’oro di Massimo D’Alema, ma la destra di Giorgia Meloni e fratelli. Che non a caso ha praticamente imposto ai suoi alleati come candidato al Campidoglio Enrico Michetti: l’avvocato e professore amministrativista propostosi di fare il sindaco di Roma dopo averne praticamente allevati tanti altrove con le sue dispense, o simili, scritte meritoriamente senza l’enfasi del “tribuno” dell’emittente Roma Roma.
Più sentivo definire anche documentativamente di destra i protagonisti della rivolta, con le immagini di quell’energumeno di Forza Nuova che prometteva di “prendersi Roma” in serata, più mi chiedevo perché mai quella destra di piazza ce l’avesse così tanto con la destra di palazzo moltiplicando con quel casino le già notevoli difficoltà di Michetti. Che è costretto di suo a sperare più nel soccorso anti-Pd dei vedovi politici della sindaca grillina uscente che in quello dei vedovi della candidatura di Carlo Calenda, o più ancora nel ravvedimento di qualche frangia del partito dei non votanti, al vertice della classifica al primo turno.
Mi chiedevo che cosa avessero fatto la Meloni, la sorella, il cognato capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida e naturalmente Michetti stesso per vedersi sporcare il marchio politico della destra a una settimana dal ballottaggio. E mentre i giornali attingevano impietosamente il biscotto nel cappuccino servito il giorno prima dal manifesto scoprendo nel repertorio degli scritti di Michetti una difesa a dir poco suicida delle vittime di tanti genocidi dimenticati o sottovalutati per essersi gli ebrei guadagnata, praticamente, una maggiore notorietà e solidarietà con le loro capacità finanziarie e lobbistiche. “Imperdonabile leggerezza”, ha poi ammesso per fortuna l’avvocato, affrettatosi anche ad una visita solidale a Maurizio Landini nell sede nazionale della Cgil devastata dalla destra di strada.
Ma era proprio sola quella destra nelle strade e piazze romane? Ecco una domanda alla quale penso che debbano trovare una risposta gli inquirenti occupandosi di quei seicento, più o meno, che risultano essere stati identificati o “intercettati” dalla polizia, provenienti un po’ da tutte le parti del nord. Che non so se sono arrivati a Roma cadendo nel trappolone di quelli di Forza Nuova fermati e arrestati o tendendo loro un trappolone a quegli altri, già facili a perdere la testa nei raduni come certi tifosi di Donald Trump hanno fatto in America quando il loro idolo ha mancato la conferma alla Casa Bianca. Ormai tutto è globalizzato, si sa: anche il cretinismo, il fanatismo e via mettendosi le mani fra i capelli quando se ne hanno abbastanza per farlo.
Che qualcosa di strano, diciamo così, rispetto anche alle brutte abitudini della destra romana di piazza non è sfuggito sabato sera a cronisti e osservatori che per fortuna non mancano nei giornali, per quanto malmessi da una crisi qualche volta persino identitaria come quella dei partiti.
Sarzanini sul Corriere della Sera di domenica
Bianconi sul Corriere della Sera di domenica
“Roma -ho letto, per esempio, sul Corriere della Sera il giorno dopo i disordini a firma di Fiorenza Sarzanini- è stata ostaggio di poche centinaia di violenti che sono riusciti ad aggregare migliaia di persone”. “Accanto alle abituali presenze -ho letto sempre sul Corriere a firma di Giovanni Bianconi- è comparso qualcosa di diverso. In strada, pronte a fronteggiare i celerini in tenuta antisommossa, c’erano persone a viso scoperto, uomini e donne non più giovani che gridavano esasperati, immobili e quasi indifferenti al getto degli idranti. Presenze quasi spiazzanti per chi deve resistere e se del caso caricare”.
“I tricolori ma anche le bandiere “indipendentiste” con il leone di San Marco, i saluti romani e le croci celtiche. Ma anche un cartello con scritto “Sandro Pertini è il pio presidente”. Gli ultrà neri di Roma, Lazio e Verona mobilitati dai loro leader. E però nella stessa piazza, sul lato opposto rispetto al palco, anche manifestanti vicini a frange di sinistra extraparlamentare, oltre alla solita galassia negazionista”, ha riferito scrupolosamente Paolo Berizzi su Repubblica.
Grazia Longo sulla Stampa di domenica
“La prima impressione -ha scritto Grazia Longo sulla Stampa– è quella che, oltre a una regia dietro gli exploit della folla inferocita, ci siano stati anche tanti cani sciolti. Uomini e donne di diversa estrazione sociale e di diverso colore politico, anche se la regia di piazza è da tempo in mano all’estremismo di destra, da Forza Nuova a Casapound”
Alessandra Ghisleri è stata tra i pochi, se non l’unica fra i sondaggisti ad esprimere ottimisticamentela convinzione che i disordini di sabato sera a Roma non avranno l’effetto di “una bomba” -titolo invece del Messaggero di oggi- sul ballottaggio capitolino di domenica prossima. Che vedrà contrapposti, per la successione all’ormai eliminata sindaca uscente grillina Virginia Raggi, il candidato del centrodestra Enrico Michetti e quello del Pd Roberto Gualtieri, in ordine non alfabetico ma elettorale, cioè per i voti raccolti nel primo turno.
Per quanto contrastata nel suo collegamento televisivo dall’editorialista del Corriere della Sera Aldo Cazzullo, ospite nello studio domenicale de la 7 sostitutivo di quello feriale di Lilli Gruber, la sondaggista abitualmente indicata come quella di cui si fida di più Silvio Berlusconi ha detto che la campagna elettorale nella Capitale d’Italia è stata troppo contrassegnata dai problemi locali, visti i guai della città, per ritenere che i pur gravi disordini di sabato sera intestabili all’estrema destra possano cambiare le cose. Ci sarebbe inoltre da scommettere, secondo la Ghisleri, sull’abituale resistenza di chi non è andato alle urne al primo turno alla tentazione di recarvisi al secondo per capovolgerne il risultato. Ai ballottaggi, in effetti, l’affluenza di solito cala, non sale. E al primo turno quella di Roma è già stata inferiore al 50 per cento.
Michetti, dal canto suo, ripreso in piazza del Campidoglio a braccia aperte, se non alzate, ha cercato di difendere il suo modesto vantaggio sull’ex ministro piddino dell’Economia -circa tre punti- inseguendolo nel corteggiamento dei voti della pur criticatissima Raggi. La quale peraltro gli ha dato anche una precedenza forse significativa nel rito delle visite di consolazione o di rispetto, con tanto di caffè e scambio di opinioni e notizie nell’ufficio di sindaco.
Michetti con Landini nella sede della Cgil
Poi, per quanto influenzato, ma senza febbre, e comunque confortato da un tampone negativo annunciato o mostrato ai suoi interlocutori di turno, Michetti è corso nella sede devastata della Cgil ad esprimere tutta la sua solidarietà al segretario generale Maurizio Landini furente contro i fascisti, parafascisti e simili che avevano assaltato la sera prima l’ingresso e i locali adiacenti.
Sempre nell’ambito delle iniziative precauzionali o riparatrici, secondo le preferenze o i punti di vita, Michetti si è deciso anche a scusarsi con gli ebrei per la “imperdonabile leggerezza”, scoperta e rinfacciatagli dal manifesto, di avere scritto l’anno scorso per l’emittente romana Radio Radio che l’Olocausto ha avuto, fra tutti i genocidi, più notorietà e raccolto più solidarietà per le capacità “lobbistiche” e bancarie delle vittime e dei loro parenti. “Imperdonabile”, davvero, questo infortunio, come ha riconosciuto l’autore, che deve ora sperare in una abbondante generosità degli offesi, diretti o indiretti che siano. E comunque sperare che quelli non disposti a scusarlo non siano tanti, o se ne stiano almeno a casa.
A questo punto, poiché si profila per la vigilia del ballottaggio una manifestazione nazionale di solidarietà a Roma per il sindacato assaltato da quelli di Forza Nuova e simili, a Michetti non resterà che unirsi ai manifestanti, ben visto da fotografi e telecamere ma rigorosamente zitto per rispettare il famoso e pur abitualmente violato silenzio elettorale. Poi magari egli scriverà una dispensa delle sue, come avvocato e professore amministrativista, su come rimediare meglio alle gaffe.
Tentato ogni tanto dall’imitazione della buonanima di Giulio Andreotti di pensare male nella speranza beffarda di “azzeccarci”, anche se i figli non hanno trovato traccia di questo nei suoi diari, appunti e quant’altro, mi sono chiesto anche davanti alle immagini televisive e foto eloquentissime dei disordini scoppiati particolarmente a Roma se è accaduto tutto dannatamente per caso. E non apposta nel primo e penultimo sabato antecedente il ballottaggio elettorale per l’elezione del sindaco della Capitale.
L’assalto alla sede della Cgil
Mi sono chiesto e mi chiedo se in quei disordini “eversivi”, come li ha definiti la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, in quell’assalto riuscito alla sede nazionale della Cgil e mancato per fortuna alla Presidenza del Consiglio, attorno alla quale ha funzionato il cordone di sicurezza delle forze dell’ordine, non ci fosse più che la dichiarata avversione alle vaccinazioni e al green-pass, il proposito di prevenire, scongiurandola con lo sputtanamento, chiamiamolo così, una vittoria del candidato del centrodestra nel ballottaggio capitolino del 17 ottobre. Che è stato definito “la madre di tutte le battaglie” qualche giorno fa in una intervista al Corriere della Sera dall’indubbiamente pacifico, per carità, Goffredo Bettini, interessatissimo -a dir poco- ad evitare la sconfitta del suo compagno di partito Roberto Gualtieri. E di chi al di fuori del Pd gli vorrebbe dare una mano, come Giuseppe Conte ed amici pentastellati, visto che non è più in lizza la sindaca uscente grillina Virginia Raggi.
Titolo della Verità
Titolo del manifesto
Mi chiedo -insisto- se hanno dominato di più dentro e dietro le piazze, nel corteo non autorizzato ma ugualmente tollerato, gli “idioti”, i “cretini”, i “marci”, come hanno titolato -rispettivamente, da destra a sinistra- La Verità, Libero e il manifesto, tutti riferendosi agli intestatari di destra delle proteste contro i vaccini ,cioè quelli di Forza Nuova, o gli “infiltrati” ammessi da un po’ tutte le cronache, di segno evidentemente opposto.
Questi infiltrati, senza virgolette, su cui sarebbe auspicabile una seria, rapida, efficiente indagine degli organi preposti, più che ai vaccini, al green-pass, alla Cgil, alla Presidenza del Consiglio, miravano nelle e con le violenze di piazza a rovesciare secchi di fango, a dir poco, su quello già sprovveduto di suo che è, almeno politicamente parlando, il candidato scelto dal centrodestra, con o senza il trattino di Silvio Berlusconi, per la corsa al Campidoglio. Sto parlando naturalmente di Enrico Michetti. Che sarà, per carità, un avvocato amministrativista coi fiocchi, garantito in particolare da Giorgia Meloni e fratelli d’Italia, e non solo un “tribuno” della sua o quasi emittente radiofonica romana, ma non ha -francamente- il minimo senso della realtà e dell’opportunità politica.
Enrico Michetti
Roberto Gualtieri
Michetti è riuscito non più tardi dell’anno scorso, pizzicato adesso dal manifesto, anche qui a pochi giorni -guarda caso- dallo svolgimento della “madre di tutte le battaglie”, sempre secondo Bettini, a difendere così male le sicure vittime degli altrettanto sicuri genocidi, alcuni dei quali forse ancora in atto, per esempio in Cina, attribuendo la prevalente notorietà di quello subito dagli ebrei alle loro banche e capacità “lobbistiche”. Dio mio, che disastro. Che zuppa in cui immergere il biscotto di un’eversione elettorale peggiore della violenza rovesciatasi ieri sulla incolpevolissima Capitale d’Italia, e gli ancor più incolpevoli cittadini chiamati a scegliersi il nuovo sindaco dopo il pattume e quant’altro ad essi lasciato dai grillini, compresi quelli, pochi o molti che siano, pronti a votare adesso per Gualtieri.
Vediamo la fine della pandemia, ha annunciato con comprensibile sollievo il presidente del Consiglio in persona, pur corretto in qualche modo dal ministro della Salute Roberto Speranza, che ha raccomandato “cautela”, persino a dispetto del suo cognome. Matteo Salvini dopo l’incontro con Draghi e l’impegno di rivedersi o sentirsi ogni settimana si è dato una calmata almeno sui temi della politica interna, visto che oltre i confini nazionali si è subito buttato a pesce su quella insensata proposta di alzare attorno all’Europa un muro contro gli immigrati: una specie di cortina di ferro o di muro di Berlino di memoria sovietica. Qualcosa forse cambia persino sul versante giudiziario, dove mezza Procura di Milano -la mitica frontiera di “Mani pulite” e dei giustizieri della cosiddetta prima Repubblica- rischia grosso nel tribunale di Brescia per i suoi metodi di lavoro. Ma continua la stagione politica dei “rancori”, come la chiama in prima pagina Il Foglio, che pure le fornisce spesso anche il suo contributo rovesciando, per esempio, contro Salvini più olio bollente di quanto -ed è già tanto- lui non si meriti.
Un’esplosione di rancore è offerta oggi dal solito Fatto Quotidiano. Ai vertici della cui redazione, leggendo una cronaca -riconosco- per niente astiosa dei correttissimi Gianluca Roselli e Giacomo Salvini dopo i dieci minuti di cordiale e convergente conversazione telefonica avuta da Draghi con Silvio Berlusconi, si sono accorti o ricordati che l’odiato Cavaliere fa parte della maggioranza. Ed hanno reagito mettendo nei titoli, di prima pagina e interni, ciò che nella cronaca i loro colleghi avevano omesso di ricordare o rilevare.
Titolo di prima pagina del Fatto Quotidiano
Titolo interno del Fatto Quotidiano
Otre al solito fotomontaggio finalizzato a fare scambiare i due “migliori” per complici di chissà quale affare per niente raccomandabile, Berlusconi è stato riportato alla qualifica di “pregiudicato”, “condannato per frode”, col quale Draghi avrebbe voluto troppo disinvoltamente consultarsi ritenendolo “esperto di fisco”. E così anche inaugurando la pratica concordata col leader leghista di una consultazione settimanale sistematica, fisica o soltanto telefonica, con i leader -tutti i leader, per carità- della composita maggioranza di governo. Precedenza quindi al Cavaliere, par di capire, piuttosto che al segretario del Pd Enrico Letta o al presidente del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte. Che pure meriterebbe forse qualche parola di rapida e intensa consolazione dopo il minimo storico al quale ha portato le liste e i candidati grillini nelle elezioni amministrative di domenica e lunedì scorsi.
Vignetta dek Crriere della Sera di ieri
Della situazione in cui si trova Conte dopo questa scoppola, che ha praticamente azzerato la sua capacità contrattuale nei rapporti col segretario del Pd per la costruzione di quell’alleanza di centrosinistra definita “sperimentale” da Romano Prodi, si è trovata una rappresentazione molto efficace sulla prima pagina del Corriere della Sera di ieri, 8 ottobre, con una vignetta di Emilio Giannelli. Che ha affiancato un cadente e rimpicciolito Conte al ben saldo segretario del Pd e ha ribattezzato il Movimento 5 Stelle “partito di Letta”, altro che lotta, “e di governo”. Un governo “obbligato”, a questo punto, per ammissione dello stesso ex presidente del Consiglio, che al Fatto Quotidiano rimpiangono come il migliore capitato alla Repubblica, e perciò accoltellato dai peggiori per paura e/o invidia: il famoso “Conticidio”.
Povero Draghi, viene voglia di dire con spirito solidale pur davanti alla foto gratificante, per lui e per l’Italia, di “commiato” a Palazzo Chigi dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Che gli avrebbe passato addirittura le consegne della leadership europea, secondo una certa rappresentazione mediatica, a dispetto o alla faccia del successore a Berlino, o di quei nostri un po’ supponenti cugini francesi. A Parigi, si sa, non hanno mai scherzato sul terreno della concorrenza politica e di affari con i governi di turno a Roma.
Povero Draghi, dicevo, perché anche lui, col suo curriculum internazionale, il suo indiscusso prestigio, la sua competenza ha dovuto pazientemente mettere la propria agenda a disposizione dell’intemperante di turno della maggioranza. Che in questo caso è stato naturalmente Matteo Salvini, cui dopo un’ora di incontro chiarificatore, pacificatore e quant’altro ha concesso l’impegno di una replica settimanale, fisica o soltanto telefonica, per prevenire o dissipare nuovi eventuali incidenti, equivoci o simili. E pazienza se, appena Salvini si è vantato di questa concessione servita quanto meno a “ristabilire nel partito -ha scritto Marco Galluzzo sul Corriere della Sera- una gerarchia di potere” compromessa dai ministri e dai governatori del Carroccio, Draghi ha dovuto assicurare i capi o capoccia degli altri partiti della maggioranza che consulterà settimanalmente anche loro.
Il tempo di queste ricorrenti consultazioni sarà probabilmente proporzionale alla consistenza parlamentare delle varie forze, con qualche eccezione forse per il tipo di problema sorto via via lungo il cammino, tanto per non condannare sempre, per esempio, un tipo come Maurizio Lupi ad un saluto e basta. Nelle elezioni comunali di Milano, cui pure aveva aspirato a concorrere come candidato sindaco del centrodestra, l’ex ministro ciellino ha preso gli ottomila voti soltanto appena rinfacciatigli con un certo sarcasmo da Gabriele Albertini.
Le circostanze o, peggio ancora, le pratiche, abitudini e quant’altro della politica hanno costretto Draghi a seguire l’esempio del suo buon amico ed estimatore, del resto, Silvio Berlusconi. Che nel 1994, appena diventato presidente del Consiglio, dovette fare uno strappo ai suoi gusti e stili acconciandosi in Sardegna alle canottiere di Umberto Bossi. Che vagava nell’isola già insofferente come alleato per nomine, preparazione del bilancio, interventi contro la carcerazione preventiva, tensioni con i sindacati sul tema delle pensioni e altro ancora.
Agli incontri in Sardegna con l’alleato in canottiera seguirono quelli ad Arcore, dove a Berlusconi capitò una volta di dover prestare anche il pigiama all’ospite trattenutosi pure di notte. Immagino il sollievo dei domestici dopo avere immaginato Bossi nudo fra le lenzuola non certo dozzinali della villa del Cavaliere.
A Berlusconi comunque non bastarono le cortesie da concavo o da convesso per evitare la clamorosa rottura col “senatur”, che gli procurò lo sfratto da Palazzo Chigi notificatogli dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro con la nomina di Lamberto Dini a presidente del Consiglio.
Riuscito dopo qualche anno a ricucire con Bossi come solo lui poteva fare con la sua ostinazione, e a tornare a Palazzo Chigi grazie alla ricostituzione del centrodestra, Berlusconi aggiornò i suoi metodi invitando sistematicamente a cena di lunedì il leader leghista ad Arcore per chiarire eventuali incomprensioni e definire insieme l’agenda della settimana di governo, prima che entrambi rientrassero a Roma.
La pratica continuò anche dopo le rimostranze di Pierferdinando Casini e soprattutto di Gianfranco Fini, cui non bastarono nè il Ministero degli Esteri prima nè la Presidenza della Camera poi per sopportare quel tipo di rapporto privilegiato fra Berlusconi e Bossi. Alla fine fu rottura. E che rottura, davvero rovinosa per il giovane erede di Giorgio Almirante, pur corteggiatissimo dalla sinistra per i problemi che aveva saputo e voluto creare all’odiato Cavaliere.
Di quelle cene dì lunedì ad Arcore ha ricordato nei giorni scorsi i benefici effetti politici l’ex ministro leghista della Giustizia Roberto Castelli -l’”ingegnere acustico”, come lo sfotteva a Milano Francesco Saverio Borrelli- evocando i tempi fortunati del centrodestra in occasione degli 80 anni compiuti da Bossi, ormai a riposo eppure rimpianto a volte dallo stesso Salvini, nonostante la difficile eredità ricevuta.
Non parliamo poi del vice di Salvini e capo della delegazione leghista al governo Giancarlo Giorgetti, a sentire il quale in una intervista alla Stampa Bossi dovrebbe essere richiamato in servizio per gestire a nome e per conto della Lega la intricatissima vicenda della successione quirinalizia a Sergio Mattarella. Chissà come l’avrà presa Salvini. E chissà se, giusto per cautelarsi, egli non ha cominciato già a parlarne con Draghi facendo breccia nel muro della cortesia, buona educazione e quant’altro verso il presidente ancora in carica opposto di solito all’argomento dal presidente del Consiglio, come anche da Silvio Berlusconi, da Enrico Letta e da Giuseppe Conte, come se davvero per parlarne rispettosamente bisognasse attendere quanto meno la convocazione delle Camere, all’inizio dell’anno nuovo, per l’apertura delle danze. Santa ingenuità, a dir poco.
D’accordo sulle reti che Draghi è riuscito a segnare nella partita con Matteo Salvini raccontata dai giornali in questi giorni, ma bisogna per onestà ammettere anche ciò che Salvini è riuscito alla fine a portare a casa, pur rimettendoci un po’ di faccia per il solito metodo un po’ troppo garibaldino col quale scende in campo, atteggiandosi a goleador.
D’accordo, in particolare, sul fatto che il presidente del Consiglio se n’è sbattuto del dissenso annunciato dai leghisti ed ha varato la delega sul fisco di cui è scontata l’approvazione in Parlamento, comprensiva della revisione del catasto edilizio. I cui eventuali effetti fiscali si decideranno solo nel 2026. Che è una scadenza di fronte alla quale Salvini peraltro non potrebbe continuare a sollevare un muro di paura più alto di tanto perché, così facendo, si mostrerebbe ben incerto della vittoria del centrodestra che invece prenota baldanzosamente un giorno sì e l’altro pure in vista del rinnovo delle Camere. Se è davvero sicuro di vincere le elezioni con Gorgia Meloni e con Silvio Berlusconi, di che cosa si preoccupa o vuole preoccupare gli italiani in ordine a tasse, o simili, in arrivo con la prossima legislatura? Calma, quindi, capitano.
Titolo del Messaggero
D’accordo, inoltre, sul successo mediatico, che in quanto tale è anche politico, dell’incontro avuto ieri a Palazzo Chigi da Draghi per la visita di commiato della cancelliera tedesca Angela Merkel. Che qualche giornale ha tradotto in un “passaggio delle consegne” della leadership europea.
Dalla prima pagina della Stampa
Per fortuna Draghi è un uomo dal sistema nervoso molto saldo, e razionale abbastanza da condividere la prudenza, chiamiamola così, del commento di Mattia Feltri. Che sulla Stampa ha invitato i lettori a ricordarsi che “l’Italia resta l’Italia e la Germania resta la Germania”. E soprattutto a tenere conto che “per contare di più dobbiamo diventare credibili” e che “i soldi del recovery, siccome ne abbiamo ricevuto il grosso, richiedono responsabilità verso noi stessi e verso chi ce l’ha prestati”, o persino regalati. Del resto, Draghi è stato mandato proprio per questo dal presidente della Repubblica a Palazzo Chigi, sostituendo un Conte che non era in condizioni politiche, e forse neppure personali, con tutto il rispetto che giustamente reclama, di garantire la ricerca e tanto meno il raggiungimento di questa necessaria responsabilità collettiva, diciamo così. Che dipende “dal governo, dai partiti, dai sindacati, dalle imprese, dagli elettori, da ognuno di noi”, come ha scritto il mio amico Mattia.
Vignetta di Rolli sul Secolo XIX
Titolo di Libero
Tuttavia Draghi -senza mettergli nel conto delle uscite, come hanno fatto altri giornali tipo Libero, le aperture dei teatri al 100 per cento della capienza, degli stadi al 75 per cento e delle discoteche al 50 per cento in tempi ancora di pandemia- ha concesso o pagato a Salvini quel “colloquio o incontro settimanale” giustamente vantato subito dal leader leghista. Questo tipo di rapporto, pur compensato da analoghe consultazioni con gli altri rappresentanti della maggioranza ufficiosamente annunciate dopo, fa di Salvini un interlocutore privilegiato del presidente del Consiglio. E al tempo stesso, come ha rilevato Marco Galluzzo sul Corriere della Sera, “serve a Salvini a ristabilire nel partito una gerarchia di potere” che sembrava compromessa dall’autonomia presasi di fatto o attribuita al ministro e capo delegazione Giancarlo Giorgetti.
Ben protetto dell’ombrello, Mario Draghi procede spedito e sorridente sotto la pioggia, come nella foto che lo ha ripreso in Slovenia e che il manifesto ha voluto usare sulla sua prima pagina col titolo “no problem” per rappresentare la situazione politica italiana.
Il presidente del Consiglio è insomma sicuro del fatto suo e non si lascia distrarre, condizionare e quant’altro dal “calendario elettorale” -come lo ha chiamato- che assorbe invece le energie dei partiti della sua vasta maggioranza di emergenza, protesi a combattersi fra di loro per contendersi voti, città e quant’altro in vista dei ballottaggi comunali del 17 ottobre, soprattutto a Roma: “la madre di tutte le battaglie”, come la definisce in una intervista al Corriere della Sera Goffredo Bettini, del Pd. Che è in ansia anche dopo il voto personale annunciato per il piddino Roberto Gualtieri da Carlo Calenda dopo avere avuto assicurazione che i grillini, sconfitti nelle urne con la ricandidatura di Virginia Raggi a sindaco, non saranno coinvolti nella nuova giunta dall’ex ministro dell’Economia.
Bettini sa che neppure Calenda, battuto nella corsa al Campidoglio con la sua lista civica, per quanto la più votata fra tutte, potrebbe bastare a garantire la sconfitta del “destro” Enrico Michetti. Cui la Raggi, a prescindere dal caffè appena offertole dal fedelissimo di Giorgia Meloni, potrebbe essere tentata di ricambiare il favore un po’ umorale e un po’ politico ricevuto cinque anni fa dalla destra nel ballottaggio capitolino vinto alla grande sul piddino e radicale Roberto Giachetti, oggi dell’Italia Viva di Matteo Renzi. “Madre di tutte le battaglie” davvero, in ogni senso, questa Roma dove Bettini peraltro si è sempre mosso a suo agio, persino allevando o inventandosi qualche sindaco nei tempi più fortunati della sinistra.
Mario Draghi in Slovenia
Ma torniamo a Draghi e al suo ombrello, sul quale si è inutilmente rovesciata, senza bagnare il presidente del Consiglio, l’acqua del Matteo Salvini rivoltatosi contro la delega fiscale varata dal Consiglio dei Ministri nonostante il dissenso dei leghisti. Ma come la “crisetta” sparata ieri in prima pagina dal quotidiano Libero, anche l’acqua di Salvini si è rivelata acquetta per l’assicurazione data da lui stesso di non volere compromettere la sorte del governo, non foss’altro per non regalare una crisi al segretario del Pd Enrico Letta. Che saprebbe come utilizzarla, impossessandosi cioè del tutto di Draghi, sin forse a mandarlo al Quirinale e a strappargli uno scioglimento anticipato delle Camere utile, fra l’altro, ad evitare, col dovuto rinvio, i referendum sulla giustizia da lui contrastati in sintonia, guarda caso, con Giuseppe Conte. Al quale il segretario piddino vorrebbe “allargare” il centrosinistra, specie ora che i grillini, in caduta libera elettorale, sono più deboli.
La vignetta di Emilio Giannelli sul Corriere della Sera
Sarebbe obiettivamente il colmo se Salvini, promotore dei referendum sulla giustizia con i radicali, facesse al Pd questo regalo, di cui nella Lega peraltro sono ben consapevoli, come dimostra il silenzio non so se più imbarazzato o furente dell’ala cosiddetta governista. Che Emilio Giannelli nella vignetta di prima pagina del Corriere ha rappresentato felicemente nel governatore veneto Luca Zaia, accorso “a bordo campo” per “il modesto strappo” dichiarato da Salvini deciso a “restare in campo”. Ma “senza toccare palla”, gli intima Zaia, assistito nel soccorso dal non meno preoccupato o contrariato ministro Giancarlo Giorgetti.
Non è uno scherzo. Non mi sono inventato nessuna macchina del tempo per tornare indietro di 50 anni. E’ soltanto questa maledetta cronaca politica a portarmi indietro di mezzo secolo e a farmi avvertire di certi inconvenienti, chiamiamoli così, i colleghi fortunatamente più giovani, o meno anziani. O i parlamentari che temono comprensibilmente, direi umanamente, le elezioni anticipate prima di maturare il diritto alla pur modesta pensione, come è stata ridotta, che matura solo sei mesi prima della scadenza ordinaria della legislatura, cioè nell’autunno prossimo.
Gli uni -i colleghi che raccontano e commentano ciò che vedono o percepiscono- e gli altri -i deputati e senatori, peraltro già in sofferenza all’idea delle nuove Camere nelle quali non potranno tornare per la forte riduzione dei seggi imprudentemente disposta da loro stessi, o per la crisi elettorale dei partiti o movimenti di appartenenza o provenienza- non possono per niente scommettere sulla mancanza di precedenti per escludere che il prossimo presidente della Repubblica, o quello uscente se confermato, non oserà mai sciogliere le Camere davanti alle quali ha giurato.
“Non si è ma visto nell’intera storia repubblicana- ha appena scritto proprio qui, sul Dubbio, la pur brava Antonella Rampino- un Capo dello Stato il cui primo atto sia lo scioglimento del Parlamento che lo ha eletto”. Eh no, cara Antonella. Io l’ho visto quando tu avevi solo 15 anni, se ho fatto bene i calcoli. Era il mio amico Giovanni Leone, eletto presidente della Repubblica il 24 dicembre 1971, alla 23.ma votazione, insediatosi col giuramento davanti alle Camere il 29 dicembre, trovatosi il 15 gennaio 1972 di fronte alle dimissioni del presidente del Consiglio, e suo collega di partito, Emilio Colombo e costretto poco dopo dalle circostanze a sciogliere le Camere con più di un anno di anticipo rispetto alla scadenza ordinaria.
Tra le circostanze non certo minori di quella soluzione traumatica della crisi ci fu la necessità o opportunità, come preferite, avvertita da entrambi i partiti maggiori -la Dc al governo guidata da Arnaldo Forlani e il Pci all’opposizione- di evitare un referendum al quale entrambi non si sentivano allora preparati, preferendo tentare di scioglierne il nodo in sede parlamentare. Era il referendum abrogativo della legge istitutiva del divorzio, che per le sopraggiunte elezioni anticipate, appunto, slittò al 1974, quando la Dc passata, anzi tornata nel frattempo sotto la guida di Amintore Fanfani, che l’aveva già condotta negli anni Cinquanta, volle affrontare la prova perdendola clamorosamente.
Non uno ma un bel grappolo di referendum, appena promossi sui temi della giustizia da leghisti e radicali fra l’ostilità del Pd di Enrico Letta e dei grillini, potrebbe essere a 50 anni di distanza, fra qualche mese, il detonatore distruttivo di questa diciottesima legislatura, la più strana o pazza di tutta la storia repubblicana, anche se il segretario piddino ha appena dichiarato al Corriere della Sera di volerla fare arrivare, nel quadro attuale, all’epilogo ordinario.
La coppia ostile ai referendum sulla giustizia: Enrico Letta e Giuseppe Conte
Piuttosto che sciogliere i nodi della giustizia con la lama referendaria sulla responsabililità civile delle toghe, sulla separazione delle carriere e altro, in aperta sfida alla magistratura arroccata come una casta nella difesa degli spazi che si è conquistata in anni anche di supplenza politica colpevolmente permessa dalle maggioranze di turno, Pd e 5 Stelle potrebbero preferire il voto anticipato. E tentare di sciogliere quei nodi legislativamente nelle nuove Camere, se mai riuscissero a vincere le elezioni come Enrico Letta ha mostrato di sperare accontentandosi dei risultati del primo turno di elezioni amministrative svoltosi nei giorni scorsi, anzi esultando per il loro esito e proclamandosi vincitore, federatore e quant’altro di un’alleanza di centrosinistra allargata alle 5 Stelle di Conte, o “sperimentale”, come ha preferito definirla Romano Prodi. Che ha intravisto forse qualcosa anche del suo Ulivo o della sua Unione: le combinazioni con le quali nella cosiddetta seconda Repubblica egli è riuscito a vincere le elezioni contro Silvio Berlusconi due volte, pur non riuscendo poi a durare per i cinque anni successivi.
Ma che su questa diciottesima legislatura Draghi avverta già da tempo i rischi di una interruzione, al di là della inesperienza politica che ogni tanto dichiara per la tutt’altra natura della sua lunga e prestigiosa carriera pubblica, si è capito nei giorni scorsi. Egli ha lasciato scorrere senza smentita una notizia di stampa secondo cui, lasciando disporre in Consiglio dei Ministri una norma facilitativa dei referendum in cantiere, cui si sono aggiunti quelli sulla cannabis e sul fine vita, avrebbe ricordato agli interlocutori il rischio che ogni prova referendaria corre di essere rinviata in caso di elezioni anticipate.
Consentitemi adesso qualche ricordo, anche di natura personale, dell’avventura di 50 anni fa di Giovanni Leone negli scomodi panni del carnefice delle Camere che lo avevano appena eletto, al termine di una gara al cui inizio uno solo scommise sulla sua elezione parlandone in privato con amici: l’allora vice segretario della Dc Ciriaco De Mita, della cui corrente peraltro era quanto meno simpatizzante uno dei figli dell’allora senatore a vita e già due volte presidente del Consiglio.
Il candidato iniziale della Dc in quella edizione della corsa al Quirinale per la successione a Giuseppe Saragat fu Amintore Fanfani, partito dalla postazione favorevole della Presidenza del Senato ma neutralizzato dai “franchi tiratori” del suo stesso partito, oltre che dall’ostilità esplicita dei socialisti pur alleati di governo dello scudo crociato, che ne temevano, a torto o a ragione, tentazioni golliste.
Il segretario del Dc nel 1972: Arnaldo Forlani
Tramontata in una decina di votazioni la pur forte candidatura di Fanfani, nella cui scuderia politica peraltro si era formato, il segretario della Dc Forlani tentò di mettere in pista la candidatura dell’altro “cavallo di razza” del partito. Che era Aldo Moro, già segretario del partito e presidente del Consiglio, in quel momento ministro degli Esteri, per il quale erano disposti a votare anche i comunisti ricambiando la “strategia dell’attenzione” da lui dichiaratamente praticata nei riguardi del loro partito dal 1968. Il tentativo di Forlani, oltre che metterlo in conflitto con la propria corrente, s’infranse contro una risicatissima maggioranza dei gruppi parlamentari democristiani, che a scrutinio segreto, votando appunto sul nuovo candidato al Quirinale, gli preferirono Leone per la disponibilità già dichiarata a votarlo da parte dei liberali, dei repubblicani e dei socialdemocratici.
Eletto nel giro di due scrutini, avendo mancato il primo nell’aula di Montecitorio solo per un voto, Leone si vide fastidiosamente indicato da alcuni colleghi del suo stesso partito, sino a lamentarsene in una lettera scritta poi dal Quirinale al giornale ufficiale della Dc, come favorito nel segreto dell’urna dai missini. “Se qualcuno mi ha favorito è stato Babbo Natale”, mi disse in quei giorni Leone alludendo al clima natalizio in cui ormai si era conclusa quella gara, con i parlamentari smaniosi di tornare a casa, E con Moro, peraltro, impegnato in prima persona a telefonare agli amici delusi della sua mancata candidatura perché votassero disciplinatamente per Leone. Di cui Moro era amico a tal punto da lasciarsi andare, nei loro incontri, all’imitazione vocale e mimica dei colleghi di partito più altolocati.
Per protesta contro l’elezione di Leone i socialisti si ritirarono dalla maggioranza di centrosinistra. E Forlani, d’intesa -dietro le quinte- con i comunisti, che avevano votato per il divorzio ma conoscevano la contrarietà di una parte della loro base, Forlani prese la palla al balzo per indirizzare la crisi verso le elezioni anticipate allo scopo di rinviare un referendum di cui avvertiva tutti i rischi per lo scudo crociato. E Leone, che già aveva tentato inutilmente come senatore di fare modificare la legge sul divorzio per aggirare la prova referendaria, lo assecondò.
I timori di Forlani, poi detronizzato personalmente da Fanfani come segretario, risultarono confermati nel 1974, quando la Dc perse il referendum e man mano tutto il resto, pur nell’arco di una ventina d’anni, e col contributo della ghigliottina giudiziaria delle cosiddette “Mani pulite”.
“Lo strappo di Salvini” troneggia sulle prime pagine dei giornali per annunciare la decisione del leader leghista di fare disertare dai suoi ministri le riunioni di governo sulla cosiddetta “delega fiscale”. Che puntualmente, rispetto al programma esposto al Parlamento e ora collegato anche al piano della ripresa e ai relativi finanziamenti europei, il presidente del Consiglio ha deciso di portare alle Camere.
Ma è uno “strappo” anche la reazione di Mario Draghi, almeno rispetto alla pratica seguita su altri temi in precedenti occasioni, contrassegnate da rinvii e consultazioni suppletive, per esempio quando si vararono a più riprese, fra le proteste, le resistenze e le minacce dei grillini, le modifiche del governo alla riforma del processo penale allora all’esame della competente commissione di Montecitorio. Ricordate?
Che cosa ha indotto stavolta Draghi a tirare dritto, in combinazione col ministro dell’Economia Daniele Franco, sfidando praticamente Salvini a motivare le ragioni del dissenso, ma davvero, entrando nei contenuti del disegno di legge delega. E non solo protestando contro la mezz’oretta che il presidente del Consiglio avrebbe lasciato a disposizione dei leghisti per esaminare il testo, come se fosse un “oroscopo”, prima di discuterlo collegialmente? Hanno spinto a questo il presidente del Consiglio almeno due motivi.
Innanzitutto Draghi è convinto di avere già discusso dell’argomento con i rappresentanti del partito di Salvini, e forse con lo stesso Salvini, fornendo tutte le spiegazioni a lui possibili. E assicurando anche con dichiarazioni pubbliche che la revisione del catasto edilizio, comprensivo della delega, non si tradurrà in un maggiore onere per i contribuenti, dato invece per scontato dall’opposizione di destra di Giorgia Meloni e temuto, a dir poco, dal partito di Salvini. D’altronde, per tradurre in una maggiore tassazione la revisione del catasto occorrerebbe attenderne l’epilogo, non prima del 2023, cioè quando ci sarà un altro Parlamento. Dove Salvini e la Meloni, in teoria, stando alle loro convinzioni, potrebbero trovarsi in maggioranza o addirittura guidare il governo, a seconda di chi fra i loro partiti avrà preso più voti nella coalizione di centrodestra, con o senza il trattino riesumato da Silvio Berlusconi. O potranno trovarsi all’opposizione, e da lì giocare la loro partita.
Vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX
Titolo di Libero
C’è inoltre la consapevolezza da parte di Draghi – anche se il presidente del Consiglio ha diplomaticamente finto di non sapere o volere giudicare questo aspetto tutto politico del problema- di un rafforzamento derivato al governo dai risultati delle elezioni amministrative di domenica e lunedì, visto come ne sono usciti -alquanto malconci- i due partiti che vi partecipano con le maggiori sofferenze. E che sono la Lega, appunto, e il MoVimento 5 Stelle ora guidato da Giuseppe Conte: entrambi poco interessati, a questo punto, se hanno un po’ di sale in zucca, a non peggiorare la loro situazione con una crisi -non la “crisetta” su cui ha titolato Libero– destinata a sfociare in elezioni anticipate dopo che le attuali Camere avranno sciolto, prevedibilmente in febbraio, il nodo del Quirinale eleggendo il successore di Sergio Mattarella o confermando il presidente uscente della Repubblica. Che sta cercando casa in affitto, d’accordo, come ha documentato recentemente con tanto di foto il Corriere della Sera, ma senza per questo dovere per forza lasciare il suo alloggio quirinalizio se ne dovesse ancora avere bisogno per un po’.