La bravura riconosciuta sulla Stampa dal mio amico Marcello Sorgi a Beppe Grillo per avere saputo rovesciare gli umori del suo popolo a favore del governo di Mario Draghi, pur ricorrendo ad un quesito referendario un po’ farlocco, e a costo di chissà quali conseguenze in futuro per la stessa sopravvivenza del suo MoVimento, mi ha fatto
riflettere -non me ne voglia Marcello- sulla stranezza del nostro Bel Paese. In cui Grillo rischia di pagare la sua bravura con una dose suppletiva di animosità, o di odio, nei suoi riguardi. Ora gli dà addosso persino Marco Travaglio che, già sorpreso dalle sue precedenti aperture all’ex presidente della Banca Centrale Europea, non gli perdonerà mai di essersi alla fine ritrovato anche col “pregiudicato”, “amico dei mafiosi”, “psiconano” e quant’altro Silvio Berlusconi.
A quest’ultimo, diciamo la verità sino in fondo, gli avversari più accaniti, gli integralisti dell’odio, non perdonano tanto le vicende giudiziarie, suscettibili di errori come tutte le vicende umane, comprese quelle
sentimentali o solo di sesso, quanto la bravura che ne ha determinato i successi imprenditoriali e politici. Si, anche politici, perché, pur considerando le sconfitte, le battute d’arresto e persino le emorragie della sua Forza Italia, un uomo che a 84 anni compiuti, con non so quante cicatrici addosso per gli interventi chirurgici subiti, i continui ricoveri per controlli e infortuni, riesce a rimanere o a tornare protagonista della scena, e a scaldare -unico- il cuore dell’algido presidente del Consiglio incaricato durante le consultazioni a Montecitorio; quest’uomo, dicevo, non può essere scambiato per una comparsa, un abusivo, un improvvisato, un pregiudicato qualsiasi. Via, diciamo la verità. L’odio è un po’ l’invidia travestita da conflitto avvolto in altre bandiere, come quelle dell’onestà, della purezza, dell’incensurabilità, della continenza e di altre categorie ancora dello spirito e dintorni.
Lo stesso discorso vale per l’odio che circonda di questi tempi Matteo Renzi, di cui ormai si contesta quasi l’esistenza stessa, negandone anche il successo
evidente com’è stato quello di avere creato l’occasione adatta perché il capo dello Stato tirasse fuori dalla scuderia della Repubblica un cavallo di razza -si sarebbe detto nella Dc- quale Draghi. Come anche l’odio che circonda l’altro Matteo, Salvini, dal quale si può dissentire per molte ragioni, per carità, dalle felpe ai rosari, dai porti
chiusi alle citofonate, ma cui non si può negare il successo costituito dall’avere raccolto la guida della Lega a meno del 4 per cento dei voti e di averla portata a sei volte tanto in modo costante, senza contare le quasi dieci volte raggiunte nelle elezioni europee del 2019. Che magari gli diedero talmente alla testa da fargli sbagliare tempi e modi di una crisi di governo studiata per interrompere una legislatura che gli stava troppo stretta. Ma un po’, diciamolo, stava stretta anche ad altri, larga forse solo ai grillini con tutti quei voti e seggi parlamentari conquistati l’anno prima.
Debbo dire che anche nella cosiddetta prima Repubblica, che preferisco per tante ragioni alla seconda, alla terza e persino alla quarta in cui qualcuno crede di essere entrato non so quando, titolandole anche fior di trasmissioni televisive, la bravura era rischiosa, e dura da riconoscere
o ingurgitare. Lo provarono sulla loro pelle, vittime di rancori irrefrenabili e persino di
congiure, due leader che pure più diversi non potevano essere come Aldo Moro e Bettino Craxi: l’uno finendo ucciso dalle brigate rosse nell’anno in cui avrebbe potuto diventare presidente della Repubblica, alla fine della scadenza ordinaria del mandato del collega di partito Giovanni Leone, e l’altro scampando alla galera, per il pur diffusissimo fenomeno del finanziamento irregolare della politica, con l’esilio nella sua casa tunisina. O con la “latitanza”, a rigor di legge o di come la interpretano tuttora i suoi irriducibili nemici.
L’astuto Giulio Andreotti, pace all’anima sua, da buon amico di Alberto Sordi, che lo stimava e secondo me votava sistematicamente, insieme ad altre centinaia di migliaia di persone abituate ancora alla pratica delle preferenze, aveva ben capito umori, difetti, manie degli italiani evitando
sempre di esibire i suoi successi. Egli prendeva in giro quelli che si esaltavano alla prima vittoria conseguita o che reclamavano -disse una volta- la puntualità dei treni italiani come se fossero svizzeri, dando loro sornionamente degli emuli di Napoleone. Gli bastava e avanzava quella che una volta definì “aurea mediocrità”, e lo condusse un’altra volta, scontrandosi con Ciriaco De Mita che lo aveva accusato di troppa prudenza nella gestione dei rapporti con gli alleati di turno, che anche in politica “è meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Ciò lo mise a lungo al riparo proprio dall’odio, perché -gratta gratta- anche i suoi avversari politici, non certo quelli giudiziari, di lui e della sua ironia alla fine sorridevano.
Pubblicato sul Dubbio
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movimento, diviso fra il quasi 60 per
cento dei sì e il quasi 40 dei no a Draghi in versione verde, come il vignettista Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno si è divertito a definire il presidente del Consiglio scoperto e raccomandato da Beppe Grillo, ma del calo degli iscritti alla sua piattaforma. Che dai 160 mila e più vantati nei tempi non dico d’oro ma quasi sono scesi esattamente a 119.544. Di cui hanno partecipato alla “consultazione” digitale 74 mila e rotti. Né mi pare che Casaleggio, pur godendosi lo spettacolo di un “governo complicato”, come lo ha definito in una intervista al Corriere della Sera, possa sperare in una ripresa della sua piattaforma mentre Alessandro Di Battista, da lui peraltro già rimpianto, si sfila dalla
lista per non partecipare alla festa di Grillo. Che Makkox sul Foglio ha imperdibilmente rappresentato col comico felice di avere “battuto i grillini in casa”. Formidabile battuta, quasi quanto “la cattiveria” di giornata dello sconsolatissimo, indignatissimo e quant’altro Fatto Quotidiano, secondo cui “ormai l’unico quesito al quale i 5Stelle risponderebbero no è: “Faresti un governo con il M5S?”.
Grillo in persona al sottoposto Vito Crimi, hanno dissentito per primi i partecipanti alla consultazione. Uno dei quali, firmatosi Giuseppe Grillonr, non so cosa intendendo per r, ha scritto fra i cinquecento e più commenti che ho scorso: “Ora raccogliete i cocci, voi che avete detto sì, e cercate di farne un vaso di ferro. Ne avete bisogno in una palude tossica popolata da draghi, caimani e cazzari vivi e padani”. Ne sarà orgoglioso Marco Travaglio, vedendo quanto riesca bene a trasmettere ai suoi lettori concetti e parolacce, come un piromane con la benzina in una foresta da bruciare.
Repubblica, o Silvio Berlusconi pensando alla partecipazione dei grillini, non ha forse torto a pensare, come dicevo, ad un governo “complicato”. Credo però che abbia torto a scommettere che uno come Draghi se ne lascerà
travolgere, come è invece accaduto a Giuseppe Conte col suo secondo e anch’esso complicato governo, fatto di partiti impegnati sino al giorno prima a dirsene e darsene di tutti i colori. Eppure ancora oggi Marco Travaglio ha sentito il bisogno insopprimibile di tessergli l’elogio scrivendone come di quello “più sociale e lontano dalle lobby mai visto in Italia”. Manca la prece d’obbligo, politicamente parlando, s’intende.
battezzato Avvenire, il giornale dei vescovi italiani. Il logo potrebbe essere quello creato da Beppe Grillo in persona sul suo blog
personale, con l’Italia tutta verde infiocchettata dal tricolore. Altro che l’”ammucchiata” proposta con dileggio, e con tanto di fotomontaggio, da Marco Travaglio sul suo Fatto Quotidiano, e con quel
Draghi truccato da grillo, al minuscolo, dal fantasioso Vauro Senesi, sullo stesso giornale.
sono tutte, anche
nella loro precarietà, del fondatore e garante del MoVimento. E pazienza se, una volta tanto, non può riconoscervisi Travaglio, che come “vero quesito” avrebbe preferito un bel sì o no all’”Ammucchiata” di cui sopra.
dei ministri e Mattarella che lo aspetta al Quirinale, può rimanere “appesa” ad una consultazione digitale sotto le 5 Stelle. Beh, una volta tanto mi sento non dico di difendere, ma di comprendere sì Grillo e la sua compagnia di giro. Che hanno i loro riti da rispettare, peraltro in modo abbastanza elastico e accomodante quando si tratta di conquistare o di conservare poltrone, potere e quant’altro.
adoratori di quello che al manifesto hanno chiamato oggi “il drago verde”, penso che né Draghi, al maiuscolo e al plurale, né Mattarella abbiano motivi di attendere con preoccupazione i risultati del referendum digitale pentastellato. Via, l’uno e l’altro hanno avuto ben altre occasioni di ansia nella loro vita.
ha detto lui, Conte, che ha guidato due governi entrambi caduti per l’immobilismo rimproveratogli da alleati che lo consideravano troppo condizionato dai veti dei grillini: Salvini nel 2019 e Renzi nel 2021, entrambi di nome Matteo, con una coincidenza anche d’analisi a dir poco diabolica.
appare a molti destinata ad oscurare chi pure, come Renzi appunto, ha quanto meno contribuito a spingere verso Palazzo Chigi l’ex presidente della Banca Centrale Europea. Di cui nei mesi scorsi, sempre da Palazzo Chigi, Giuseppe Conte aveva rivelato la “stanchezza” dopo tanta fatica a Francoforte, e il sostanziale disinteresse alla presidenza del Consiglio.
più notizia. Draghi, pur dovendogli in qualche modo l’incarico, è riuscito insomma dove ha fallito Conte: a neutralizzare il fondatore di Italia Viva. Che potrebbe a questo punto essere definita dal solito Marco Travaglio, con l’abitudine che ha di storpiare i nomi che non gli piacciono, Italia morta, o sepolta, o morta e sepolta.
della Repubblica, nel non lontano 2013, per quanto avanzata dal comune partito -il Pd- e sorretta anche dal centrodestra, che ricordava e apprezzava la provenienza dell’interessato dalla sinistra sindacale e anticomunista della Dc guidata dal compianto Carlo Donat-Cattin, proprio Renzi definì in un salotto televisivo “un dispetto al Paese”. E, assecondato nel Pd a sorpresa dall’allora segretario in persona Pier Luigi Bersani, volle che la prima, sfortunata votazione svoltasi nell’aula di Montecitorio su Marini, cui mancarono nel segreto dell’urna 157 dei 672 consensi necessari, fosse anche l’ultima. E si passò, dopo le schede bianche della seconda e terza, alla quarta votazione con un altro candidato, sempre del Pd, cui mancarono 109 dei 504 consensi necessari a quel punto della corsa al Quirinale: Romano Prodi. Anche in quel secondo fiasco o incidente, come preferite, molti avvertirono lo zampino del solito, disinvolto, spregiudicato Renzi.
a Renzi la morte dell’Unità
dopo avergliene affidato la direzione da segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio, ha appena scritto sulla Stampa -in polemica con l’amico e compagno Massimo Recalcati, intervenuto da psicanalista sulla stessa Stampa in difesa di Renzi- che “ogni strada deve avere un cuore, se non lo ha è una strada sbagliata”. Parola di Carlos Castaneda, ha precisato Staino.
del governo che sta per formare, può ben considerarsi la più emblematica della lunga e tortuosa crisi finalmente in via di conclusione. E’ una immagine che ha risparmiato
Conte invece lo aveva imprudentemente descritto nei mesi scorsi, e per niente refrattario a rapporti col “pregiudicato” e “amico di mafiosi”, come il direttore del Fatto Quotidiano grida ogni volta che ne ha l’occasione davanti alle telecamere rischiando un malore, ed è tornato a scrivere oggi.
di Matteo Salvini alla maggioranza perché
in fondo al leader leghista alleato con i grillini il direttore del Fatto aveva preso l’abitudine per un anno abbondante.
dei due terzi dell’assemblea dei deputati, senatori e delegati regionali richiesta dall’articolo 84 della Costituzione nei primi tre scrutini per l’elezione del presidente della Repubblica. E Marini, per quanto candidato dal Pd ma sostenuto sulla carta da una larghissima maggioranza, comprensiva del centrodestra, con esclusione dei grillini che avevano candidato Stefano Rodotà, non potette tentare ancora perché il partito che lo aveva proposto
buttò subito la spugna, temendo che la dissidenza interna sarebbe aumentata nelle votazioni successive. Il più lesto nel chiedere di cambiare candidato fu il pur non ancora parlamentare Matteo Renzi, che tuttavia poteva già disporre di un po’ di truppe comandate dall’esterno.
delle elezioni presidenziali, “un dispetto al Paese”. E non per i 79 anni che aveva Marini, perché la Finocchiaro ne aveva soltanto 57.
centrodestra, mancarono nella quarta votazione 109 voti dei 504 della maggioranza assoluta che le sarebbe stata a quel punto sufficiente. Ma per Marini non fu una consolazione perché era un uomo leale, non meschino. Onore alla sua memoria.
vissute della cosiddetta prima Repubblica, quando -per esempio- dovevamo misurarci con i sospiri, le pause, gli aggettivi, gli avverbi di Enrico Berlinguer
per valutarne gli strappi veri o presunti da Mosca rimproveratigli da Armando Cossutta, e su cui fior di leader politici scommettevano per disegnare nuovi equilibri e scenari, non possono ora confrontarli con i loro eredi, presunti o reali che siano. E con tutte le diffidenze, le smorfie, i nasi turati, gli allarmi opposti al Matteo Salvini messosi ora a disposizione, o quasi, di Mario Draghi.
sorgente. E non datemi, per favore, del blasfemo per avere appaiato la Lega al Pci, perché non appartiene ad un modestissimo e anziano cronista come me ma addirittura a Massimo D’Alema, quello degli anni d’oro, in cui si era messo in testa, alla fine riuscendovi, di essere il primo e unico comunista o post-comunista a poter arrivare a Palazzo Chigi, la classificazione della Lega come “costola della sinistra”.
la formazione di
governi “provvisori” della Repubblica indipendente della Padania. E il suo leader intimava alla povera signora veneziana che esponeva il tricolore italiano alla finestra di casa di andarlo subito a “gettare nel cesso”. Questi spettacoli, almeno, il sovranista, il “truce” Salvini dei racconti di Giuliano Ferrara e il “Cazzaro verde” delle invettive di Marco Travaglio le ha risparmiate a noi poveri e sgomenti spettatori. O no?
assicurare i voti necessari a sopravvivere alla rottura con Matteo Renzi, il sindaco di Benevento Clemente Mastella è tornato protagonista: questa volta in uno scontro televisivo al fulmicotone col collega di Napoli Luigi de Magistris.
avevano appena imparato a conoscere particolari non esaltanti ascoltando l’ospite Luca Palamara. Che è stato per anni un magistrato, diciamo così, potente guidando il sindacato delle toghe e partecipando ad un sistema perverso di nomine e persino di regìa dei processi a mezzadria con la politica. Ora che ne è rimasto vittima, radiato dalla magistratura in pendenza delle inchieste che lo hanno investito, condotte con l’arma letale delle intercettazioni a mezzo trojan, che trasformano il cellulare dell’indagato in una fornace, egli si è proposto di raccontare al pubblico ciò che i suoi ex colleghi -dice lui- da inquirenti non hanno voluto ascoltare per farne il capro espiatorio della lunga tresca tra giustizia e politica.
Romano Prodi. Di cui pertanto Mastella volle difendere la posizione, al pari dell’allora
capo dello Stato Giorgio Napolitano in veste di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma della sorte politica di Prodi il guardasigilli nel gennaio del 2008 non si preoccupò minimamente dimettendosi da ministro della Giustizia perché la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere ne aveva fatto arrestare la moglie per un’indagine, praticamente, sul partito di famiglia.
ancora della formazione guidata da Francesco Rutelli col nome della margherita si fusero nel Pd. Il cui primo segretario Walter Veltroni esordì rivendicando orgogliosamente una vocazione “maggioritaria” che obiettivamente non prometteva nulla di buono, a dir poco, ai piccoli partiti come quello di Mastella.
rappresentazione plastica della sua franchezza, astuzia e agilità politica. Grazie alle quali egli aveva potuto sopravvivere alla cosiddetta prima Repubblica, dove era cresciuto all’ombra del potentissimo Ciriaco De Mita, e districarsi nella seconda come una volpe tra centrodestra e centrosinistra, tra gli alternativi Berlusconi e Prodi.
di presidente del Consiglio certamente dal capo dello Stato, giustamente geloso delle sue prerogative costituzionali, ma grazie anche a lui, che ne ha dato a Mattarella l’occasione con un bel po’ di spallate al secondo governo di Giuseppe Conte, pur dopo averne promosso la formazione nell’estate del 2019. Una cosa, questa, che adesso gli rinfacciano da opposti punti di vista i molti avversari e alcuni dei pochi amici rimastigli.
l’”odio” -ha detto- di cui è stato vittima nell’opera di liberazione dal presidente del Consiglio uscente. Cui pure -dice sempre lui- ha dato, durante l’esplorazione affidata da Sergio Mattarella al presidente grillino della Camera Roberto Fico, l’occasione di fare il tanto voluto terzo governo, sino a partecipare ai “tavoli” di Montecitorio per concordarne il programma.
dai renziani, visto che sono pronti a partecipare al suo governo di “alto profilo”, dai banchi dell’ormai ex opposizione, i leghisti di Matteo Salvini e i forzisti di Silvio Berlusconi, oltre naturalmente ai “volenterosi” mobilitatisi inutilmente per un terzo governo Conte. Ma Draghi naturalmente non ha la minima intenzione di rifiutare la mano tesagli da Renzi praticamente senza condizioni.
l’incarico, spiegando le ragioni della impraticabilità, in questo momento, dello scioglimento anticipato delle Camere. Che in apertura della crisi era stato reclamato con curiosa sintonia dall’opposizione di centrodestra ancora formalmente unita e dai settori della maggioranza uscente col motto di “Conte o elezioni”, come quello di “Roma o morte” scolpito sul monumento di
Garibaldi al Gianicolo. Cui deve essersi ispirato Goffredo Bettini, il segretario ombra del Pd al quale oggi Il Fatto Quotidiano –e chi sennò?- fa dare del “sicario” a Renzi lamentando che siano tutti i liberi i suoi “mandanti”.
cui si ritroveranno grillini e leghisti, piddini e berlusconiani, con la sola Giorgia Meloni
gli altri colleghi dal “papà” del movimento Beppe Grillo, come da sfottò del vignettista Stefano Rolli sul Secolo XIX, ha assicurato “piena lealtà” a Draghi “se -ha poi
ripetuto davanti alle telecamere- si formerà un nuovo governo”. E non si realizzerà quindi l’originario, improbabilissimo sogno di Giuseppe Conte di essere rinviato alle Camere con la sua “magnifica” squadra di ministri. Mi assicurano anche che Draghi ha cortesemente sorriso conservando ben visibili le mani sul tavolo per non sembrare il solito scaramantico che si gratta sino a rompere il cavallo…dei pantaloni.
naturalmente al Movimento 5 Stelle. Vi saliranno infine -ci scommetto- anche quelli del Pd, che l’inconsolabile Goffredo Bettini non vorrebbe confusi o solo affiancati a Salvini, e cui perciò consiglia -stando ad alcuni retroscena- di astenersi. Eppure sarebbe quanto meno uno sgarbo, se non una rivolta, verso il presidente della Repubblica, dalla cui iniziativa nasce il governo Draghi con l’esplicito richiamo alla necessità di superare ogni “formula politica” di fronte alle varie emergenze del Paese.
e vignette sta versando un misto di lacrime e di invettive sullo scenario politico delineatosi
per la fine della crisi di governo. E anche per quella personale di Giuseppe Conte, che sembra avere già perduto il tanto vantato -proprio dal Fatto Quotidiano, oltre che da Massimo D’Alema- primato della popolarità.
procurando -temo- un’altra cocente delusione al presidente davvero uscente del Consiglio. Che, dal canto suo, pur rientrato ormai nelle fila grilline, partecipando alle riunioni di
partito dopo avere accarezzato o minacciato, secondo i gusti, la formazione di un suo movimento, o lista, ha pensato ad una ritorsione pari all’altissima considerazione che ha di sé, e che altri preferiscono definire presunzione. In particolare, egli
ha chiesto agli amici di non strattonarlo per farlo partecipare al nuovo governo, neppure come ministro degli Esteri, al posto dell’amico, concorrente e chissà cos’altro Luigi Di Maio.