Quando anche la politica riesce a diventare prigioniera dell’odio

La bravura riconosciuta sulla Stampa dal mio amico Marcello Sorgi a Beppe Grillo per avere saputo rovesciare gli umori del suo popolo a favore del governo di Mario Draghi, pur ricorrendo ad un quesito referendario un po’ farlocco, e a costo di chissà quali conseguenze in futuro per la stessa sopravvivenza del suo MoVimento, mi ha fatto riflettere -non me ne voglia Marcello- sulla stranezza del nostro Bel Paese. In cui Grillo rischia di pagare la sua bravura con una dose suppletiva di animosità, o di odio, nei suoi riguardi. Ora gli dà addosso persino Marco Travaglio che, già sorpreso dalle sue precedenti aperture all’ex presidente della Banca Centrale Europea, non gli perdonerà mai di essersi alla fine ritrovato anche col “pregiudicato”, “amico dei mafiosi”, “psiconano” e quant’altro Silvio Berlusconi.

A quest’ultimo, diciamo la verità sino in fondo, gli avversari più accaniti, gli integralisti dell’odio, non perdonano tanto le vicende giudiziarie, suscettibili di errori come tutte le vicende umane, comprese quelle sentimentali o solo di sesso, quanto la bravura che ne ha determinato i successi imprenditoriali e politici. Si, anche politici, perché, pur considerando le sconfitte, le battute d’arresto e persino le emorragie della sua Forza Italia, un uomo che a 84 anni compiuti, con non so quante cicatrici addosso per gli interventi chirurgici subiti, i continui ricoveri per controlli e infortuni, riesce a rimanere o a tornare protagonista della scena, e a scaldare -unico- il cuore dell’algido presidente del Consiglio incaricato durante le consultazioni a Montecitorio; quest’uomo, dicevo, non può essere scambiato per una comparsa, un abusivo, un improvvisato, un pregiudicato qualsiasi. Via, diciamo la verità. L’odio è un po’ l’invidia travestita da conflitto avvolto in altre bandiere, come quelle dell’onestà, della purezza, dell’incensurabilità, della continenza e di altre categorie ancora dello spirito e dintorni.

Lo stesso discorso vale per l’odio che circonda di questi tempi Matteo Renzi, di cui ormai si contesta quasi l’esistenza stessa, negandone anche il successo evidente com’è stato quello di avere creato l’occasione adatta perché il capo dello Stato tirasse fuori dalla scuderia della Repubblica un cavallo di razza -si sarebbe detto nella Dc-  quale Draghi. Come anche l’odio che circonda l’altro Matteo, Salvini, dal quale si può dissentire per molte ragioni, per carità, dalle felpe ai rosari, dai porti chiusi alle citofonate, ma cui non si può negare il successo costituito dall’avere raccolto la guida della Lega a meno del 4 per cento dei voti e di averla portata a sei volte tanto in modo costante, senza contare le quasi dieci volte raggiunte nelle elezioni europee del 2019. Che magari gli diedero talmente alla testa da fargli sbagliare tempi e modi di una crisi di governo studiata per interrompere una legislatura che gli stava troppo stretta. Ma un po’, diciamolo, stava stretta anche ad altri, larga forse solo ai grillini con tutti quei voti e seggi parlamentari conquistati l’anno prima.

Debbo dire che anche nella cosiddetta prima Repubblica, che preferisco per tante ragioni alla seconda, alla terza e persino alla quarta in cui qualcuno crede di essere entrato non so quando, titolandole anche fior di trasmissioni televisive, la bravura era rischiosa, e dura da riconoscere o ingurgitare.  Lo provarono sulla loro pelle, vittime di rancori irrefrenabili e persino di congiure, due leader che pure più diversi non potevano essere come Aldo Moro e Bettino Craxi: l’uno finendo ucciso dalle brigate rosse nell’anno in cui avrebbe potuto diventare presidente della Repubblica, alla fine della scadenza ordinaria del mandato del collega di partito Giovanni Leone, e l’altro scampando alla galera, per il pur diffusissimo fenomeno del finanziamento irregolare della politica, con l’esilio nella sua casa tunisina. O con la “latitanza”, a rigor di legge o di come la interpretano tuttora i suoi irriducibili nemici.

L’astuto Giulio Andreotti, pace all’anima sua, da buon amico di Alberto Sordi, che lo stimava e secondo me votava sistematicamente, insieme ad altre centinaia di migliaia di persone abituate ancora alla pratica delle preferenze, aveva ben capito umori, difetti, manie degli italiani evitando sempre di esibire i suoi successi. Egli prendeva in giro quelli che si esaltavano alla prima vittoria conseguita o che reclamavano -disse una volta- la puntualità dei treni italiani come se fossero svizzeri, dando loro sornionamente degli emuli di Napoleone. Gli bastava e avanzava quella che una volta definì “aurea mediocrità”, e lo condusse un’altra volta, scontrandosi con Ciriaco De Mita che lo aveva accusato di troppa prudenza nella gestione dei rapporti con gli alleati di turno, che anche in politica “è meglio tirare a campare che tirare le cuoia”.  Ciò lo mise a lungo al riparo proprio dall’odio, perché -gratta gratta- anche i suoi avversari politici, non certo quelli giudiziari, di lui e della sua ironia alla fine sorridevano.

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Draghi prepara la lista dei ministri fra la polvere di stelle prodotta dai grillini

              Davide Casaleggio, pur avendo tenuto ad annunciare di persona i risultati del referendum svoltosi sul nascente governo Draghi attraverso la piattaforma Rousseau di cui solo lui ha le chiavi, si è dimenticato di metterli ben visibili nella copertina del blog ufficiale delle Stelle. Dove per leggerli bisogna scorrere in basso la pagina e trovarli fra le righe senza un particolare risalto.

            Sbaglierò, ma temo -per lui- che il dato più sgradito a Casaleggio sia stato quello non della spaccatura del movimento, diviso fra il quasi 60 per cento dei sì e il quasi 40 dei no a Draghi in versione verde, come il vignettista Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno si è divertito a definire il presidente del Consiglio scoperto e raccomandato da Beppe Grillo, ma del calo degli iscritti alla sua piattaforma. Che dai 160 mila e più vantati nei tempi non dico d’oro ma quasi sono scesi esattamente a 119.544. Di cui hanno partecipato alla “consultazione” digitale 74 mila e rotti. Né mi pare che Casaleggio, pur godendosi lo spettacolo di un “governo complicato”, come lo ha definito in una intervista al Corriere della Sera, possa sperare in una ripresa della sua piattaforma mentre Alessandro Di Battista, da lui peraltro già rimpianto, si sfila dalla lista per non partecipare alla festa di Grillo. Che Makkox sul Foglio ha imperdibilmente rappresentato col comico felice di avere “battuto i grillini in casa”. Formidabile battuta, quasi quanto “la cattiveria” di giornata dello sconsolatissimo, indignatissimo e quant’altro  Fatto Quotidiano, secondo cui “ormai l’unico quesito al quale i 5Stelle risponderebbero no è: “Faresti un governo con il M5S?”.

             Il quesito, si sa, è tutto in un referendum. E da quello sfacciatamente filo-Draghi su cui si sono misurati i grillini, intestato da Casaleggio al “reggente” ma di fatto steso di pugno o comunque dettato da Grillo in persona al sottoposto Vito Crimi, hanno dissentito per primi i partecipanti alla consultazione. Uno dei quali, firmatosi Giuseppe Grillonr, non so cosa intendendo per r, ha scritto fra i cinquecento e più commenti che ho scorso: “Ora raccogliete i cocci, voi che avete detto sì, e cercate di farne un vaso di ferro. Ne avete bisogno in una palude tossica popolata da draghi, caimani e cazzari vivi e padani”. Ne sarà orgoglioso Marco Travaglio, vedendo quanto riesca bene a trasmettere ai suoi lettori concetti e parolacce, come un piromane con la benzina in una foresta da bruciare.

            Davide Casaleggio, come d’altronde Nicola Zingaretti nel Pd pensando alla partecipazione di Matteo Salvini alla maggioranza di unità o salvezza nazionale voluta personalmente dal presidente della Repubblica, o Silvio Berlusconi pensando alla partecipazione dei grillini, non ha forse torto a pensare, come dicevo, ad un governo “complicato”. Credo però che abbia torto a scommettere che uno come Draghi se ne lascerà travolgere, come è invece accaduto a Giuseppe Conte col suo secondo e anch’esso complicato governo, fatto di partiti impegnati sino al giorno prima a dirsene e darsene di tutti i colori. Eppure ancora oggi Marco Travaglio ha sentito il bisogno insopprimibile di tessergli l’elogio scrivendone come di quello “più sociale e lontano dalle lobby mai visto in Italia”. Manca la prece d’obbligo, politicamente parlando, s’intende.

 

 

 

 

 

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Silenzio, si vota…ma solo sotto le 5 Stelle, e in piena sicurezza sanitaria

            Dunque, si vota. No, Giorgia e fratelli, non montatevi la testa e non correte in piazza ad esultare per il fallimento del tentativo di Mario Draghi di formare il governo e per la resa di Sergio Mattarella alla richiesta della Destra di mandare gli italiani alle urne, rinnovando finalmente le Camere affollate di grillini dal 2018 e perciò paralizzate.

            Draghi sta preparando tranquillamente la lista dei ministri da portare al Quirinale per il suo “Ecogoverno”, come lo ha già battezzato Avvenire, il giornale dei vescovi italiani. Il logo potrebbe essere quello creato da Beppe Grillo in persona sul suo blog personale, con l’Italia tutta verde infiocchettata dal tricolore. Altro che l’”ammucchiata” proposta con dileggio, e con tanto di fotomontaggio, da Marco Travaglio sul suo Fatto Quotidiano, e con quel Draghi truccato da grillo, al minuscolo, dal fantasioso Vauro Senesi, sullo stesso giornale.

            Si vota, cara Giorgia e fratelli, solo sotto le 5 Stelle, dalle 10 alle 18 della giornata di oggi, in piena sicurezza sanitaria, senza bisogno di spostarsi da casa. Si vota al computer, purché iscritti alla “piattaforma Rousseau” di Davide Casaleggio, e su un quesito scritto di suo pugno da Grillo per farsi rispondere sì. “Sei d’accordo -ha chiesto il comico ai suoi spettatori a distanza- che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal Movimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi”. Punti, virgole, minuscole e maiuscole sono tutte, anche nella loro precarietà, del fondatore e garante del MoVimento. E pazienza se, una volta tanto, non può riconoscervisi Travaglio, che come “vero quesito” avrebbe preferito un bel sì o no all’”Ammucchiata” di cui sopra.

            Massimiliano Panarari si è chiesto con una certa preoccupazione se l’Italia, più ancora di Draghi che prepara la lista dei ministri e Mattarella che lo aspetta al Quirinale, può rimanere “appesa” ad una consultazione digitale sotto le 5 Stelle. Beh, una volta tanto mi sento non dico di difendere, ma di comprendere sì Grillo e la sua compagnia di giro. Che hanno i loro riti da rispettare, peraltro in modo abbastanza elastico e accomodante quando si tratta di conquistare o di conservare poltrone, potere e quant’altro.

             Per quanto Travaglio -sempre lui- e tutti gli altri malpancisti del MoVimento e dintorni siano in subbuglio e mobilitati nell’antimobilitazione, perseguendo un’affluenza digitale alle urne minima, da rinfacciare poi a Grillo e a tutti gli adoratori di quello che al manifesto  hanno chiamato oggi “il drago verde”, penso che né Draghi, al maiuscolo e al plurale, né Mattarella abbiano motivi di attendere con preoccupazione i risultati del referendum digitale pentastellato. Via, l’uno e l’altro hanno avuto ben altre occasioni di ansia nella loro vita.

            Ma a proposito di ansia lasciatemi manifestare un certo stupore per quella espressa dal presidente uscente del Consiglio Giuseppe Conte sulla maggioranza troppo larga delineatasi attorno a Draghi, che potrebbe “frenare l’esecutivo”. Lo ha detto lui, Conte, che ha guidato due governi entrambi caduti per l’immobilismo rimproveratogli da alleati che lo consideravano troppo condizionato dai veti dei grillini: Salvini nel 2019 e Renzi nel 2021, entrambi di nome Matteo, con una coincidenza anche d’analisi a dir poco diabolica.

 

 

 

 

 

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Matteo Renzi tra chi lo ringrazia per Draghi e chi lo maledice

Premetto che sarò ancora un po’ controcorrente tornando ad occuparmi di Matteo Renzi dopo quello che se n’è scritto anche qui, sul nostro Dubbio. E ora che la sicura formazione del governo di Mario Draghi appare a molti destinata ad oscurare chi pure, come Renzi appunto, ha quanto meno contribuito a spingere verso Palazzo Chigi l’ex presidente della Banca Centrale Europea. Di cui nei mesi scorsi, sempre da Palazzo Chigi, Giuseppe Conte aveva rivelato la “stanchezza” dopo tanta fatica a Francoforte, e il sostanziale disinteresse alla presidenza del Consiglio.

In una maggioranza così larga come quella delineatasi  da Silvio Berlusconi a Beppe Grillo, da Matteo Salvini a Nicola Zingaretti passando per tutte le sfumature di centro che abbiamo visto sfilare davanti a Draghi nelle consultazioni a Montecitorio, Renzi è ridotto a poco più di qualche briciola. I suoi starnuti non faranno più notizia. Draghi, pur dovendogli in qualche modo l’incarico, è riuscito insomma dove ha fallito Conte: a neutralizzare il fondatore di Italia Viva. Che potrebbe a questo punto essere definita dal solito Marco Travaglio, con l’abitudine che ha di storpiare i nomi che non gli piacciono, Italia morta, o sepolta, o morta e sepolta.

Beh, questa rappresentazione non mi convince, pur avendo appena avuto un’altra occasione per dolermi di Renzi: la scomparsa dell’ex presidente del Senato Franco Marini. Della cui candidatura a presidente della Repubblica, nel non lontano 2013, per quanto avanzata dal comune partito -il Pd- e sorretta anche dal centrodestra, che  ricordava e apprezzava la provenienza  dell’interessato dalla sinistra sindacale e anticomunista della Dc guidata dal compianto Carlo Donat-Cattin, proprio Renzi definì in un salotto televisivo “un dispetto al Paese”. E, assecondato nel Pd a sorpresa dall’allora segretario in persona Pier Luigi Bersani, volle che la prima, sfortunata votazione svoltasi nell’aula di Montecitorio su Marini, cui mancarono nel segreto dell’urna 157 dei 672 consensi necessari, fosse anche l’ultima. E si passò, dopo le schede bianche della seconda e terza, alla quarta votazione con un altro candidato, sempre del Pd, cui mancarono 109 dei 504 consensi necessari a quel punto della corsa al Quirinale: Romano Prodi. Anche in quel secondo fiasco o incidente, come preferite, molti avvertirono lo zampino del solito, disinvolto, spregiudicato Renzi.

Grazie a Dio, l’anagrafe gli aveva permesso, essendo nato solo nel 1975, di non concorrere nel 1971 all’affondamento della candidatura di Amintore Fanfani al Quirinale. E di quella successiva, all’interno dei gruppi parlamentari democristiani, di Aldo Moro.

Mi chiedo tuttavia se in politica si possono applicare a quanti la praticano gli stessi criteri di giudizio di un’amicizia, di una relazione sentimentale, della partecipazione ad un torneo di canasta o burraco.

Sergio Staino, un militante storico della sinistra e vignettista di grande valore e calore, che non perdona a Renzi la morte dell’Unità dopo avergliene affidato la direzione da segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio, ha appena scritto sulla Stampa -in polemica con l’amico e compagno Massimo Recalcati, intervenuto da psicanalista sulla stessa Stampa in difesa di Renzi- che “ogni strada deve avere un cuore, se non lo ha è una strada sbagliata”. Parola di Carlos Castaneda, ha precisato Staino.

Ho una certa difficoltà, da vecchio cronista politico, a seguire il ragionamento di Staino, e Castaneda. Cuore e politica stanno come carattere e politica. E di un cattivo carattere sento di condividere quello che diceva Sandro Pertini, convinto che basta averne uno davvero perché risulti appunto cattivo. La politica è dura, si sa. Non è un pranzo di gala, come il mio amico Marini sperimentò di persona otto anni fa limitandosi tuttavia a dire, con la saggezza e il realismo di un vecchio combattente, soltanto questo: “Se me lo avessero detto che non piacevo, non mi sarei lasciato candidare”. Me lo ripetette nell’ultimo incontro che avemmo, alla vigilia del compimento dei suoi 87 anni. Di cui lui era fiero anche perché gli servivano -mi disse- a far capire a chi ne aveva contrastato la candidatura per la sua età che, se eletto, avrebbe portato a termine regolarmente “e sano di mente” il suo mandato di sette anni. Grandissimo e indimenticabile Franco.

Per quanto riguarda infine le sventure profetizzate a Renzi per la consistenza dannatamente modesta del suo nuovo partito, permettetemi di ricordare che anche la buonanima di Ugo La Malfa guidava una forza generalmente al di sotto persino del 2 per cento dei voti , eppure sempre decisiva negli snodi politici di gran parte della cosiddetta Prima Repubblica. Renzi certamente non è La Malfa, convengo, ma neppure Nicola Zingaretti è Enrico Berlinguer, o Aldo Moro, o Fanfani. E non parlo dei grillini. Ogni epoca ha i suoi uomini. Ed è consolante che di questi tempi ci sia uno come Mario Draghi, cui Sergio Mattarella ha potuto rivolgersi nell’intreccio di tante emergenze.

 

 

 

 

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Il ritorno festoso di Berlusconi e l’allegria insolita di Draghi…..

            Beh, quella foto di Silvio Berlusconi al solito festoso e Mario Draghi insolitamente allegro e visibilmente compiaciuto di incontrare un amico più che il leader di uno dei partiti schieratisi a favore del governo che sta per formare, può ben considerarsi la più emblematica della lunga e tortuosa crisi finalmente in via di conclusione. E’ una immagine che ha risparmiato al giornale di Marco Travaglio di ricorrere ad un altro fotomontaggio per rappresentare, inorridito, la svolta che temeva di più da quando ha vacillato il secondo governo di Giuseppe Conte. La realtà dura da digerire per lui è di un Draghi per niente stanco e disinteressato a Palazzo Chigi, come lo stesso Conte invece lo aveva imprudentemente descritto nei mesi scorsi, e per niente refrattario a rapporti col “pregiudicato” e “amico di mafiosi”, come il direttore del Fatto Quotidiano grida ogni volta che ne ha l’occasione davanti alle telecamere rischiando un malore, ed è tornato a scrivere oggi.

            Il colpo di Berlusconi e  Draghi felicemente insieme è per Travaglio e simili peggiore della partecipazione di Matteo Salvini alla maggioranza perché in fondo al leader leghista alleato con i grillini il direttore del Fatto aveva preso l’abitudine per un anno abbondante.

            Immagino l’altro colpo che deve avere procurato a Travaglio l’ipotesi prospettata da Enrico Mentana in televisione che nel secondo giro di consultazioni del presidente del Consiglio incaricato abbiano avuto l’occasione di incrociarsi e salutarsi come compagni di viaggio nei corridoi di Montecitorio l’odiato Cavaliere e Beppe Grillo in persona. Cos’altro mi toccherà sentire, vedere o immaginare ?, si sarà chiesto il povero, inconsolabile cultore dell’epopea di Conte a Palazzo Chigi.

 

 

 

 

 

 

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Quella pugnalata alla schiena di otto anni fa sulla strada del Quirinale

              Alla notizia della morte di Franco Marini, già segretario generale della Cisl, ministro del Lavoro e presidente del Senato, chissà se e quanti di quei 157 che nel 2018 lo pugnalarono nella corsa al Quirinale si saranno pentiti di quella cattiva azione. Centocinquasette furono infatti il 18 aprile di quell’anno i voti che mancarono ai 672 della maggioranza dei due terzi dell’assemblea dei deputati, senatori e delegati regionali richiesta dall’articolo 84 della Costituzione nei primi tre scrutini per l’elezione del presidente della Repubblica. E Marini, per quanto candidato dal Pd ma sostenuto sulla carta da una larghissima maggioranza, comprensiva del centrodestra, con esclusione dei grillini che avevano candidato Stefano Rodotà, non potette tentare ancora perché il partito che lo aveva proposto buttò subito la spugna, temendo che la dissidenza interna sarebbe aumentata nelle votazioni successive. Il più lesto nel chiedere di cambiare candidato fu il pur non ancora parlamentare Matteo Renzi, che tuttavia poteva già disporre di un po’ di truppe comandate dall’esterno.

            D’altronde lo stesso Renzi aveva definito la candidatura di Marini, come quella di Anna Finocchiaro prospettata alla vigilia delle elezioni presidenziali, “un dispetto al Paese”. E non per i 79 anni che aveva Marini, perché la Finocchiaro ne aveva soltanto 57.

            Le cose andarono ancora peggio per Romano Prodi, alla cui candidatura lanciata sempre dal Pd, ma contrastata dal centrodestra, mancarono nella quarta votazione 109 voti dei 504 della maggioranza assoluta che le sarebbe stata a quel punto sufficiente. Ma per Marini non fu una consolazione perché era un uomo leale, non meschino. Onore alla sua memoria.

Dietro il cordone sanitario reclamato contro la Lega di Matteo Salvini

           Beati i giovani, pur col futuro più incerto di quello cui abbiamo potuto pensare alla loro età noi anziani che ci ostiniamo ancora a vivere e a resistere al Covid, tenendoci ben stretti i nostri presunti privilegi sfuggiti a forbici, apriscatole e altri attrezzi, magari anche da scasso . Essi, avendo potuto risparmiarsi le cronache da noi raccontate e vissute della cosiddetta prima Repubblica, quando -per esempio- dovevamo misurarci con i sospiri, le pause, gli aggettivi, gli avverbi di Enrico Berlinguer per valutarne gli strappi veri o presunti da Mosca rimproveratigli da Armando Cossutta, e su cui fior di leader politici scommettevano per disegnare nuovi equilibri e scenari, non possono ora confrontarli con i loro eredi, presunti o reali che siano. E con tutte le diffidenze, le smorfie, i nasi turati, gli allarmi opposti al Matteo Salvini messosi ora a disposizione, o quasi, di Mario Draghi.

            Ma come si permette?, hanno l’aria di chiedere i più accaniti avversari del leader leghista, magari con l’aria di proteggere il presidente del Consiglio incaricato dall’insidia di un falso abbraccio o di una falsa conversione o semplice correzione di rotta. E parlo di gente che a sentire il nome di Draghi convocato al Quirinale da Mattarella per ottenere l’incarico di formare il nuovo governo per poco non sono svenuti dalla delusione e dalla paura, annunciando riserve o contrarietà poi sbollite per opportunismo o senso di realtà, e magari anche per qualche discreto richiamo dal Colle. Dove pure avevano avuto l’accortezza di spiegare ben bene davanti alle telecamere, come in un messaggio diretto del capo dello Stato agli italiani, le emergenze di vario tipo e genere che non permettono più vecchi giochi e giochetti, e impongono un governo di “alto profilo” e fuori dalle formule politiche, dagli schemi e quant’altro di questa legislatura a dir poco avventurosa. A meno della cui metà si sono già alternate due maggioranze di segno opposto: una gialloverde e l’altra giallorossa, entrambe curiosamente e disinvoltamente guidate dalla stessa persona.

            Eppure è almeno dalla scorsa estate che dalla Lega provenivano segnali d’europeismo che potevano ben essere considerati tuoni rispetto a quelli levatisi negli anni Settanta del secolo scorso dal Pci per fare versare i classici litri di inchiostro e chilometri di analisi stampate per descrivere o prevedere botteghe -dalla strada romana della sede del partito berlingueriano- non più oscure ma chiarissime, limpide come acqua sorgente. E non datemi, per favore, del blasfemo per avere appaiato la Lega al Pci, perché non appartiene ad un modestissimo e anziano cronista come me ma addirittura a Massimo D’Alema, quello degli anni d’oro, in cui si era messo in testa, alla fine riuscendovi, di essere il primo e unico comunista o post-comunista a poter arrivare a Palazzo Chigi, la classificazione della Lega come “costola della sinistra”.

            Si, so bene che era la Lega di Umberto Bossi, da alcuni considerata ben diversa da quella di Salvini. Sì, diversa anche nel senso che quella reclamava sulle calli di Venezia e lungo il Po la secessione e annunciava la formazione di governi “provvisori” della Repubblica indipendente della Padania. E il suo leader intimava alla povera signora veneziana che esponeva il tricolore italiano alla finestra di casa di andarlo subito a “gettare nel cesso”. Questi spettacoli, almeno, il sovranista, il “truce” Salvini dei racconti di Giuliano Ferrara e il “Cazzaro verde” delle invettive di Marco Travaglio le ha risparmiate a noi poveri e sgomenti spettatori. O no?

 

 

 

 

 

 

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“Bugiardo”, “e tu farabutto”: le cortesie…. fra de Magistris e Mastella

Finita, bene o male,  ma forse più male che bene per lui, l’avventura di “medico” -quale si definì ironicamente- della crisi del secondo governo di Giuseppe Conte, cui cercò con l’aiuto della moglie e senatrice Alessandrina Lonardo di assicurare i voti necessari a sopravvivere alla rottura con Matteo Renzi, il sindaco di Benevento Clemente Mastella è tornato protagonista: questa volta in uno scontro televisivo al fulmicotone col collega di Napoli Luigi de Magistris.

Entrambi, collegati dall’esterno con lo studio di Massimo Giletti, su la 7, sono rimasti inchiodati con reciproci insulti alla loro esperienza non di amministratori delle due città campane ma, rispettivamente, di magistrato e di ministro della Giustizia. “Bugiardo”, ha gridato de Magistris a Mastella, che di rimando gli ha dato del “farabutto” ricordandogli che gli deve risarcire, per una causa perduta, danni che però debbono essere ancora quantificati da una Corte d’Appello. E’ la solita giustizia a singhiozzo.

I non addetti ai lavori debbono essere rimasti interdetti di fronte a tanta animosità immaginandoli ancora ai loro posti originari -ripeto, di magistrato e di guardasigilli- e deducendo la tossicità, a dir poco, dell’amministrazione della giustizia in Italia. Di cui peraltro gli spettatori nella stessa trasmissione avevano appena imparato a conoscere particolari non esaltanti ascoltando l’ospite Luca Palamara. Che è stato per anni un magistrato, diciamo così, potente guidando il sindacato delle toghe e partecipando ad un sistema perverso di nomine e persino di regìa dei processi a mezzadria con la politica. Ora che ne è rimasto vittima, radiato dalla magistratura in pendenza delle inchieste che lo hanno investito, condotte con l’arma letale delle intercettazioni a mezzo trojan, che trasformano il cellulare dell’indagato in una fornace, egli si è proposto di raccontare al pubblico ciò che i suoi ex colleghi -dice lui- da inquirenti non hanno voluto ascoltare per farne il capro espiatorio della lunga tresca tra giustizia e politica.

La colpa che de Magistris non perdona a Mastella è di avere manovrato al Ministero della Giustizia per disturbarne e fargli infine perdere un’indagine che riguardava anche l’allora presidente del Consiglio Romano Prodi. Di cui pertanto Mastella volle difendere la posizione, al pari dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano in veste di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma della sorte politica di Prodi il guardasigilli nel gennaio del 2008 non si preoccupò minimamente dimettendosi da ministro della Giustizia perché la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere ne aveva fatto arrestare la moglie per un’indagine, praticamente, sul partito di famiglia.

Mastella, in verità, nega ancora che la crisi di governo, sopraggiunta di pochi giorni e conclusasi con lo scioglimento anticipato delle Camere, fosse stata causata dalle sue dimissioni da guardasigilli per solidarietà con la moglie e protesta contro il magistrato che se ne occupava. Il governo, sostiene Mastella, era già debole di suo per la eccessiva eterogeneità della maggioranza. Che andava in effetti dallo stesso Mastella ai nostalgici del comunismo tradito, secondo loro, dagli eredi del Pci pur di non rimanere travolti dalle macerie del muro di Berlino.

Se è per questo, debbo cordialmente ricordare a Mastella che quel governo Prodi -il secondo ed ultimo del professore emiliano- aveva cominciato a stargli stretto, anzi strettissimo, già da mesi: esattamente da quando i post-comunisti della formazione guidata da Piero Fassino e i post-democristiani ed altro ancora della formazione guidata da Francesco Rutelli col nome della margherita  si fusero nel Pd. Il cui primo segretario Walter Veltroni esordì rivendicando  orgogliosamente una vocazione “maggioritaria” che obiettivamente non prometteva nulla di buono, a dir poco, ai piccoli partiti come quello di Mastella.

Circolò in quei tempi, fra cronisti e retroscenisti, una storiella mai smentita dall’allora guardasigilli, che sembrò anzi vantarsene perché era in fondo la rappresentazione plastica della sua franchezza, astuzia e agilità politica.  Grazie alle quali egli aveva potuto sopravvivere alla cosiddetta prima Repubblica, dove era cresciuto all’ombra del potentissimo Ciriaco De Mita, e districarsi nella seconda come una volpe tra centrodestra e centrosinistra, tra gli alternativi Berlusconi e Prodi.

Mastella aveva reagito al proposito di Veltroni di liberarsi degli alleati minori irrompendo nell’ufficio di Prodi, a Palazzo Chigi, e dicendogli pressappoco così: “Dì a Veltroni che se ci vuole fottere, noi vi possiamo fottere prima”. Più esplicito non poteva certamente essere. E più opportuno, anche se sgradevole per gli effetti sulla moglie, non poteva rivelarsi dopo qualche mese l’iniziativa della Procura di Santa Maria Capua Vetere. Che, pur riproponendo il conflitto tra giustizia e politica, consentì a Mastella di accelerare quanto meno la caduta del governo.

Quel merito che nessuno vuole riconoscere a Matteo Renzi

             Dall’alto del suo metro e ottanta centimetri, sempre avvolti in abiti stretti che li fanno apparire anche di più, Matteo Renzi potrebbe godersi lo spettacolo della ressa alla porta o sul tram, come preferite, di Mario Draghi. Che ha ottenuto l’incarico di presidente del Consiglio certamente dal capo dello Stato, giustamente geloso delle sue prerogative costituzionali, ma grazie anche a lui, che ne ha dato a Mattarella l’occasione con un bel po’ di spallate al secondo governo di Giuseppe Conte, pur dopo averne promosso la formazione nell’estate del 2019. Una cosa, questa, che adesso gli rinfacciano da opposti punti di vista i molti avversari e alcuni dei pochi amici rimastigli.

            Invece Renzi si diverte poco allo spettacolo prima della folla e poi della ressa attorno a Draghi perché, sorretto oggi dalla comprensione dello psicanalista Massimo Recalcati sulla Stampa,  lamenta  l’”odio” -ha detto- di cui è stato vittima nell’opera di liberazione dal presidente del Consiglio uscente. Cui pure -dice sempre lui- ha dato, durante l’esplorazione affidata da Sergio Mattarella al presidente grillino della Camera Roberto Fico, l’occasione di fare il tanto voluto terzo governo, sino a partecipare ai “tavoli” di Montecitorio per concordarne il programma.

            Niente da fare. Conte -si duole Renzi- ha continuato a farsi sostenere da alleati improvvidi, come i grillini e i piddini, che non gli volevano far fare un governo nuovo davvero, ma un semplice rimpasto di quello finalmente dimissionario, una volta fallita la rianimazione tentata nell’aula di Palazzo Madama con quella votazione di fiducia fermatasi a quota 156 sì. Ne occorrevano almeno cinque in più per dare la prima mano di asfalto sulla strada dell’annientamento di Renzi tracciata dai pretoriani di Conte. Che sognavano una maggioranza a prescindere dai renziani, o da quel che ne sarebbe rimasto con una più felice campagna di arruolamento, fra i banchi dell’opposizione e gli ex grillini, di “europeisti, volenterosi, responsabili” e quant’altro.

            Ora è Draghi che, con quella ressa davanti alla porta, potrebbe contare su una maggioranza a prescindere dai renziani, visto che sono pronti a partecipare al suo governo di “alto profilo”, dai banchi dell’ormai ex opposizione,  i leghisti di Matteo Salvini e i  forzisti di Silvio Berlusconi, oltre naturalmente ai “volenterosi” mobilitatisi inutilmente per un terzo governo Conte. Ma Draghi naturalmente non ha la minima intenzione di rifiutare la mano tesagli da Renzi praticamente senza condizioni.

            I renziani, anzi, sono quelli obiettivamente più affini alla storia e alla visione che l’ex presidente della Banca Centrale Europea ha dei problemi dell’Italia, a cominciare dalle varie emergenze -sanitaria, sociale ed economica- ricordate dal presidente della Repubblica prima di dargli l’incarico, spiegando le ragioni della impraticabilità, in questo momento, dello scioglimento anticipato delle Camere. Che in apertura della crisi era stato reclamato con curiosa sintonia dall’opposizione di centrodestra ancora formalmente unita e dai settori della maggioranza uscente col motto di “Conte o elezioni”, come quello di “Roma o morte” scolpito sul monumento di Garibaldi al Gianicolo. Cui deve essersi ispirato Goffredo Bettini, il segretario ombra del Pd al quale oggi Il Fatto Quotidiano –e chi sennò?- fa dare del “sicario” a Renzi lamentando che siano tutti i liberi i suoi “mandanti”.  

 

 

 

 

 

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Ormai a rischio movida gli incontri di Draghi per il nuovo governo

             Meno male che, europeo in tutto, Mario Draghi ha chiuso di sabato pomeriggio il primo giro delle consultazioni per la formazione del suo governo e fissato per lunedì pomeriggio l’apertura del secondo giro. Dato il “perimetro” ormai larghissimo della maggioranza che si è già delineato, in cui si ritroveranno grillini e leghisti, piddini e berlusconiani, con la sola Giorgia Meloni all’opposizione come una “sentinella” quale ha voluto dichiararsi, altri incontri di sabato sera e di domenica si sarebbero tradotti in assembramenti. E avrebbero fatto la fine delle piazze romane della movida chiuse per paura del “mucchio selvaggio”, come ha titolato il manifesto alludendo proprio al nuovo governo.

            Mi assicurano che anche nell’incontro a Montecitorio il “reggente” pentastellato Vito Crimi, accompagnato con gli altri colleghi dal “papà” del movimento Beppe Grillo, come da sfottò del vignettista Stefano Rolli sul Secolo XIX, ha assicurato “piena lealtà” a Draghi “se -ha poi ripetuto davanti alle telecamere- si formerà un nuovo governo”. E non si realizzerà quindi l’originario, improbabilissimo  sogno di Giuseppe Conte di essere rinviato alle Camere con la sua “magnifica” squadra di ministri. Mi assicurano anche che Draghi ha cortesemente sorriso conservando ben visibili le mani sul tavolo per non sembrare il solito scaramantico che si gratta sino a rompere il cavallo…dei pantaloni.

            Il treno di Draghi ha ormai tutte le carrozze prenotate, nonostante le riserve di Crimi, smentite da Grillo con la richiesta addirittura di un nuovo Ministero per “la transizione ecologica” da assegnare naturalmente al Movimento 5 Stelle. Vi saliranno infine -ci scommetto- anche quelli del Pd, che l’inconsolabile Goffredo Bettini non vorrebbe confusi o solo affiancati a Salvini, e cui perciò consiglia -stando ad alcuni retroscena- di astenersi. Eppure sarebbe quanto meno uno sgarbo, se non una rivolta, verso il presidente della Repubblica, dalla cui iniziativa nasce il governo Draghi con l’esplicito richiamo alla necessità di superare ogni “formula politica” di fronte alle varie emergenze del Paese.

            A questo punto Bettini, come sul verso della giustizia è già capitato a Piercamillo Davigo, può bene aspirare ad una collaborazione col Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. Che tra editoriale del suo direttore, titoli, fotomontaggi e vignette sta versando un misto di lacrime e di invettive sullo scenario politico delineatosi per la fine della crisi di governo. E anche per quella personale di Giuseppe Conte, che sembra avere già perduto il tanto vantato -proprio dal Fatto Quotidiano, oltre che da Massimo D’Alema- primato della popolarità.

           Del sorpasso di Draghi su Conte nel gradimento del pubblico ha appena scritto su Repubblica non Matteo Salvini ma l’autorevole sociologo Ilvo Diamanti procurando -temo- un’altra cocente delusione al presidente davvero uscente del Consiglio. Che, dal canto suo, pur rientrato ormai nelle fila grilline, partecipando alle riunioni di partito dopo avere accarezzato o minacciato, secondo i gusti, la formazione di un suo movimento, o lista, ha pensato ad una ritorsione pari all’altissima considerazione che ha di sé, e che altri preferiscono definire presunzione. In particolare, egli ha chiesto agli amici di non strattonarlo per farlo partecipare al nuovo governo, neppure come ministro degli Esteri, al posto dell’amico, concorrente e chissà cos’altro Luigi Di Maio.

 

 

 

 

 

 

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