Forse perché si sentiva più libero dai condizionamenti di un’orchestra come il Corriere della Sera, che proprio oggi ha fatto suonare il sì ad Antonio Polito e il no ad Angelo Panebianco
per il referendum del 20 settembre sui tagli ai seggi parlamentari, Paolo Mieli si è lasciato
andare in una intervista alla Verità. L’ex direttore del Corriere ha rinunciato ad ogni cautela nel commentare questa stagione politica “molto caotica”, contrassegnata da una “forte debolezza di tutti gli assetti”.
Abitualmente paziente e fiducioso, Mieli ha liquidato come “pazzi” quanti -a cominciare dal
segretario del Pd Nicola Zingaretti, ospite oggi di Repubblica– anziché “affrontare con tutte le energie necessarie il problema della riapertura delle scuole, hanno un’unica ansia: reintrodurre il sistema proporzionale” accelerandone alla Camera i
l percorso per rendere più digeribile il consistente taglio dei seggi parlamentari. Pazzi, anche perché -sia detto per inciso, pur se Mieli se l’è risparmiato- l’accelerazione reclamata da Zingaretti non potrà materialmente tradursi entro il 20 settembre nel primo degli almeno due passaggi parlamentari necessari. Pertanto la conferma eventuale dei tagli sarebbe destinata a rimanere come lo stesso Mieli l
’ha definita: “uno sputo sul Parlamento”, senza “un contesto di riscrittura e redistribuzione dei poteri dello Stato”. Che peraltro è cosa diversa e di più di una riforma della legge elettorale per tornare al sistema proporzionale, considerato da Zingaretti -ma non da Mieli- la prima e principale garanzia correttrice di un Parlamento ridotto da 945 a 600 seggi, fra una Camera di 400 deputati e un Senato di 200 eletti.
Mieli preferirebbe il sistema maggioritario della cosiddetta seconda Repubblica: quella del bipolarismo segnato dall’avvicendamento a Palazzo Chigi fra Silvio Berlusconi e Romano Prodi, sia pure con le deviazioni, diciamo così, dei politici Massimo D’Alema, Giuliano Amato, Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni e dei tecnici, almeno in prima istanza, Lamberto Dini e Mario Monti. E’ una sequenza, questa, che pure dovrebbe consigliare al mio amico Paolo di non scambiare per oro colato il sistema maggioritario e il “bipolarismo” che avrebbe prodotto, addirittura ripristinabile -dopo questa effimera “terza Repubblica” in corso- con la conversione a sinistra dei grillini, o di quel che ne rimarrà seguendo le risate e i desideri attribuiti al comico genovese fondatore, garante, “elevato” e quant’altro del Movimento 5 Stelle.
Mentre dissento dalla santificazione del sistema maggioritario e dalla demonizzazione del sistema proporzionale, che invece nella cosiddetta prima Repubblica consentì un sostanziale bipolarismo costituito dai poli potenziali di governo attorno alla Dc e al Pci, condivido
“l’aria di elezioni anticipate” avvertita da Mieli. Che ha detto: “In autunno bisognerà decidere: tentare di portare a termine la legislatura e arrivare all’elezione del presidente della Repubblica oppure andare alle urne in primavera. In questo momento sento parecchi scricchiolii” della maggioranza giallorossa, per cui “crescono le probabilità di andare a elezioni anticipate”, appunto.
Giuseppe Conte, peraltro alle prese con quel quasi 13 per cento di pil rovinosamente in meno, avrà fatto gli scongiuri a Palazzo Chigi leggendo Mieli. Ma gli scongiuri non sono obiettivamente la soluzione dei problemi che ha il governo, per quanto il guardasigilli e capo delegazione grillina, Alfonso Bonafede, abbia appena definito “fantascientifica” una crisi.
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egli perse il governo, nel 2016, sopravvalutando la propria forza sino a personalizzare il referendum confermativo sulla riforma costituzionale che si era orgogliosamente intestato. Poi perse l’unità del partito con la scissione cui spavaldamente sfidò i vari Bersani e D’Alema nel 2017, mentre altri gli consigliavano, anche dal Colle, di evitarla. Infine perse la segreteria del partito, nel 2018, facendolo uscire dalle urne per il rinnovo delle Camere col 18,76 per cento dei voti.
leghista, consentì ai pentastellati di realizzare un mezzo bingo politico alleandosi al governo con i leghisti di Matteo Salvini, e imponendo loro come presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che gli stessi grillini prima delle elezioni avevano valutato all’altezza solo di un buon ministro, l’ennesimo, della riforma burocratica o della pubblica amministrazione, nella lista del governo monocolore a 5 stelle depositata con grandissima euforia nelle mani del Segretario Generale del Quirinale.
raggiunto da Giorgia Meloni con i suoi fratelli d’Italia partendo dal 3,67 delle elezioni europee del 2014, in una progressione mai interrotta, diversamente dalla Lega, salita anch’essa dal solo 6,6 delle elezioni europee del 2014 ma alla fine costretta a scendere da quel punto troppo alto toccato nel 2019.
se i vari Zingaretti e Di Maio non stiano facendo come la Rosalina della filastrocca che baldanzosamente portava sulla testa la ricotta per venderla al mercato e realizzare progressivamente chissà quanti e quali guadagni in una fantasia interrotta dalla rovinosa caduta della cesta a terra.