In pochi giorni dalla fila alla ressa davanti alla porta di Super Mario

             Formidabile quell’Altan, sulla prima pagina di Repubblica, che reclama in questi tempi di epidemia virale i distanziamenti sul tram affollato di Mario Draghi. Il povero Sergio Mattarella al Quirinale si sentirà un po’ in colpa per avere messo nella circolazione politica un mezzo così pericoloso per i contagi cui si espongono i passeggeri. Dalla fila, in effetti, si è passati in pochi giorni alla ressa lamentata in rosso dal Fatto Quotidiano davanti alla metaforica porta dell’ex presidente della Banca Centrale Europea. Che è stato incaricato di formare il nuovo governo al di fuori delle formule e degli schemi sperimentati in questa legislatura sempre più abbinabile a quel maggiolino matto del cinema per le strade di San Francisco.

            Un fotomontaggio del giornale diretto da Marco Travaglio con le immagini, a scalare da sinistra a destra, di Nicola Zingaretti, i due Mattei -Renzi e Salvini- e Silvio Berlusconi ha cercato di coprire di sarcasmo “il governo di alto profilo” affidato dal Quirinale alla sartoria, diciamo così, di Draghi. Ma per reticenza manca un attore in quel fotomontaggio: Beppe Grillo. Dal quale Travaglio deve essersi sentito pugnalato come Cesare da Bruto, pur ad età invertita, prima per la lunga telefonata col presidente incaricato, poi coll’improvviso viaggio a Roma per cercare di controllare di persona quell’inferno che è diventato il Movimento 5 Stelle e guidarne come “garante”, “elevato” e quant’altro la delegazione con la quale Draghi ha voluto chiudere il suo primo giro di incontri o consultazioni. E ciò nelle sale messegli a disposizione dal presidente, guarda caso grillino, della Camera Roberto Fico, della cui esplorazione Mattarella si è servito per archiviare l’aspirazione di Giuseppe Conte a formare un suo terzo governo, in meno di tre anni, quanti non ne sono ancora passati dalle elezioni del 2018.

            Ora Conte, per quanto resosi forse disponibile a entrare pure lui nel governo Draghi per continuare ad esserci, come ha promesso dietro al tavolino allestito in tutta fretta in Piazza Colonna, fra Palazzo Chigi e Montecitorio, fa bella mostra di sé fra le statuine in terracotta aggiornate durante la crisi da Genny Di Virgilio, l’artigiano dell’arte del presepe di via San Gregorio Armeno, nella Napoli di Fico. Per Conte il povero Travaglio aveva progetti più ambiziosi, e se ne sarà sentito tradito non meno che da Grillo, Vito Crimi, Luigi Di Maio e altri ancora votatisi ormai al “suicidio assistito”, che peraltro non mi sembra estraneo alla sensibilità del direttore del giornale sicuramente fra i più letti sotto le cinque stelle.

            Temo che Travaglio sia ormai in caduta immunitaria così libera da meritare la precedenza nella campagna di vaccinazione in corso antipandemica. Lo desumo dalla speranza che ha appena espresso che in un sussulto di dignità, coerenza e chissà cos’altro i grillini, convocati dalla solita piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio, facciano ancora in tempo a rifugiarsi almeno nell’astensione verso il governo Draghi e a proporre la nomina dell’ormai pensionato Piercamillo Davigo a ministro della Giustizia, visto che la conferma di Alfonso Bonafede è difficile anche da immaginare. Davigo, si sa, è quello che ritiene gli assolti, nei processi, soltanto scampati ad una più meritata condanna.  

 

 

 

 

 

 

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Berlusconi dalla Provenza ruba un pò la scena anche a Draghi

Figuriamoci se Silvio Berlusconi non si lasciava perdere l’occasione per partecipare in qualche modo alla festa del “suo” Mario Draghi. Al quale ha telefonato di persona per anticipargli l’appoggio che la delegazione forzista gli avrebbe espresso nelle ore successive e scusarsi del divieto impostogli da medici e familiari di muoversi dalla villa in Provenza. Dove la figlia Marina lo ha affettuosamente e metaforicamente chiuso a chiave per proteggerlo dal Covid.

Quel “suo” nasce dalla convinzione di Berlusconi di essere stato lui nel 2011, ancora presidente del Consiglio, a volere e saper portare Draghi alla presidenza della Banca Centrale Europea.

Certo, il curriculum già internazionale dell’allora governatore della Banca d’Italia era tanto consistente da rendere difficile alla Cancelleria di Berlino o all’Eliseo una resistenza oltre un certo limite alla candidatura avanzata da Berlusconi. Al quale i vertici comunitari, a dire il vero, guardavano ormai più con diffidenza che con simpatia, preferendo spesso interloquire direttamente col presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sino a metterlo qualche volta in imbarazzo. Ma, per carità, non ditelo al Cavaliere, convinto di essere stato lui, e soltanto lui, l’artefice di quel trasferimento di Draghi a Francoforte.

Si sa che Berlusconi è tanto orgoglioso quanto geloso dei suoi successi e gli dà fastidio doverli condividere con altri. D’altronde, ai tempi della sua sostanziale defenestrazione da Palazzo Chigi, sempre in quel fatidico autunno del 2011, egli fece buon viso al cattivo gioco della crisi del suo ultimo governo di fronte al nome del successore: Mario Monti.  A proposito del quale Berlusconi  non perse un istante per vantarsi di averlo voluto, da presidente esordiente del Consiglio nel 1994, a rappresentare l’Italia con Emma Bonino nella Commissione Europea. Anche Monti era in qualche modo “suo”, e continuava ad esserlo anche dopo essere stato confermato a Bruxelles dai governi successivi, di segno politico opposto.

Fu tanto orgoglioso di dovergli cedere Palazzo Chigi che Berlusconi, contrariamente alla prassi, volle controfirmare personalmente il decreto del Presidente della Repubblica con cui Monti veniva nominato a senatore a vita per alti meriti prima di ottenere l’incarico di presidente del Consiglio. Così peraltro quel poco che era, ed è, rimasto dell’immunità parlamentare poteva in qualche modo mettere al riparo il capo del nuovo governo da qualche iniziativa avventata di un sostituto procuratore della Repubblica. E chi più di Berlusconi poteva capire e condividere una simile cautela?

Va detto che Monti non si mostrò per nulla imbarazzato da tanto calore. E si compiacque della decisione di Berlusconi di interrompere, diciamo così, l’alleanza con la Lega di Umberto Bossi pur di votargli la fiducia. Quella del Carroccio fu invece opposizione dura, alla quale tuttavia si convertì pure Berlusconi in vista delle elezioni ordinarie del 2013. Che il Cavaliere, col fiuto e l’ostinazione che gli riconoscono anche gli avversari, ritenne di poter vincere se affrontate con la Lega. E ci sarebbe riuscito se Monti, per una sostanziale ritorsione in nome della difesa della propria “agenda” politica, non fosse sceso in campo pure lui con un movimento che poi si dissolse come neve al sole nella nuova legislatura, non prima però di impedire -come poi egli stesso si sarebbe più volte vantato- una candidatura vincente di Berlusconi al Quirinale per la successione a Giorgio Napolitano. Che infatti, fallite le corse di Franco Marini e di Romano Prodi, entrambi azzoppati dai soliti “franchi tiratori” dello schieramento di appartenenza, fu confermato.

Lasciatemi esprimere con tutta franchezza la convinzione che Berlusconi, se fosse riuscito ad andare al Quirinale, difficilmente sarebbe finito dopo solo qualche mese in quella curiosa storia di un processo per frode fiscale celebrato in ultima istanza, quasi al limite della prescrizione, e conclusosi con la condanna del primo o fra i primi contribuenti italiani. Quello che è uscito proprio in questi giorni dai ricordi di Luca Palamara sugli intrecci fra magistratura e politica avvalora, a dir poco, la mia impressione.

Ma torniamo a Draghi e al suo governo, di cui si può dare ormai per scontato che nascerà con l’aiuto, a dir poco, di Berlusconi. Che è tornato d’altronde sulla scena già da  qualche tempo, se mai ne è stato davvero allontanato, col progressivo logoramento del secondo governo di Giuseppe Conte. E’ un Berlusconi di cui non si capacita -giustamente dal suo punto di vista- il pugnace Marco Travaglio. Che ieri sul Fatto Quotidiano, nervoso anche coi pentastellati refrattari ai suoi consigli e ormai prenotatisi, secondo lui, al “suicidio assistito”, si chiedeva se davvero Draghi e persino Beppe Grillo, con tanto di fotomontaggio, si apprestassero a “governare con lo Psiconano”. Che naturalmente è diventato nel testo dell’editoriale, non bastando il dileggio fisico, il solito “pregiudicato amico dei mafiosi”.

 

 

 

 

 

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Mario Draghi è già riuscito a scomporre tutti gli schieramenti politici

             Mario Draghi è riuscito già a scomporre così tanto gli schieramenti di questa diciottesima legislatura che a contrastarlo davvero sulla strada della formazione del nuovo governo, quello di “alto profilo” e svincolato dalle “formule” che gli ha chiesto il presidente della Repubblica, è rimasta la sola Giorgia Meloni nella rappresentazione sommaria, diciamo così, del vignettista Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera. Sommaria, perché mancano accanto alla Meloni quei grillini -non si può ancora sapere quanti esattamente- che resistono ancora alla svolta ordinata, autorizzata, suggerita, come preferite, da Beppe Grillo in persona, col supporto del presidente del Consiglio uscente Giuseppe Conte. Che è sceso in piazza a incoraggiare Draghi parlando dietro un tavolino, sullo sfondo di Montecitorio, che forse lo ha fatto scambiare da qualche passante per un venditore di pentole, o di microfoni.

            La svolta dei vertici pentastellati -fra i quali naturalmente Luigi Di Maio, che cerca di guadagnarsi sul terreno il pragmatismo andreottiano attribuitogli tempo fa con generosa intuizione dal direttore del Corriere Luciano Fontana- ha messo particolarmente in crisi Marco Travaglio. Che sul suo Fatto Quotidiano ha protestato contro “il suicidio assistito” degli amici in un editoriale che gli è venuto anche un pò sgrammaticato, con un “che” di troppo d’altronde comprensibile per lo stato d’animo nel quale lo ha scritto. Diavoli di amici, non hanno seguito il suo consiglio di opporre a Draghi quel “no cortese ma fermo” che sarebbe stato necessario almeno per salvare un po’ della faccia originaria, dopo tutte le giravolte seguite alle elezioni del 2018.

            Ancora più forte sul Fatto Quotidiano è stata la reazione del vignettista Riccardo Mannelli, che se l’è presa col presidente della Repubblica Sergio Mattarella scorgendo nell’incarico a Draghi tracce di golpismo, aggravate -temo per Mannelli- dalla fila che si è già creata davanti alla porta del presidente del Consiglio incaricato per salire a bordo del suo governo, secondo lo spietato titolo del manifesto. D’altronde solo gli sprovveduti, nelle condizioni in cui si trova un Paese stretto fra varie emergenze, potevano prevedere qualcosa di diverso da ciò che si sta verificando attorno alla decisione del capo dello Stato di ricorrere alla riserva maggiore della Repubblica. Che solo un pazzo avrebbe potuto lasciare inoperosa, dopo la storica presidenza della Banca Centrale Europea, nell’ufficio onorifico di governatore emerito della Banca d’Italia o nella lista dei consulenti, o quasi, del Papa come esponente della Pontificia Accademia delle scienze sociali.

            Tra gli effetti consolanti della chiamata di Draghi alla guida del governo, dove spero che saprà comporre nel giusto equilibrio scelte tecniche e politiche, guardando contemporaneamente alla concretezza dei problemi e all’immagine dei partiti destinati ad appoggiarlo in Parlamento, permettetemi di includere il ritorno del vegliardo Eugenio Scalfari all’interesse per la crisi. Dai cui sviluppi solo qualche giorno fa egli aveva preso a tal punto le distanze da scrivere con toccante sconforto della “fine del viaggio” che avvertiva avvicinandosi la sua 97.ma primavera. La chiamata di Draghi ha felicemente sorpreso pure lui, che si era accontentato di auspicare, prima della sconfortante visione della morte, il ricorso di Mattarella a Paolo Gentiloni, richiamandolo dalla Commissione Europea di Bruxelles. Egli ha ottenuto e visto ben di più.

 

 

 

 

 

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Salvate il soldato Casalino… nella debacle del secondo governo Conte

Vi prego di comprendere la mia debolezza -temo inguaribile alla mia età- di difendere lo sconfitto, piuttosto che di saltare sul carro del vincitore di turno, o addirittura del trionfatore, come potrebbe risultare alla fine di questa crisi di governo il prestigioso Mario Draghi.

Mi ha un po’ troppo insospettito il clima generale d’ironia o sarcasmo diffusosi attorno al portavoce del presidente del Consiglio dimissionario Giuseppe Conte. Mi riferisco naturalmente a Rocco Casalino, che non ho avuto la ventura di conoscere ma di cui vedo che non basta più lamentare il passato televisivo al “Grande fratello” e l’abitudine, che riconosco nociva per il suo capo, di usare il telefonino come una mezza clava per protestare contro giornalisti e altri ancora spintisi, ai suoi occhi, troppo in avanti con le critiche e gli attacchi al suo “principe” inteso in senso machiavellico.

Ebbene, pur con tutte le riserve che merita sempre un servizio troppo zelante, mi sento di difendere o comunque proteggere Casalino dall’accusa di avere da solo, o lui soprattutto, messo sulla cattiva strada il professore, avvocato e ormai presidente davvero uscente del Consiglio dei Ministri nella gestione prima della “verifica” della maggioranza, imposta da Matteo Renzi, e poi dello stato virtuale di crisi creatosi con le dimissioni delle due ministre renziane. Ma soprattutto con le motivazioni datene dal loro leader  in persona in una conferenza stampa da cavalleria rusticana.

Più che un politico, l’ex sindaco di Firenze, ex presidente del Consiglio ed ex segretario del Pd sembrò quella sera, nell’aula messagli a disposizione dal presidente della Camera, il protagonista di un’edizione improvvisata della celebre opera del livornese -e quindi toscano pure lui- Pietro Mascagni, ambientata tuttavia in Sicilia.

A sentire i passaggi più urticanti di quella conferenza stampa, o a leggerne i resoconti, Conte reagì  a poche centinaia di metri di distanza, nel suo ufficio a Palazzo Chigi, proponendosi di non avere “mai più” rapporti con  l’ormai ex alleato, anzi di “asfaltarlo” al Senato con un bel po’ di parlamentari in uscita dalle opposizioni. Alcuni dei quali erano già in sosta nel purgatorio del gruppo misto, in attesa di altri con cui costituire una formazione buona a rendere superflui i voti sino ad allora determinanti dei renziani.

Ma le cose, si sa, sarebbero poi andate assai diversamente dalle speranze del presidente del Consiglio e dalle attese da lui create al Quirinale. Tutta colpa di Rocco Casalino, si è praticamente detto e scritto in questi giorni. Eh no, signori. Non facciamo Rocco, e i suoi fratelli, disponendo lui di un bel gruppo di collaboratori, più influente di quanto non possa essere stato su un avvocato e un professore non certo degli ultimi, per quanto approdato in politica per caso quasi tre anni fa. E subito in una posizione di rilievo come quella di capo del governo, dopo che i suoi sostenitori non lo avevano programmato per una postazione superiore a quella di un ministro della Funzione Pubblica.

Era già da tempo, prima ancora di quella conferenza stampa galeotta di Renzi, che Conte aveva allargato, diciamo così, il cerchio dei suoi interlocutori, assistenti, consiglieri e quant’altro. E aveva preso l’abitudine di pendere dalle labbra o dal cellulare, fra o sopra gli altri, di Goffredo Bettini. Che ad un certo punto era diventato nelle cronache giornalistiche, fra retroscena e interviste, un mezzo segretario ombra del Pd: il secondo partito della coalizione di governo e primo della sinistra certificata all’anagrafe politica.

Bettini prima aveva sognato la maggioranza giallorossa come un tavolo a tre  gambe, delle quali una costituita dai grillini, l’altra dalla sinistra e l’altra ancora da un Renzi incoraggiabile nel progetto di accorpare l’area tradizionalmente moderata e di centro. Ma poi, di fronte alle libertà presesi via via sempre di più da Renzi, lo aveva abbandonato al suo destino e incoraggiato Conte a studiare il modo di liberarsene definitivamente, anche a costo di rimanere con un impossibile tavolo a due gambe.

Persino Nicola Zingaretti, il segretario del Pd spesso infastidito dalla rappresentazione di Bettini come di un suo ispiratore, e poi -in una dichiarazione attribuitagli e mai smentita- dal credito che questi guadagnava sempre di più pur non avendo alcun incarico nel partito, essendo solo uno dei duecento e rotti esponenti della direzione, è sembrato alla fine arrendersi ad una realtà sfuggitagli di mano. Egli infatti ha  lasciato silenziosamente inserire Bettini negli immancabili articoli sul toto-ministri come un nuovo esponente di un  secondo governo Conte rimpastato o di un terzo.

Immagino come anche Bettini sia rimasto deluso, a dir poco, dalla piega presa dalla crisi e cerchi anche lui di consolarsi vedendo che a rimanere sulla graticola mediatica, accanto a Conte, è rimasto solo Casalino: il povero Casalino, consentitemi di aggiungere con uno spirito o un senso di solidarietà che magari l’interessato non gradirà neppure.

 

 

 

 

 

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Mario Draghi fa già volare la Borsa e precipitare i grillini nella confusione

              Al solo vedere e sentire le stringate dichiarazioni di Mario Draghi al Quirinale dopo avere ottenuto l’incarico  di formare il novo governo, senza quindi aspettare le sue consultazioni per quella che il manifesto ha definito con la solita efficacia la tessitura della propria tela, i mercati sono andati “in festa”, come ha titolato il giornale della Confindustria 24 Ore. I grillini invece sono andati in lutto. o in tilt, quanto meno divisi, come d’altronde il centrodestra.

           Ma mentre sotto le 5 stelle sono divisi su come boicottare Draghi, votandogli contro in Parlamento o cercando di inserirsi nella nuova maggioranza per forargli le gomme lungo la strada, il centrodestra è diviso su come aiutarlo: con l’astensione proposta da Giorgia Meloni, una volta resasi conto di essere in minoranza nella coalizione osteggiandolo, o col voto favorevole che vorrebbe Berlusconi. E da cui è quanto meno tentato Matteo Salvini, premuto da Giancarlo Giorgetti.  Che  vede giustamente nel passaggio di Draghi un’occasione irripetibile per sciacquare nelle acque dell’ex presidente della Banca Centrale Europea, come Alessandro Manzoni nell’Arno per la lingua italiana, il sovranismo ormai logoro o comunque superato della Lega, dopo la svolta solidaristica imposta all’Europa dall’emergenza pandemica.

            I grillini sono insomma quelli messi peggio di fronte alla coraggiosa decisione di Sergio Mattarella di mettere in campo la riserva più importante e prestigiosa della Repubblica -Maro Draghi, appunto- per chiudere una crisi trascinatasi troppo a lungo anche per le resistenze alla sua apertura  opposte dal presidente del Consiglio uscente Giuseppe Conte. Che ora fa l’offeso, oltre che il deluso, e minaccia di non accettare eventuali offerte del successore, fosse anche quella quasi d’abitudine del Ministero degli Esteri che si fa a chi esce da Palazzo Chigi.

           Sotto le cinque stelle sono un po’ tutti prigionieri dei pesanti giudizi espressi da almeno il 2014 contro Draghi, e ricordati con felice puntualità e perfidia da Mattia Feltri nella sua rubrica di prima pagina della Stampa e del Secolo XIX, titolata questa volta “Ad occhio e croce” per dire che così, appunto, tornano  i conti delle loro posizioni e del loro modo di vedere lo sviluppo in un mondo che dovrebbe fare a meno delle banche e dei banchieri. Proprio oggi sul Fatto Quotidiano il vignettista Vauro Senesi satireggia contro Draghi perché metterebbe “al sicuro la democrazia in banca”. Gli si contrappone sul Riformista l’ex compagno di partito Sergio Staino indicando in Draghi la felice smentita dell’assunto grillino dell’”uno vale uno”.

            Marco Travaglio, sempre sul Fatto Quotidiano naturalmente, ha avuto la disinvoltura di scrivere che “se nascerà, il governo Draghi sarà giudicato come tutti gli altri: ne valutereno maggioranza, ministri e scelte in base alle nostre convinzioni, senza pregiudizi né positivi né negativi”. Ma non più tardi di ieri lo stesso Travaglio ha reagito alla notizia dell’incarico a Draghi chiedendo ai grillini e al Pd di opporre “un no gentile”, bontà sua, abituato com’è a insolentire gli interlocutori che non gli piacciono,”ma netto”. Netto come il percorso di sostegno, indirizzo e quant’altro dei grillini, e ora anche del povero Pd, seguito con ostinazione dal Fatto strappato alla memoria dell’inconsapevole e incolpevole Enzo Biagi, titolare di un’omonima e celebre trasmissione televisiva.

 

 

 

 

 

 

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Tutti i sacrifici imposti da Conte a Mattarella negli ultimi mesi di governo

Provo a fare il conto, temo incompleto, dei fioretti che da buon credente Sergio Mattarella ha fatto da almeno ottobre sino all’intervento che ha dovuto eseguire sulla politica commissariandola, come si sono lamentati dalle parti del manifesto, col ricorso a Mario Draghi per chiudere la crisi di governo.

Il primo fioretto fu il silenzio opposto in autunno ai tentativi del presidente del Consiglio di applicare in modo quanto meno improprio i consigli del Quirinale di coinvolgere le opposizioni nella gestione delle varie emergenze che si accavallavano dopo l’estate: pandemica, sociale, economica e finanziaria, come lo stesso Mattarella ha ribadito di fronte all’esito negativo dell’esplorazione affidata al presidente della Camera. Anziché coinvolgerle, Conte cercò subito di dividere le opposizioni, pensando ai vantaggi che potevano derivarne all’interno del Pd, dove esistevano tendenze più o meno esplicite a coinvolgere Silvio Berlusconi in un gioco utile a cautelarsi dai primi segnali di insofferenza di Matteo Renzi.

Anche il secondo fioretto fu un silenzio: quello opposto da Mattarella, come se non se ne fosse accorto, al tentativo di Conte di gestire con molto comodo la indesiderata verifica della maggioranza alla fine impostagli da Renzi con una certa vivacità e dal Pd con minore forza. Le riunioni di politici ed esperti erano tanto frequenti quanto inutili, e alla fine neppure più frequenti.

Il terzo fioretto fu la firma apposta senza alcuna doglianza nel vedersi arrivare sulla scrivania il bilancio dello Stato a poche ore di distanza dalla scadenza dei termini per evitare il ricorso all’esercizio provvisorio: legittimo, per carità, come rilevato da costituzionalisti di prima fila, ma dannoso nei mercati finanziari. Dove gli avvoltoi non riposano mai nelle loro speculazioni.

Il quarto fioretto di Mattarella fu quello, non so francamente se richiesto esplicitamente dal governo, dal Pd o da altri ancora o solo intuito come loro necessità dal presidente della Repubblica, di accreditare una disponibilità del Quirinale a fronteggiare una eventuale crisi troppo accidentata ricorrendo allo scioglimento delle Camere e alle elezioni anticipate. La cosa in effetti ha funzionato per un po’ come deterrente a favore di Conte e di una sua ricerca di senatori “responsabili, europeisti, volenterosi” e quant’altro con cui sostituire i renziani nella maggioranza, specialmente al Senato. Dove  gli “italoviventi”, dal nome del partito di Renzi, erano e sono rimasti determinanti anche nella votazione di fiducia cercata da Conte dopo le dimissioni delle due ministre fedelissime dell’ex sindaco di Firenze.

Il quinto fioretto del capo dello Stato è stato proprio quello di permettere a Conte, una volta perdute le due ministre renziane, di non dare le dimissioni e di tentare nell’aula di Palazzo Madama di “asfaltare” -parola attribuita al portavoce Rocco Casalino, per quanto poi smentita- il partito ormai troppo scomodo di Renzi.

Il sesto e ultimo fioretto, almeno nel mio elenco che -ripeto- potrebbe essere incompleto, Mattarella lo ha fatto concedendo alla maggioranza giallorossa, ormai in crisi aperta anche formalmente, i tempi supplementari del mandato esplorativo al presidente della Camera. Che non è riuscito, neppure lui, a contenere i compagni di partito o movimento, cioè i grillini. Costoro infatti, messi al tavolo comune con gli altri per tentare un’intesa programmatica, ci hanno ripensato sulla promessa del reggente Vito Crimi di soprassedere alle questioni “divisive”, riducendole al solo ricorso ai finanziamenti europei per il rafforzamento del servizio sanitario. E hanno poi opposto barricate quando gli altri hanno sollevato i problemi, per esempio, della giustizia e del troppo costoso reddito di cittadinanza. Ma oltre a questo i pentastellati hanno tentato di blindare i loro ministri più esposti, a cominciare dal guardasigilli Alfonso Bonafede, scambiando la formazione di un nuovo governo per un piccolo e indolore rimpasto di quello dimissionario.

Quando ha raccolto il rapporto di Fico sulla sua esplorazione Mattarella è sbottato come solo i pazienti riescono a fare, chiudendo praticamente la partita con l’incarico pieno e fiduciario a Draghi per un governo di “alto profilo”, ben oltre le formule e gli schieramenti formatisi in questa anomala diciottesima legislatura. A metà del cui percorso sono state bruciate già due maggioranze di segno opposto.

In condizioni normali si sarebbe tornati alle urne, ma Mattarella ha spiegato con dovizia di argomenti la eccezionalità di questi tempi. E, anche a costo di farsi accusare da quelli del Fatto Quotidiano di “negare il voto sempre evocato”, ha preferito scommettere sulla responsabilità delle Camere attuali, alle cui forze rappresentate ha chiesto di dare la fiducia al governo Conte. D’altronde l’articolo 88 della Costituzione affida alla sola e insindacabile valutazione del presidente della Repubblica la praticabilità delle elezioni anticipate.

 

 

 

 

 

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Meno male che c’è Mario Draghi, chiamato a chiudere la crisi di governo

        Meno male che è scoppiata questa crisi di governo, per quanto aperta con caparbio ritardo da un presidente del Consiglio che aveva semplicemente paura di affrontarla, pur conoscendone le ragioni. Essa ha dato al presidente della Repubblica l’occasione o il coraggio, come preferite, di affidarne la soluzione al prestigioso Mario Draghi. Che negli otto anni di presidenza della Banca Centrale Europea ha fatto onore a un’Italia pur attraversata da un’ondata antistorica di sovranismo in cui -ricordiamolo bene- si è avuta la crescita non solo della Lega, da qualche parte considerata il male assoluto, specie dopo l’incauta ambizione ai “pieni poteri” confessata da Matteo Salvini, ma anche del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Che è arrivato  nel 2018 con più del 32 per cento dei voti al ruolo centrale, in Parlamento, che fu della Democrazia Cristiana.

           Una sola cosa si può  onestamente contestare a Sergio Mattarella. E’ di avere contribuito alla cattiva maturazione della crisi, pur diventata necessaria per gli oggettivi limiti del secondo governo Conte e della sua troppo composita e paralizzata maggioranza, alla fine galleggiante sui rinvii e sull’emergenza pandemica. In particolare, il Quirinale si è per un bel po’ lasciato silenziosamente attribuire, perciò accreditandola, la determinazione a sciogliere le Camere nel caso di una caduta del governo giallorosso. Che ha potuto giovarsi della paura delle urne – in un Parlamento che già di suo ha un terzo dei seggi soprannumero dopo i tagli voluti dai grillini dalla prossima edizione- per resistere in quella specie di fortilizio in cui Conte aveva trasformato Palazzo Chigi. E addirittura per aprire una campagna, peraltro fallita, di arruolamento di senatori “responsabili, europeisti, volenterosi” e quant’altro sostitutivi degli scomodissimi renziani, infine fuorusciti dal governo. Ciò ha oggettivamente allungato i tempi della crisi e persino intossicato di più i rapporti politici.

               Mattarella non ha certamente scoperto solo all’ultimo momento, e su segnalazione di Matteo Renzi, dopo l’esito negativo dell’esplorazione affidata al presidente della Camera, le ragioni serie e persino drammatiche che ha esposto con molta franchezza ed efficacia davanti alle telecamere per scartare le elezioni anticipate. E per mettere in pista con Draghi un governo di “alto profilo”, scommettendo sul senso di responsabilità, questa volta vera, del Parlamento chiamato costituzionalmente a dargli la fiducia, al di là delle “formule” e degli schieramenti sviluppatisi in questa legislatura. Alla irresponsabilità, permettetemi di dirlo, si sono già prenotati i fratelli d’Italia di Giorgia Meloni ed altri, per esempio fra i grillini e il solito Fatto Quotidiano,, che anche a Draghi preferirebbero le elezioni anticipate, come se a disporne fossero loro e non il presidente della Repubblica  in via esclusiva, per dettato costituzionale e non per capriccio.

               Sull’esito negativo della missione del presidente grillino della Camera Roberto Fico hanno pesato in modo decisivo nell’ultimo dei quattro giorni messigli a disposizione dal Quirinale i compagni di partito dell’esploratore. Essi si sono arroccati su alcuni temi cosiddetti divisivi del programma di un terzo governo Conte e hanno reclamato l’inamovibilità non solo del presidente dimissionario del Consiglio ma anche di alcuni ministri quanto meno logorati, come quelli pentastellati della Giustizia e dell’Istruzione. I grillini volevano insomma non un nuovo governo ma un rimpasto limitatissimo di quello ormai caduto. Ora anche loro, come tutta la politica, si trovano in qualche modo commissariati nelle condizioni d’emergenza del Paese.

 

 

 

 

 

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Conte appeso ormai a Renzi come ad un oracolo per il suo terzo governo

             Ormai, fallito il tentativo di neutralizzarlo con i “volenterosi” inseguiti al Senato, più che ai “giochi da tavolo” a Montecitorio, come il manifesto ha definito gli incontri fra i partiti voluti dal presidente della Camera sul programma, Giuseppe Conte è appeso alle parole di Matteo Renzi come ad un oracolo. E l’oracolo toscano ha espresso in una lettera elettronica ai militanti, simpatizzanti e amici la “speranza” nella formazione “entro la settimana” del nuovo governo.  Che -ha aggiunto o ammonito- “dovrà essere all’altezza delle sfide di questo periodo”. In cui le emergenze si sprecano, essendo di natura sanitaria, sociale ed economica, come ha ricordato Sergio Mattarella a chiusura delle sue consultazioni. Ma personalmente aggiungerei anche una crisi addirittura istituzionale, essendo per esempio diventato di fatto il Parlamento da bicamerale a monocamerale.

            Sui provvedimenti più importanti, a cominciare dal bilancio per finire ai decreti legge imposti dalle varie urgenze del Paese, o la Camera o il Senato, secondo le occasioni, ma prevalentemente il Senato, dove i numeri della maggioranza sono di solito ballerini, è costretto dall’uso abituale della fiducia a ratificare il voto espresso in prima battuta dall’altro ramo del Parlamento. La presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati se n’è lamentata più volte, anche con una certa durezza o vivacità, ma il destinatario principale delle proteste ha scrollato le spalle, scambiando la signora per una rompiscatole non a caso proveniente dall’opposizione di centrodestra. L’ideale sarebbe stata la provenienza della presidente del Senato dalla Lega di Matteo Salvini o dai fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, e non invece dalla Forza Italia di quel Silvio Berlusconi che in certi passaggi di questa crisi è stato sognato come un possibile liberatore da mezzo Pd a voce alta e da una parte addirittura dei grillini a voce bassissima, quasi impercettibile.

            Quella speranza dell’oracolo toscano nella formazione di un nuovo governo entro questa settimana, trattandosi ormai di pochi giorni, ha fatto comunque pensare ad almeno alcuni degli amici di Conte che esistano buone possibilità, nonostante certe apparenze, ed altri segnali ambigui dello stesso oracolo, che il presidente del Consiglio dimissionario venga incaricato di formare il suo terzo governo. In cui, magari, Conte dovrà rassegnarsi ad avere meno spazi di manovra e a fare ingoiare altri e più dolorosi rospi al movimento che lo ha portato a Palazzo Chigi, quello delle 5 Stelle, ma sarà pur sempre e ancora il presidente del Consiglio, meno ossessionato almeno per qualche mese dal fantasma di Mario Draghi. Che Renzi si prende il gusto ogni tanto di citare ed elogiare in coincidenza con auspici e sollecitazioni di altre parti politiche, compreso il pur odiato Salvini.

            Se sono rose o roselline per Conte fioriranno in questi giorni, sia pure fuori stagione, a conclusione di una crisi che l’autorevole senatore del Pd Luigi Zanda, in una intervista a Repubblica, ha definito “la più delicata e difficile”, fra le “tantissime” cui ha “assistito”, perché “i problemi del Paese sono profondi e le condizioni dell’Italia in piena pandemia sono serie”. Ma ormai al Fatto Quotidiano i contiani integralisti, chiamiamoli così, hanno varcato il Rubicone e si sono messi a preferire anche loro le elezioni anticipate, come il centrodestra, incitando il presidente del Consiglio a “sfdare” le urne, dopo avere sfidato inutilmente il Senato scommettendo sui già citati “volenterosi”.

 

 

 

 

 

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Eugenio Scalfari si sente alla fine del suo lungo viaggio, spero a torto

Vi confesso che, nonostante o proprio a causa delle tante volte in cui mi è capitato nella mia lunga attività di giornalista di dissentire dalle sue analisi, sollecitazioni e giudizi, mi è venuta la pelle d’oca per l’emozione e la simpatia alle prese con l’articolo in cui Eugenio Scalfari, scrivendo -credo di proposito- per un numero feriale e non domenicale, come d’abitudine, della Repubblica di carta da lui fondata 45 anni fa, ha voluto raccontare ciò che avverte nel momento in cui si sente alla “fine di un viaggio” cominciato per lui quasi 97 anni fa. E mi scuso per questa lunga, lunghissima frase. Che in un’altra occasione avrei accorciata o spezzata con espedienti che non mancano a chi usa scrivere, ma che in questa circostanza lascio come mi è venuta perché tutto rimanga spontaneo nella reazione ad un articolo così toccante e, direi, istruttivo.

E’ impossibile non intenerirsi quando si legge del vecchio, vegliardo Scalfari che ricorda gli odori, i sapori e quant’altro del bambino, poi ragazzo, poi adolescente avvertendo in questo ritorno al passato “il segno” di un futuro troppo corto. Mi metto, peraltro, nei panni della figlia Donata, con la quale ebbi il piacere di lavorare dirigendo il primo telegiornale dell’allora Fininvest che veniva trasmesso in differita e si chiamava Dentro la notizia. E provo a immaginare e condividere amichevolmente le lacrime che leggendo il padre le saranno venute agli occhi, o che avrà fatto una fatica immane a trattenere.

No. Da vecchio, anch’io, dissidente da tante sue battaglie politiche, a cominciare dalla rivolta nel 1979 al tentativo del mio amico Bettino Craxi di “tagliare la barba a Marx”, scrisse lui commentando il famoso saggio a quattro mani del leader socialista e di Luciano Pellicani inneggiante al socialismo umanitario e ottocentesco di Pierre Joseph  Proudhon, auguro sinceramente a Scalfari di averte avvertito male i segnali sul suo viaggio. E ai suoi lettori di non avere letto né l’ultimo, né il penultimo né uno degli ultimi articoli del fondatore del giornale preferito.

Temo, piuttosto, che abbia fatto male a Scalfari, procurandogli scoramento e quant’altro, la crisi di governo in corso, che deve essere apparsa anche a lui la più anomala di tutte quelle capitategli di seguire, senza peraltro poter fare nulla, diversamente dalle abitudini di un passato neppure tanto lontano, per contribuire a determinarne gli sviluppi con prese di posizione, consigli, interviste mirate e altri tipi di segnali ai naviganti della politica. Lui stesso ha molto onestamente e perciò apprezzabilmente raccontato, nell’articolo sul presunto tratto finale del suo viaggio, della propria “scrittura funzionale, utilitaria, pensata per uno scopo e indirizzata a destinazione”.

“Quella scrittura -ha insistito Scalfari- ha avuto un suo stile: può piacere o non piacere ma l’ha avuta”. E come l’ha avuta, aggiungo pensando alle tante volte in cui  parlavo dei suoi editoriali  con Indro Montanelli ai tempi del Giornale. Di cui cui ero notista politico e poi editorialista, prima della rottura consumatasi per la valutazione di un personaggio -Craxi- su cui Indro finì per riconoscersi curiosamente nel giudizio critico di Eugenio. E quando glielo rinfacciai amichevolmente, diciamo così, Montanelli non fece una piega rispondendomi: “Può capitare”.

Di questa crisi ora affidata alle “esplorazioni” del presidente grillino della Camera Roberto Fico – il più attrezzato certamente ad esplorare soprattutto i suoi compagni di partito o movimento, alquanto turbolenti di fronte alla prospettiva di una ricostituzione della maggioranza uscente, comprensiva cioè di Renzi, o “Matteo d’Arabia”, come lo chiamano gli avversari per i rapporti ben remunerati di collaborazione col principe ereditario di Rijad- Scalfari ha scritto di recente dando due consigli dei suoi ai protagonisti e attori.

Il primo consiglio è stato di non fidarsi praticamente di Renzi per il suo troppo repentino passaggio “dalla carezza allo schiaffo”. Eppure Scalfari nel 2016 si espose a suo favore sostenendone la riforma costituzionale nella campagna referendaria, a costo di compromettere care e importanti amicizie come quelle con Barbara Spinelli e con Guastavo Zagrebelsky. E prima ancora  egli aveva intrecciato con l’allora segretario del Pd e presidente del Consiglio rapporti di consulenza, diciamo così, culturale indicandogli i libri da leggere e controllandone gli effetti con appositi interrogatori, come un maestro con l’allievo.

Il secondo consiglio di Scalfari per la soluzione della crisi è stato di richiamare da Bruxelles il commissario europeo Paolo Gentiloni e restituirgli Palazzo Chigi, dallo stesso Gentiloni consegnato nel 2018 a Giuseppe Conte con risultati evidentemente inferiori alle aspettative del fondatore di Repubblica. Ma sembra che per la testa dei signori della crisi,  compreso l’esploratore della crisi Roberto Fico, per quanto Gentiloni calzi a pennello col problema dell’utilizzo dei fondi comunitari della ripresa, urgente quanto quello della lotta al Covid, passino ben altre idee o progetti.

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

La sfilata consolatoria dei “sedotti e abbandonati” del mitico Centro…

            “Sedotti e abbandonati”, si è scritto dei parlamentari, soprattutto senatori, non essendovi problemi alla Camera, disposti ad appoggiare il governo di Conte sostituendosi ai renziani usciti dalla maggioranza, e dallo stesso esecutivo, dopo un lungo tira e molla col presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che, incline ormai a “dribblare la Costituzione” secondo Michele Ainis su Libero,  non aveva molta voglia di trattenerli, anche se ogni tanto mostrava il contrario solo per cortesia verso il presidente della Repubblica prodigatosi, come al solito, in consigli alla prudenza, al dialogo, al confronto e a tutte quelle altre che la buonanima di Amintore Fanfani chiamava “parole magiche” accusando Aldo Moro, l’altro “cavallo di razza” della Democrazia Cristiana, di farne troppo uso per rendere “irreversibile” la scelta del centro-sinistra.

             Erano gli anni in cui i socialisti chiedevano col segretario del partito Francesco De Martino “equilibri più avanzati” allarmando una parte della Dc cui l’allora presidente aretino del Senato aveva offerto una sponda, pur avendo preceduto Moro nella politica dell’apertura a sinistra mentre ancora durava l’esperienza del centrismo di tradizione degasperiana. Era stato lui, Fanfani, a formare nel 1960, dopo la caduta di Fernando Tambroni nelle piazze,  il primo governo sostenuto esternamente con l’astensione dal Psi di Pietro Nenni.

            Torniamo però a Conte e alla crisi in atto con l’esplorazione delle forze politiche della maggioranza uscente affidata dal capo dello Stato al presidente della Camera. Che, prima di mettere oggi tutti attorno allo stesso tavolo per discutere del programma, ha regolarmente incontrato i “sedotti e abbandonati”, appunto, di quell’area europeista, moderata ed ex grillina cui il presidente del Consiglio si era rivolto nelle settimane scorse per cercare di liberarsi dai condizionamenti di Renzi, e di spaccargli pure partito e gruppi parlamentari per ridurlo alla inconsistenza politica. L’operazione, come si sa, è miseramente fallita tra aspetti anche di una certa comicità, come il senatore uscito e rientrato in Forza Italia dalla sera alla mattina, o la senatrice Alessandrina Lonardo, moglie di Clemente Mastella, che non ha aderito al gruppo autonomo allestito apposta a Palazzo Madama dal sottosegretario agli Esteri Riccardo Merlo, del Movimento associativo degli italiani all’estero (Maie), per l’assenza di “Noi campani”, la formazione di famiglia, dall’intestazione limitata agli “europeisti”, al Maie e al “Centro democratico” di Bruno Tabacci. Che proviene come Mastella dalla Dc e, più in particolare, dalla sinistra demitiana chiamata “Base”, ma non è molto gradito -da quel che si è capito- al sindaco di Benevento. Sono cose che capitano, specie nelle diaspore.

            Vedere queste mancate truppe contiane di rincalzo sfilare nella loro scarsa e al tempo stesso atomizzata dispersione a Montecitorio nella sala delle esplorazioni del presidente Fico mi ha procurato -scusatemi- un sentimento di tristezza. Mi son detto, o ripetuto, che la Dc non meritava né quello scioglimento a mezzo telegrafico rimproverato all’ultimo segretario Mino Martinazzoli persino da Umberto Bossi, né le imitazioni o addirittura rianimazioni poi tentate da reduci e simili. Ed ho capito il fastidio che mostra un ex democristiano o ancora democristiano doc come Pier Ferdinando Casini ogni volta che parla di questi “amici” alle televisioni o ai giornali che lo intervistano da senatore indipendente rieletto l’ultima volta nelle liste del Pd nella sua Bologna.

 

 

 

 

 

 

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