Ah, la forza di una foto, ma anche -come vedremo, pur al rovescio- di un fotomontaggio.
La foto è quella della coppia Draghi -il presidente del Consiglio e la moglie- in fondo ad una sala, seduti e dialoganti fra di loro, che attendono il turno della vaccinazione da ultrasettantenni con il tanto contestato AstraZeneca, pur abilitato dalla competente agenzia europea di controllo anche nel nuovo nome, credo, che si è dato di Vaxzevria. E proprio questo dello specifico vaccino che i coniugi Draghi, come il figlio che vive a Londra, hanno accettato di farsi iniettare è il messaggio più importante di quella foto: “il gesto”, come lo ha chiamato in un titolo Avvenire, il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana.

Che anche il presidente del Consiglio, peraltro membro dell’Accademia Pontificia delle scienze sociali nominato personalmente dal Papa, credo acquisti davanti alla chiesa di turno delle messe festive alle quali assiste senza prima avvertire fotografi, cameramen e simili per ricavarne pubblicità.
E’ confortante vedere un uomo pubblico, diciamo così, senza neppure scomodare le figure del presidente della Repubblica, anche lui sottopostosi di recente alla vaccinazione, o del presidente del Consiglio, che compie un “gesto” esemplare di immediata lettura o comprensione.

Ed ora passiamo al fotomontaggio di copertina del solito Fatto Quotidiano in cui il generale Francesco Paolo Figliuolo -il commissario straordinario all’emergenza virale che ha sostituito Domenico Arcuri, rimpianto da quel giornale come un campione pugnalato e deposto dal governo succeduto a quello di Giuseppe Conte, anche lui disarcionato a tradimento- viene esposto al ludibrio dei lettori con le sue decorazioni e i suoi gradi farciti di uova di cioccolata, provolone, pollo arrostito e altro.

E ciò a dimostrazione dell’”ultima” che il generale avrebbe commesso secondo “i controllori dei conti”, quelli della omonima Corte, spendendo “senza criteri” 850 milioni di euro “e pure le sponsorizzazioni per pagare gli hotspot”. Sono “contestazioni”, ripeto, per ammissione dello stesso giornale, che però con quel fotomontaggio e nel contesto del suo modo di vedere l’amministrazione della giustizia diventano nei fatti, plurale del Fatto, già una sentenza definitiva di condanna, in un processo sommario di carta stampata.
Mi chiedo, anzi torno a chiedermi, con la solita ingenuità o il solito rincitrullimento di un anziano che ha trascorso buona parte della sua vita nelle redazioni, tra le vecchie macchine da scrivere e i computer che ne hanno poi preso il posto, se questo può essere davvero considerato giornalismo. O come altro si debba invece ritenere e definire. E me lo chiedo all’indomani dell’approvazione alla Camera, finalmente, di una direttiva europea sulla presunzione d’innocenza contro l’abitudine purtroppo diffusa di presentare persino con “dichiarazioni pubbliche” di magistrati e loro prolunghe una persona “come colpevole” non solo in assenza di giudizio ma addirittura dopo “decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza”. Direttiva europea, Stato di diritto, serietà d’informazione e altro ancora….Ma di che parliamo di fronte allo scempio quotidiano, come la testata in questione, che se ne fa?
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
generale, anche di alcune celebri firme della magistratura
Vittorio Feltri, su Libero, che in fondo sia meglio vedere i magistrati scioperare che lavorare perché non lavorando “non fanno guai”, al richiamo del figlio Mattia, sulla
scrivere di argomenti come questi, per riportarne – oltre al “disgusto” e alla “ribellione” avvertita di fronte alla minaccia di sostanziale sciopero, equiparata a “manifestazione di presunzione sconfinante nell’arroganza”- la “sorpresa per un
questa gravità, per esempio, la nave ammiraglia della flotta di carta stampata anti-casta, anti-privilegi, anti-abusi eccetera, eccetera. Mi riferisco naturalmente al Fatto Quotidiano, che ha preferito continuare a portare, o a mantenere, come preferite, in prima pagina come un’ossessione i viaggi all’estero di Matteo Renzi o le sparate dell’altro Matteo, cioè Salvini. Cui, in un tratto di sorprendente generosità, ha riconosciuto a Mario Draghi in una vignetta il merito di avere tirato le orecchie facendogliele diventare rosse, come fece a suo tempo l’intrepido Giuseppe Conte, quando lo aveva quasi sopra di sé come vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno.
“gli amici di lingua” che ne scrivono così goffamente compiaciuti da diventare “i suoi peggiori nemici”. Temo che ci sia, a insaputa dell’interessato, come capitò a Cristoforo Colombo di scoprire l’America cercando le Indie, dell’autobiografico e del pentimento per i tanti cattivi servizi resi a Conte scrivendone così bene quando stava a Palazzo Chigi, ma -a dire il vero- anche ora che non c’è più, rimpiangendolo quasi in lacrime.
che vengano discusse e affrontate e che il premier dia il suo indirizzo. Profondamente sbagliato è invece inaugurare un tiro al piccione e un fuoco incrociato giornaliero. Non è serio nei confronti delle difficoltà che stiamo vivendo”.
non sono proprio di ieri o di pochi giorni fa. Egli ha scritto, in particolare e con una certa efficacia, che il buon Draghi è un po’ come “un motore Ferrari inserito su un’utilitaria”, viste le condizioni in cui l’inquilino di Palazzo Chigi ha ereditato il sistema politico, e persino anche quello istituzionale. Che, non essendo nessuno riuscito ad ammodernare -mi permetto di ricordare- per le bocciature referendarie riservate dal popolo sovrano, come dice la Costituzione, cioè dagli elettori, alle riforme tentate sia dal centrodestra sia dal centrosinistra, funziona come funziona, cioè a scartamento ridotto.
uscita senza il buco quel cambio di genere praticamente imposto al vertice
dal nuovo segretario del partito Enrico Letta, quasi per scusarsi di non averlo saputo imporre alla guida della formazione politica. Avrebbe potuto farlo semplicemente rinunciando alla candidatura offertagli dal segretario dimissionario Nicola Zingaretti e invocando una segretaria finalmente donna, dopo una sfilza di segretari tutti uomini succedutisi dalla fondazione.
elevata sul palco della cosiddetta parità di genere, ha accusato il capogruppo uscente Graziano Delrio di avere sostanzialmente truccato la gara sponsorizzando l’elezione della sua concorrente. Che, dal canto suo, ha mostrato una concezione particolare della sua vantata autonomia dal gioco perverso delle correnti denunciato con forza dall’ex segretario, sino a vergognarsene e a dimettersi: tanto particolare da avere negoziato con Br -per fortuna l’acronimo non delle brigate rosse ma della corrente degli ex renziani chiamata “Base riformista”- l’assegnazione del posto di vice presidente vicario, per parità di genere rigorosamente
uomo. Sarebbe Piero De Luca, peraltro figlio di Vincenzo, il noto presidente della regione Campania non certo parco di iniziative spesso clamorose, senza le quali Maurizio Crozza perderebbe buona parte del suo divertente repertorio di imitatore, o comico.
con un’elezione all’unanimità per la stragrande maggioranza di cui egli dispone nel gruppo, Enrico Letta avrebbe a mio avviso un solo modo di uscirne bene, o il meno male possibile. Che non è quello già adottato di compiacersi della “sana e bella competizione”, destinata a sfociare martedì in un’altra sana e bella votazione nel gruppo a scrutinio rigorosamente segreto. Sarebbe forse il caso di ricorrere ad un sano e garantito sorteggio, cui peraltro Letta durante il suo recente esilio da insegnante d’alta scuola a Parigi si è mostrato favorevole parlando degli esperimenti, diciamo così, che sono stati fatti in materia in Francia. Se non la meno brava, vincerebbe la più fortunata. Già Napoleone, d’altronde, preferiva che i suoi generali fossero più fortunati che bravi.
il modo in cui egli ha zittito a distanza capitan Matteo Salvini, smanioso che tutto
torni aperto come prima anche perdurando la pandemia virale, e i bollettini quotidiani dei morti, ha dato invece la misura dello spessore internazionale del nuovo presidente del Consiglio. Che, senza farsi o alimentare illusioni sulla rapidità del processo d’integrazione europea con gli eurobond, un bilancio e una fiscalità comune perché “ci vorranno generazioni”, ha incalzato con critiche e richieste costruttive i partner continentali mostrando la competenza e il prestigio guadagnatisi sul terreno al vertice della Banca Centrale Europea.
europeo”, ha t
avesse fatto scattare in anticipo l’ora legale europea, che ci farà spostare la prossima notte in avanti di 60 minuti le lancette dei nostri orologi. A proposito, non dimenticatevi di farlo e non travestitevi da sovranisti per pigrizia.
Draghi “si candida a succedere non a Giuseppe Conte e forse a Sergio Mattarella ma, almeno sul teatro europeo, ad Angela Merkel”, ormai arrivata per sua stessa scelta al capolinea dopo una così lunga e sostanziale guida. “E da questo angolo visuale -ha insistito Delgado- una certa discontinuità con i premier del passato in effetti la si deve registrare” a vantaggio di Draghi.
di anticipazione di Nando Pagnoncelli per il Corriere della Sera. Da cui risulta Conte al 61 per cento del gradimento, “Speranza 41, Meloni 37, Salvini 33, Letta 32, Pd e M5S in crescita, governo 48, Draghi non
pervenuto”. E questo alla faccia -ha osservato Travaglio- dei “cazzari” che si rifiutano di rimpiangere l’ex presidente del Consiglio così ferocemente pugnalato alla schiena nell’ultima crisi di governo. Il quale, secondo la vignetta di Vauro Senesi troneggiante proprio oggi sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, se ne sarebbe lamentato nell’incontro appena avuto con Enrico Letta. Che a sua volta, pugnalato anche lui a suo tempo, e dalla stessa persona, naturalmente Matteo Renzi, lo avrebbe realisticamente consolato dicendogli che “col tempo ci si abitua” anche con quel pugnale ancora nelle carni.
poi con i giornalisti, “un’avventura affascinante”, Renzi l’ha dimostrata con queste parole, sempre nell’intervista al Messaggero: “Al momento non è fissato alcun incontro. Non ho alcun problema personale a incontrare Letta. Ci farà sapere lui”.
con “l’amico Enrico” esortato a suo tempo a “stare sereno” pur mentre lo stesso Renzi, fresco di elezione a segretario del partito, si preparava a prendergli il posto di presidente del Consiglio non considerandolo “adatto”. E preferendo piuttosto immaginarlo, in una telefonata intercettata con un generale amico della Guardia di Finanza, al Quirinale. Dove però era stato da alcuni mesi confermato Giorgio Napolitano, non ancora stanco del secondo mandato e tentato dalla rinuncia sopraggiunta nel 2015. Intanto i rapporti con Letta si erano rotti con quel campanello del Consiglio dei Ministri scambiato con visibile fastidio e le dimissioni polemiche dell’ormai ex presidente del Consiglio anche da deputato per un esilio dorato a Parigi, insegnante di una prestigiosa scuola di politica.
rinviate all’autunno. Da Letta è stato tradotto addirittura in una “affascinante avventura”, che è stata
definita “sorprendente” su Repubblica da Stefano Folli, in qualche modo in sintonia con Laura Pellegrini. Che nella sua vignetta firmata, al solito, Ellekappa fa capire sullo stesso giornale che avrebbe preferito morire prima di dovere sentir dire e vedere che il Pd è “l’interlocutore privilegiato dei 5Stelle”, come del resto pensava anche Nicola Zingaretti, il predecessore dell’attuale segretario chissà perché, a questo punto, dimessosi per la “vergogna” procuratagli dal poltronismo delle correnti. Alle quali poteva bastare e avanzare che egli cominciasse davvero a prescrivere e fare rispettare una certa dieta, senza fare tanto chiasso e aggravare con la sua protesta l’immagine del partito.
con le loro dichiarazioni. E questo non per la bella Chiesa barocca che troneggia sulla piazza, ma per il posto preciso che in un altro edificio di quella piazza Letta -presumo- ha scelto per incontrare Conte: la sede della sua Arel. Dico “sua” perché lì, nell’Agenzia di Ricerche e Legislazione, il segretario del Pd è in
qualche modo cresciuto intellettualmente e politicamente al seguito dell’economista e più volte ministro Beniamino Andreatta. Il cui rigore intellettuale e la cui assonanza politica con Aldo Moro mi sembrano francamente di una distanza -ripeto- siderale dal movimento grillino: sia nella versione d’esordio, sia in quelle di segno diverso e contraddittorio emerso dalle alleanze di governo strette prima con la Lega di Matteo Salvini e poi col Pd di Zingaretti, sia infine in quella che Conte elabora faticosamente, a dir poco, maneggiando codici, contratti e quant’altro. E dividendosi fra la professione o l’esperienza forense e la vocazione politica scoperta governando, pur a suo modo, in questa così anomala legislatura.
rosse il 9 maggio 1978 dopo 55 giorni di penosa prigionia e quello sterminio della scorta, in via Fani, che un’esponente delle stesse brigate rosse, ospite di una trasmissione televisiva, avrebbe poi definito con orrore “una macelleria”. Come se non fosse stata macelleria anche quella improvvisata con l’ostaggio nel bagagliaio di quell’auto in cui i suoi aguzzini l’avevano messo per sparagli, inerme, a turno.
lontano dai riflettori, anche nelle tante cerimonie celebrative del padre. Ed io sono
rimasto un po’ fermo alle sue immagini di ragazzo, quando lo vedevo camminare con la mano in quella del padre. Che dalla cosiddetta prigione del popolo in cui lo tenevano rinchiuso i terroristi nel loro lungo braccio di ferro con lo Stato, ma ancor più in generale col senso profondo della vita e dell’umanità, aveva in qualche modo consigliato al figlio, forse già attratto allora dalla naturale propensione a seguire le orme del genitore, a tenersi lontano dalla politica che gli era stata così fatale.
ha ospitato ieri col titolo felicemente significativo “Le parole che cerco nel Pd”. Al quale Giovanni, pur essendo ancora dichiaratamente “senza partito”, con tanto di virgolette, ha rivolto la sua attenzione non certo a caso “apprezzando i propositi del nuovo segretario” Enrico Letta. Che può ben considerarsene compiaciuto, più ancora -a mio avviso- del cambio al femminile propostosi ai vertici dei gruppi parlamentari, che mi sembra peraltro condiviso da Giovanni Moro con quella doglianza per le diffuse “resistenze- ha scritto- a prendere sul serio la questione delle donne”. Come anche per “la ritrosia a trattare temi “divisivi connessi ai diritti civili o alla ridefinizione dello status legale della cittadinanza”. Che invece il nuovo segretario del partito ha sollevato nel sostanziale discorso di investitura, pur avendo a mio avviso sbagliato poi, per difendersi e quasi scusarsi di fronte alle critiche, anzi agli attacchi ricevuti all’esterno dal leader della Lega Matteo Salvini, di averne parlato per “soli venti secondi”. Per cui sarebbe stata esagerata tanta reazione negativa.
a capo anche un avvocato civilista e un giurista dell’esperienza accademica di Giuseppe Conte. E’ importante, o quanto meno significativo, il fatto che pur in queste condizioni il Pd riesca ad attirare l’interesse, e forse anche la voglia di parteciparvi, del figlio di Aldo Moro. Sul luogo del cui tragico sequestro, non dimentichiamo neppure questo, lo stesso Enrico Letta ha raccontato di essere stato portato ancora adolescente dal padre avvertendo emotivamente la voglia di fare politica da grande. E cominciò in effetti a farla nel liceo di Pisa dove studiava.
seguirne sempre e necessariamente le indicazioni perché Andreatta abitualmente preferiva le soluzioni nette ai compromessi, cui invece Moro era obbligato dal carattere sempre composito delle sue maggioranze.
Travaglio nel suo
editoriale-direttoriale ha storpiato il nome della Moratti da Letizia a Mestizia. Bel colpo. E meno male che questo campione della spiritosaggine non è finito a dirigere qualche ufficio anagrafico
perché vi lascio immaginare che cosa avrebbe combinato negli atti di nascita e nella confezione delle carte d’identità.
all’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al perdurante ministro della Sanità Roberto Speranza per la gestione della pandemia in una vignetta colorata in cui l’uno e l’altro sono seduti, in vigilanza o raccoglimento processuale, su una bara. Mah. Di questi tempi, poi…..
preso sul serio a sua insaputa il proprio cognome. Che equivale, secondo il dizionario della lingua
italiana, ad un “antichissimo gioco d’azzardo”. Al quale, in qualche modo, Morra e la scorta -cui egli ha ordinato o non ha impedito di “identificare” alcuni presenti alla “ispezione” improvvisata in una struttura sanitaria di Cosenza, suo collegio elettorale- si sono esercitati scommettendo su non so quale violazione di leggi, regolamenti o altro nella selezione delle persone da vaccinare. E Dio solo sa -per carità- quante sono quelle che vorrebbero immunizzarsi dal Covid 19 e non ci riescono, non solo a Cosenza o, più regionalmente, in Calabria.
e una donna del 1937. E quando non li ha trovati sulla lista ha fatto il pazzo”, chiamando peraltro al telefono il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, collega o ex collega di partito perché nel frattempo Morra risulta espulso dal movimento grillino per avere negato la fiducia al governo Draghi. Una telefonata che potrebbe avere contribuito a far salire la pressione del sangue al funzionario, sino a farlo sentire male, per fortuna non tanto perché l’interessato ha già annunciato che andrà in commissariato a denunciare l’accaduto.
commissione antimafia, d’altronde già contestagli in questa legislatura dalle opposizioni
abbia proceduto. Neppure “la cattiveria” di giornata gli è stata dedicata per cercare di indorare con l’ironia una critica o qualcosa che le potesse assomigliare, essendo stati preferiti come “cattivi” due renziani pur tornati nel Pd, forse per dare una mano al capogruppo a rischio di sostituzione per motivi di genere.
riconoscere. Tuttavia nel titolo, o in quella parte che tecnicamente si chiama “occhiello”, c’è un di più, diciamo così, che fa la differenza. “Attaccato con falsità”, è scritto a proposito di Morra, a dispetto di tutte le apparenze, a dir poco. E le apparenze nella cultura non proprio garantista dei grillini d’antan, come Morra andrebbe considerato, dovrebbero avere la loro importanza.