Sarà pure stato troppo generoso Eugenio Scalfari nell’attribuire a Giuseppe Conte prima una mezza discendenza politica dal conterraneo Aldo Moro, ucciso dalle brigate rosse nel 1978 quando poteva ancora dare molto al Paese, specie dalla postazione del Quirinale cui sembrava destinato, e poi l’appartenenza al filone politico del liberalsocialismo. Che non era stato, in verità, quello di Moro. Il futuro segretario della Dc fu attratto in gioventù dai socialisti ma rimesso bene in carreggiata dall’arcivescovo di Bari. E da democristiano ben solido fu protagonista delle stagioni del centrosinistra col Psi e infine della cosiddetta solidarietà nazionale col Pci di Enrico Berlinguer: cosa ben diversa, quest’ultima, dal “compromesso storico” che gli ho visto e sentito attribuire con avventata sicurezza anche nelle recenti celebrazioni del 42.mo anniversario della tragica fine.
Tuttavia devo riconoscere a Scalfari, a 96 anni compiuti, e a dispetto di tutte le sue crescenti ispirazioni filosofiche, poetiche e persino religiose che si avvertono nei suoi appuntamenti domenicali con i lettori di Repubblica, specie dopo l’amicizia maturata con Papa Francesco, la costanza
e la voglia -beato lui- di seguire le ingarbugliatissime cronache politiche della nostra Italia in tempi persino di coronavirus. E di seguirle con la capacità di cogliere l’istante più significativo di un passaggio o di una stagione: un istante equivalente, per chi ne scrive o ne parla, ad un aggettivo, ad un avverbio, ad un sostantivo, a due o tre parole, Che egli ha appunto scolpito nel suo editoriale di domenica scorsa per descrivere la posizione non felice, non comoda, non adeguata alle circostanze del Paese, in cui si trova Giuseppe Conte.
“Naturalmente -ha scritto del professore il fondatore e in qualche modo ancora vigilante della Repubblica, recentemente affidata dal nuovo e giovane editore John Elkann, erede degli
Agnelli, alla direzione di Maurizio Molinari- il suo governo incontra notevoli difficoltà. I partiti di centrodestra sono decisamente contro di lui e quelli di centrosinistra (in particolare i Cinquestelle) lo appoggiano giorno per giorno”. Eccole, le tre parole magiche, pari a uno scatto fotografico ben riuscito, fatto con polso fermo a dispetto del tremore spesso imposto a Scalfari dagli inconvenienti dell’età: giorno per giorno.
Questa è la frequenza con la quale il presidente del Consiglio è costretto dalla sua maggioranza -molto, ma molto più variegata di quelle di centrosinistra, con o senza trattino susseguitesi nelle varie edizioni, reali o immaginifiche, della Repubblica vera, non quella di carta- a guadagnarsi l’”appoggio”, come ha scritto Scalfari, degli alleati: “in particolare” dei Cinquestelle, e non solo di quel corsaro che si diverte ad essere ogni tanto Matteo Renzi.
Il movimento pentastellato detiene ancora la maggioranza relativa in Parlamento conquistata con le elezioni del 2018, anche se virtualmente ha perduto quasi la metà di quella rappresentanza non dico nei sondaggi ma nei passaggi elettorali di vario livello, europeo e regionale, che si sono via via succeduti. Ciò gli ha procurato una crisi d’identità e di sopravvivenza, che produce problemi all’infinito. E che problemi, con che forza, visti i numeri parlamentari e i crediti che i grillini ritengono di avere maturato nei riguardi del presidente del Consiglio imponendolo per due volte: la prima a Matteo Salvini e la seconda al Pd di Nicola Zingaretti e ancora di Renzi, che nella scorsa estate reclamava nel passaggio da una maggioranza all’altra di segno opposto la famosa e cosiddetta “discontinuità”.
Non c’è questione, di politica interna o estera, giudiziaria o istituzionale, di economia o di scuola, di assistenza o di previdenza, di sussidi o di incentivi, di prestiti o di concessioni autostradali o d’altro tipo, su cui Conte non debba mediare non solo fra i partiti della maggioranza ma anche o soprattutto fra le varie anime .o come debbono essere chiamate le correnti del Movimento 5 Stelle. Che, in verità, a ben guardare, è sempre stato in condizione di “travaglio”, come dice Conte: sin da quando mancò l’obiettivo della maggioranza assoluta due anni fa.
Ma ora da cronica quella condizione è diventata acuta per il vuoto di potere creatosi nel quasi partito con le dimissioni di Luigi Di Maio da capo e con la reggenza di Vito Crimi. E col garante, “elevato” e quant’altro, nella persona naturalmente di Beppe Grillo, che temo non abbia risolto per nulla il problema delle apnee notturne lamentato qualche tempo fa. O, se lo ha risolto, ne ha incontrati altri procuratigli proprio da un movimento per niente governabile, neppure con uno dei suoi applauditissimi richiami o anatemi, almeno una volta, sulle piazze e nei teatri.
Giuseppe Conte è in mezzo a questo guado, con la mascherina imposta anche a lui dall’emergenza di un coronavirus sempre subdolo e pronto a stenderci. Invidiarlo mi sembra impossibile.
Pubblicato sul Dubbio
Ripreso da http://www.startmag.it
della Sera, per esempio,
ha appena diffuso una nota del quirinalista Marzio Breda per avvertire che Mattarella non ha poteri disciplinari sulle toghe né può sciogliere il Consiglio Superiore della Magistratura se non si dimette una parte sufficiente a fargli mancare il cosiddetto numero legale.
clamorosamente nel mondo delle toghe per il chiacchiericcio, a dir poco, intercettato col Trojan sul telefonino dell’ex presidente dell’associazione nazionale dei magistrati ed ex consigliere superiore Luca Palamara, impegnato freneticamente
a costruire e smontare carriere dei colleghi col taglierino delle correnti. E a distrarsi, in questo compito, sino a insultare un ministro allora in carica, salvo poi scusarsene, a intercettazione diffusa, invocando altre interlocuzioni dalle quali risulta persino l’opposto, cioè la sua convinzione che lo stesso ministro -parlo naturalmente di Matteo Salvini- fosse e magari sia ancora, da ex titolare del Viminale, il migliore leader sul campo.
più o meno vistosamente
contro il “silenzio” pubblico di Mattarella, limitatosi a raccogliere rigorosamente solo
in privato le proteste e le preoccupazioni di Salvini. Che da imputato, indagato e quant’altro di vari sequestri di navi e immigrati, reclama non a torto giudici davvero terzi.
presidente della Repubblica, Falcone spiegò praticamente la cristallina onestà antimafiosa del presidente della Regione, come se non bastasse la sua morte a testimoniarlo, per essere ormai votato fuori dal vecchio collegio elettorale del padre, Bernardo, situato in una parte della Sicilia ad alta densità mafiosa come il Trapanese.
può considerarsi un messaggio consolante per Sergio Mattarella, custode giustamente geloso
della buona memoria non solo del fratello ma anche del padre, iscrittosi nel 1924 al Partito Popolare di Luigi Sturzo fondato nel 1919. E fedele e apprezzato ministro anche di Aldo Moro nella cosiddetta prima Repubblica.
Violante. Che ha finito per condividere l’opportunità sostenuta dal compianto Giovanni Falcone di separare le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. Ma, consapevole
delle difficoltà politiche e persino istituzionali dell’obbiettivo, si accontenterebbe della separazione delle carriere fra i pubblici ministeri e i cronisti giudiziari, che ne amplificano il potere sostenendone le distorsioni e gli intrecci con la politica.
riuscire a vendere più copie, come riuscì invece a fare con vanto successivo e spavaldo Vittorio Feltri col suo Indipendente negli anni di “Mani pulite”, scambiando di proposito il ruspantissimo Antonio Di Pietro per un eroe di più mondi.
della giunta esecutiva, il direttore del giornale più vicino, diciamo così, ai magistrati -naturalmente Il Fatto Quotidiano- ha annunciato ai lettori il proposito di rinnovarlo. Ma non sarà certamente la sanificazione che -essa sì- mi sorprenderebbe davvero. E premierebbe il talento che certo non manca a quei colleghi che si sentono ispirati da scuole come quelle di Indro Montanelli e di Enzo Biagi.
delle chiacchierate telefoniche del magistrato Luca Palamara con tanti colleghi più o meno familistici o politici e giornalisti più o meno giudiziari, tutte intercettate col metodo invasivo del “Trojan”. Che -lo riconosco- potrebbe fare di chiunque di noi un mostro nei rapporti col prossimo. Ma, volente o nolente, Palamara ha mostrificato trojanamente per prima la sua categoria, peraltro da lui stesso rappresentata per un po’ di tempo al vertice dell’associazione dei magistrati. E poi anche come esponente del Consiglio Superiore.
il personaggio televisivo
del “cacciatore” di criminali: uno che si è anche affacciato in politica, come assessore alla legalità nella giunta capitolina di Ignazio Marino, fra il dicembre del 2014 e l’ottobre del 2015, uscendone immacolato come vi era entrato. E per nulla tentato, pare, di riprovarci.
maturerà il diritto, perché “non me ne frega niente”, ha detto spiegando di volere rimanere “un uomo libero”: anche dalle correnti della magistratura che hanno ancora il coraggio di chiamarsi così dopo essere diventate
tanto chiaramente e diffusamente conventicole di potere o “cosche”, com’è scappato oggi di scrivere persino a Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Le loro invasioni di campo cominciano nello stesso Ministero della Giustizia, dove un centinaio di magistrati governano ben più dei politici che si alternano al vertice e ne hanno sinora tollerato quello che può ben essere chiamato un conflitto permanente e oggettivo d’interessi, quanto meno.
a Bonafede per schivare “la Palamarata”, come l’ha chiamata sempre Travaglio sul suo giornale. O Palamerite, sarebbe forse meglio dire.
del dibattito sulle comunicazioni del presidente del Consiglio per provocare il centrodestra accusandolo, con un discorso di Riccardo Ricciardi, di amministrare, governare e quant’altro la Lombardia in modo così balordo da averne fatto la regione più colpita dal coronavirus. E di avere sperperato soldi pubblici, e privati, per allestire con la regia di Guido Bertolaso un ospedale inutile nell’area e struttura della Fiera di Milano.
in prima pagina sarcasticamente che la verità “non si può dire”, ha evidentemente seminato bene il terreno sotto le 5 Stelle, con tutte le maiuscole dovute al movimento o quasi partito fondato e tuttora “garantito” dal pur silente Beppe Grillo. Le sue campagne con frequenza ossessiva contro Bertolaso, sino a storpiarne il nome e a rinfacciargli anche l’udito indebolito dall’età, sono approdate nell’aula di Montecitorio come più clamorosamente non poteva accadere.
fisico solo con la distruzione di un microfono. Anche dal Pd si sono levate proteste contro il “ricompattamento” dell’opposizione provocato dal deputato grillino e dai colleghi di movimento per nulla imbarazzati, e poi tornati alla carica al Senato, sempre dopo la cosiddetta “informativa” di Conte.
azionati dai grillini. La Stampa ha protestato contro “la vergogna di quelle liti in aula”.
opposizioni, che sono riuscite a elidersi a vicenda con due mozioni di segno opposto impietosamente denunciato, col suo accento inconfondibile, dalla elegante senatrice altoatesina Julia Unterberger. Che ha pronunciato la sua dichiarazione di voto contrario affiancata non a caso da quella volpe di Pier Ferdinando Casini palesemente consenziente, pur avendo egli pronunciato nella discussione un discorso non proprio esaltante per il pur vincente ministro della Giustizia.
di intervenire con due decreti legge per riportarli dentro, o troppo poco, anzi per niente garantista secondo la senatrice Emma Bonino. Che è tornata a intitolare in aula la sua mozione a quella vittima emblematica della cattiva giustizia che fu Enzo Tortora.
una lunga intervista al Foglio proponendo “un patto con le opposizioni”: quasi un cavalcavia sulla testa di Renzi.
Che Renzi ha contribuito a salvare dalla sfiducia “individuale” non per averne apprezzato il discorso di difesa e replica in aula, che pure si era riservato di valutare, ma semplicemente e dichiaratamente per riguardo “politico” verso il capo del governo presente in mascherina ai banchi dell’esecutivo. Di cui egli ha ricordato la sostanziale minaccia delle dimissioni, e di una conseguente apertura di crisi, in caso di bocciatura del ministro della Giustizia e capo della delegazione grillina al governo.
con la sfiducia “individuale” a un ministro, pur importante come quello della Giustizia, dovesse e potesse ritenersi esaurita la legislatura. “In questo Parlamento la maggioranza si forma in un quarto d’ora”, ha dichiarato proprio Renzi in una intervista a Repubblica dopo la seduta al Senato parlando di una eventuale crisi.
questi che viviamo, e non solo per colpa dell’epidemia virale, come ha sospettato invece Federico Geremicca sulla Stampa preannunciando il salvataggio di Bonafede appunto grazie al covid 19, e all’emergenza da esso provocata anche in sede politica e istituzionale. Da qui la fine positiva, non so se più auspicata o prevista, della “lunga” e insonne
notte del guardasigilli, stando rispettivamente a un titolo del Quotidiano del Sud e alla vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera.
la sfiducia appunto “individuale” al guardasigilli e non all’intera compagine ministeriale guidata da Giuseppe Conte. Al Fatto Quotidiano, sempre all’erta sotto le 5 Stelle, non è parso verso trasformare il monito del Pd, secondo partito della coalizione giallorossa, come una bandiera, o bandierina, in un titolo di prima pagina.
di Renzi sulla testa di Bonafede, come ha titolato La Gazzetta del Mezzogiorno- è venuto in testa un po’ di riguardo per il presidente della
Repubblica e per le sue competenze in caso di crisi. E’ a lui infatti che spetta di decidere quando un governo si dimette se accettare o no l’apertura della crisi, avviando o proseguendo le consultazioni per cercare di risolverla o rimandando il governo alle Camere per verificare che davvero gli manchi la fiducia formalmente non ritiratagli. Non bisogna essere cattedratici di diritto costituzionale per sapere e capire una cosa del genere.
di più”. Altro, quindi, che l’”aiuto per l’Italia” sventolato in prima pagina da Repubblica, o la “scommessa”
Lagarde, proponendo una riforma di quello scorsoio e persino “stupido” patto di stabilità, come lo definì Romano Prodi, prima che torni in vigore dopo la sospensione decisa dalla Commissione di Bruxelles al sopraggiungere della crisi da emergenza virale.
per principio alla sfiducia individuale- se n’è aggiunta una della radicale ed ultraeuropeista Emma Bonino. Che, firmata anche da alcuni forzisti evidentemente dissidenti rispetto all’adesione a quella dei leghisti e dei fratelli d’Italia, è stata intestata dalla stessa Bonino alla memoria appunto di Tortora, protagonista della vicenda più emblematica di una cattiva amministrazione della giustizia in Italia.
la salute, e la vita stessa. Sotto la spinta del suo dramma si svolse nel 1987 un referendum, stravinto dai promotori ma poi contraddetto in gran parte da un intervento legislativo, contro le norme protettive dei magistrati in ordine alla responsabilità civile per i loro errori.
maggioranza i renziani, da sempre in polemica con Bonafede per non aver voluto condizionare ad una riforma concreta e operante del processo penale quella della prescrizione, che dal 1° gennaio scorso cessa con la sentenza di primo grado.
Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che ha lamentata la “opacità” dell’ inedito scontro consumatos, sia pure a distanza, tra un ministro della Giustizia e un consigliere superiore della magistratura. Quest’ultimo è il notissimo magistrato d’accusa del processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia della stagione stragista Nino Di Matteo.
consesso, la presidente del Senato ha voluto riferirsi alla posizione di Di Matteo. Che è stato del resto pubblicamente criticato per il suo scontro col ministro da autorevoli magistrati, fra i quali l’ex capo della Procura della Repubblica di Torino Armando Spataro, non certamente sospettabile di lassismo giudiziario o di indulgenza verso il governo di turno nell’espletamento delle proprie funzioni, quando e dove le svolgeva.