Con l’aria per niente dimessa o sconsolata attribuita loro dal vignettista Vauro Senese sulla prima pagina del Foglio Quotidiano, che cerca inutilmente di farli apparire come le vittime designate di una
macchinazione dei cosiddetti poteri forti, decisi a profittare delle difficoltà del movimento 5 Stelle per dargli il colpo di grazia, o quasi, stavolta addirittura con la complicità di Giuseppe Conte, i grillini hanno dato “l’altolà” annunciato sulla prima pagina del Corriere della Sera ad una stretta del cosiddetto reddito di cittadinanza.
Divisi su tutto, rappresentati dallo stesso presidente pentastellato della Camera Roberto Fico come “bande” in guerra fra loro sulla strada congressuale degli Stati Generali, o “generici”, come li ha chiamati perfino Marco Travaglio, i parlamentari grillini si sono ritrovati improvvisamente uniti nella difesa dell’altra loro bandiera di questa legislatura, dopo il taglio dei seggi della Camera e del Senato appena ratificati col referendum. “Abbiamo sconfitto la povertà”, annunciò trionfante Luigi Di Maio dal balcone di Palazzo Chigi prima ancora che il reddito di cittadinanza diventasse legge, ma solo perché ne era stato appena concordato il finanziamento nell’allora maggioranza e governo gialloverde, con i leghisti.
Sulla medesima prima pagina del Corriere della Sera, quasi per avvisare i lettori di non farsi soverchie illusioni sulla capacità di resistenza del Pd
e dello stesso Conte all’”altolà” dei grillini, Angelo Panebianco ha spiegato nel suo editoriale che “i numeri” -non le pietre “vendute” sul suo blog da quel burlone di Beppe Grillo in persona
per “pulire, grattare e smerigliare il cervello della stupidità umana”- giocano in Parlamento a loro favore. “I 5 Stelle, spaccati al loro interno quanto si vuole, restano
il partito di maggioranza relativa e il Pd è la ruota più piccola del carro” di governo, ha ricordato impietosamente il professore anche a Nicola Zingaretti. Che d’altronde nel partito che guida è di fatto trattenuto sulla strada di una svolta dal più prudente, paziente e quant’altro capo della delegazione piddina al governo Dario Franceschini.
L’unica sponda vera che il segretario del Pd trova nel gruppo di testa del Nazareno nel tentativo di investire in qualche modo la sua vittoria o mancata sconfitta nelle elezioni regionali del 20 e 21 settembre, con
le perdite limitate alle Marche, è quella di Andrea Orlando. Che è tornato a
farsi sentire sul Foglio lamentando “alibi per stare fermi”, visti i rischi di una crisi, e non escludendo, cioè insistendo per “il rimpasto”. Che invece viene ostinatamente escluso dal presidente del Consiglio perché non gliel’avrebbe chiesto nessun partito della maggioranza, e sarebbe previsto solo dall’”agenda dei giornalisti”.
Chissà se l’ex ministro della Giustizia prima o dopo non si stuferà di questa sostanziale provocazione del presidente del Consiglio nei suoi riguardi e non si deciderà a porre la questione nel Pd, non foss’altro per verificare se veramente può ritenere di contribuire ancora a rappresentarlo con la carica di vice segretario, peraltro unico.
nei riguardi dei grillini. “Ho il massimo rispetto -aveva detto Bonaccini- per le fibrillazioni di tutti, ma siamo qui per risolvere i problemi del Paese, non delle singole forze politiche”. E già era una concessione ai grillini accomunarli generalmente ad altri partiti, di maggioranza e persino di opposizione, visto che neppure nel centrodestra mancano disagi capaci di ripercuotersi sull’intero Paese.
che i 5Stelle abbiano fatto molti passi avanti. Certo, se nasci come movimento anti-sistema e poi ti trovi di colpo al governo, passando da una coalizione con la lega ad una col Pd, è normale che hai degli sbandamenti”, ha osservato con comprensione Franceschini. Che si è mostrato perciò fiducioso, senza neppure bisogno di dare loro dei “consigli”, che i grillini sapranno rinunciare da soli anche agli “slogan anti-Palazzo”, ora che vi stanno dentro. E non si lasciano scappare occasione -aggiungerei- per starvi sempre di più, vista la puntualità e a volte persino la smania con la quale partecipano alle nomine ed altre pratiche del sottogoverno.
alla destra con 200 miliardi di euro da spendere”, quelli dei fondi europei per la ripresa, ”e un presidente della Repubblica da eleggere” nel 2022. Magari mandando
al Quirinale Conte, o facendo andare come garante proprio lui, Franceschini. Che ha però liquidato il sospetto di una sua partecipazione alla corsa al Colle come “gioco di società piuttosto sciocco”, bastandogli ed avanzandogli -ha assicurato- “l’aspirazione a fare bene il ministro della Cultura e del Turismo”. Spero a questo punto, per lui, che grillini e quant’altri non lo prendano in parola.
dei grillini a questo tipo di finanziamento. “Sul Mes -ha detto- bisogna deideologizzare lo scontro. Vediamo cosa serve alla sanità, quali progetti e quante risorse servono e poi affronteremo il tema insieme al Recovery fund”, seguendo praticamente il calendario lentissimo di Luigi Di Maio. Che nei rapporti col Pd ha fretta solo di preparare insieme, con candidature comuni o simili, le elezioni comunali del prossimo anno, vista la ingloriosa fine degli accordi tentati a livello regionale.
un negoziato eventualmente fra il primo e il secondo turno. E comunque avvertendo che “ci sono dei nomi che rappresentano un impedimento
a qualsiasi accordo”. Egli ha evitato così una lite in famiglia, essendo la moglie Michela Di Biase la ex capogruppo del Pd in Campidoglio, ora alla regione Lazio, decisamente contraria alla conferma cui aspira la sindaca pentastellata di Roma Virginia Raggi. Alla quale, in una recente intervista, la signora Franceschini ha fatto capire di potersi anche contrapporre proponendosi alle primarie del partito.