Bloccato dalla sciatica in una casa “spoglia”, dove un giornalista del Fatto Quotidiano è andato a intervistarlo, Goffredo Bettini si è convinto nelle sue solitarie riflessioni che il Pd, non il Movimento 5 Stelle alle prese con le “nuove responsabilità da affrontare”, misteriosamente accennategli da Beppe
Grillo in persona nei giorni scorsi nel salone delle Dogane e dei Monopoli, è “al centro della vita politica” italiana. Al centro come una volta era la Dc, con i suoi tanti voti e le alleanze che ruotavano attorno ai suoi numeri parlamentari, anche quando a soccorrerla con l’appoggio esterno fu il Pci di Enrico Berlinguer, caro -credo- alla memoria di Bettini.
Nella rivendicazione orgogliosa e un po’ troppo forzata -mi permetterà- del ruolo del suo partito, ormai tornato sulla strada della sinistra, proteso non più a conservare “i voti dei Parioli” ma a conquistare quelli di “Tor Bella Monica”, cioè delle periferie, Bettini qualche riconoscimento ai grillini naturalmente lo ha riservato. Col piglio
dell’allora ancora giovane, forte e generoso Massimo D’Alema, che nel 1996 certificò la commestibilità politica della Lega come “costola della sinistra”, Bettini ha detto del movimento grillino che è “lo specchio di molti nostri fallimenti”. A guardare il quale, quindi, il grande amico, consigliere e molto altro del segretario del Pd Nicola Zingaretti molto si pente, ma molto anche si compiace vedendo che cosa sotto le cinque stelle hanno saputo fare riportando in fondo sulla buona strada le pecorelle smarrite.
In questo quadro così idilliaco dei rapporti fra il primo e il secondo partito dell’attuale coalizione di governo una cosa tuttavia è scappata a Bettini, come del resto a Zingaretti nel discorso di chiusura, qualche giorno fa, della festa nazionale dell’Unità a Modena. Gli è scappato, diciamo così, l’avviso ai grillini che comunque a questo punto, dopo tutto quello che si è fatto ma di fronte ai tanti problemi che evidentemente si sono accumulati nel pur roccioso e “centrale” Pd, non a caso alle prese con un difficilissimo turno di elezioni regionali e
comunali, una “fase” si è chiusa e un’altra si deve aprire. Siamo insomma a quella “fase 2”, pur non chiamata proprio così, che è costata la vita ad altri governi di cui Bettini penso fosse compiaciuto: quelli, per esempio, pur brevi di Romano Prodi e di Massimo D’Alema.
Questa fase che potremmo chiamare uno più, visto che il numero 2 è scaramanticamente sconsigliato, dovrebbe servire alla “ricostruzione” -sempre parola di Bettini- cui occorre “un’alleanza più unita, costituita non da forze che competono aspramente fra tra di loro ma, al contrario, capaci di elaborare una visione comune sul futuro del Paese”.
Ebbene, da queste forze Matteo Renzi, pur incoraggiato di recente proprio da Bettini a crescere elettoralmente e politicamente a spese della parte moderata del centrodestra, starebbe commettendo l’imprudenza di allontanarsi per la smania di fare parte del “salotto buono” dei “poteri forti”, che “comperano giornali” -non all’edicola ma nei consigli di amministrazione- perché possano attaccare e indebolire Giuseppe Conte, colpevole di essere “libero da poteri esterni”.
Questo repentino cambiamento di umore di Bettini verso Renzi, con un rimpasto di governo che batte sempre più alle porte dopo l’accenno fatto in questa direzione dal vice segretario del Pd Andrea Orlando, potrebbe essere una complicazione per la difesa di Conte nella quale lo stesso Bettini sembra tanto impegnato.
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umori, o la passione e la razionalità che s’intrecciano producendo bollicine, ha allungato questa volta la sua proboscide sui radicali. Ai quali Giuliano contesta di poter guidare il fronte del no alla presunta -secondo lui- antipolitica
del taglio dei seggi parlamentari, preteso dai grillini prima e persino a prescindere da altre modifiche alla Costituzione che in qualche modo li compensino o, secondo i casi, li completino sulla strada dell’efficienza.
dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti. In cui si racconta, fra l’altro, della sua
esperienza di funzionario del Pci “quarant’anni fa” in un ufficio dove era appeso questo cartello: “Qui si lavora, non si fa politica”, cioè -ha spiegato Minniti- “inutile chiacchiera politicista”. Sì, è facile dirlo o spiegarlo così quarant’anni dopo gli Ottanta del secolo scorso.
assolvendolo dalla precedente alleanza con Salvini, o per “l’ultimo ancoraggio della politica antipopulista che abbia una sua tenuta e una sua prospettiva di legislatura”. Così ha scritto forse troppo ottimisticamente Ferrara del presidente del Consiglio a conclusione del processo ai radicali, e annunciando il suo rumoroso sì referendario di domenica prossima: un barrito, più che un annuncio.