La conferma digitale di Luigi Di Maio alla guida di quello che, per quanto ridotto nelle urne di domenica scorsa al 17 per cento dei voti, resta nel Parlamento nazionale, col 32 per cento conquistato l’anno scorso, il primo movimento o partito italiano, è purtroppo diventata sulle prima pagine dei giornali una notizia minore.
Ciò è avvenuto per l’esito scontato di un “plebiscito” cui era stato ridotto per le solite modalità adottate dal proprietario della piattaforma e per la reinvestitura fornita da Beppe Grillo: il “garante”, l’”elevato”, il Migliore”, al maiuscolo come si scriveva in adorazione di Palmiro Togliatti nel Pci. Hanno inoltre contribuito al declassamento della notizia il falso caso della uscita dal governo del leghista Edoardo Rixi, francamente e politicamente inevitabile dopo la condanna per peculato e falso, sia pure in primo grado, e i clamorosi sviluppi dell’inchiesta giudiziaria su quello che si profila come il mercato non solo correntizio delle nomine nei tribunali affidate alla competenza del Consiglio Superiore della Magistratura.
E’ stato quanto meno curioso il pur ridotto ma trionfalistico annuncio sul Fatto Quotidiano dell’80 per
cento dei voti raccolti da Di Maio, liquidato non più tardi del giorno prima sullo stesso, insospettabile giornale diretto da Marco Travaglio, e con la penna o il
computer del medesimo Travaglio, come “un pugile suonato” dopo “il KO” elettorale di domenica, eppure sottoposto a “un imbarazzante plebiscito con un solo candidato”. Che è stato giustamente tradotto con una vignetta giornalistica sulla Gazzetta del Mezzogiorno in una scelta elettronica fra la conferma del capo del movimento e l’esclusione delle sue dimissioni.
“Sei milioni di voti persi non si cancellano con qualche migliaio di clic”, aveva scritto alla vigilia del “plebiscito”
Travaglio, prima ancora di sapere che i voti sarebbero stati 56 mila, non si sa però, per i misteri della piattaforma intestata all’incolpevole Jean-Jacque Rousseau, morto undici anni prima della Rivoluzione francese del 1789, su quanti avrebbero avuto diritto a partecipare alla consultazione. Pertanto quell’80 per cento applicato come una coccarda sul calzoncino del “pugile suonato” ha un valore alquanto relativo e indefinito.
In realtà, senza volere mancare di riguardo personale al vice presidente grillino del Consiglio e pluriministro, anche l’immagine impietosa del “pugile suonato” usata dal suo estimatore politico Travaglio, fiducioso che con qualche “segnale chiaro” i pentastellati possano recuperare almeno una parte dei voti rovinosamente perduti domenica; in realtà, dicevo, il povero Luigi Di Maio è stato in qualche modo imbalsamato con quel falso plebiscito.
Volenti, e persino nolenti, i compagni del giovane capo del movimento lo hanno lasciato al suo posto condannandolo a intestarsi anche la prossima sconfitta. Che coi tempi che corrono, fra conti in rosso e sovrappeso politico di un Matteo Salvini ancora più difficilmente contenibile, soccorso persino dalle sezioni unite della Corte di Cassazione nella sua ultima offensiva popolare contro la droga, mi sembra francamente scontata. E ciò specie se la situazione dovesse precipitare verso elezioni anticipate in autunno per l’impossibilità del presidente del Consiglio di gestire il governo e del presidente della Repubblica di trovare, una volta scoppiata la crisi, una soluzione diversa dallo scioglimento delle Camere ormai delegittimate -diciamo la verità, al di là delle disquisizioni accademiche di segno contrario- dai risultati delle elezioni europee, piemontesi e amministrative di domenica scorsa.
Ripreso da http://www.startmag.it e policymakermag.it
col titolo di copertina, diciamo così, è stata stesa in persona da Beppe Grillo, dopo 48 ore di preghiera all’ascolto di Radio Maria a suo modo, imprecando contro “l’Italia peggiore” -ha scritto nel suo blog- espressasi nelle urne
domenica scorsa a favore di “un personaggio unicamente virtuale” come Matteo Salvini. Che il comico genovese, fondatore, garante e non so cos’altro del movimento presente in Parlamento con i gruppi più numerosi, come se fosse stata migliore l’Italia che glieli aveva mandati il 4 marzo 2018, ha già altre volte liquidato come il frutto di una imperdonabile dimenticanza o imprevidenza della mamma senza pillola.
sorprese dalle dieci ore di clic disposte per confermare lo sconfitto alla guida del partito: dieci ore di votazioni elettroniche, meno di una per ciascuno dei 15 punti, ripeto, che il vice presidente del Consiglio, ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro ha perso per strada, a livello prima locale e infine nazionale. E ciò, nonostante l’ambizione di limitare le perdite liquidando nell’ultimo tratto della campagna elettorale come “stronzate”, letteralmente, tutte le cose che andava dicendo nelle piazze, interviste e sortite il suo pur alleato Salvini. Che ora lo ripaga con quello che è in qualche modo il bacio della morte, cioè consolandolo delle perdite, attaccando chi lo contesta o ambisce a succedergli prima o poi alla guida del movimento e quindi accreditandolo come gli avversari lo dipingono: il grillino più conveniente per i leghisti.
forza acquisita nella maggioranza gialloverde da Salvini; del caos crescente in Forza Italia, dove Berlusconi potrebbe non riuscire a logorare il leader leghista che in fondo dà fastidio anche a lui, e infine della crisi economica. Che si trascina appresso i problemi dei rapporti con l’Europa, dove i risultati elettorali non sono esattamente quelli che servivano a Salvini per
rimettere in discussione regole e quant’altro. Eppure il suo luogotenente a Palazzo Chigi, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, ha detto che la lettera appena arrivata dalla Commissione uscente di Bruxelles per chiederci spiegazioni urgenti sul debito pubblico, cresciuto più delle previsioni e degli impegni assunti, potrebbe essere l’occasione dell’apertura di “un confronto sulla congruità dei vincoli stabiliti rispetto alla situazione concreta”.
una rappresentazione fiduciosa ma non del tutto convincente delle prospettive del governo. Se non l’allarme riferito da Repubblica nel suo vistoso titolo di
prima pagina, quanto meno un senso di forte preoccupazione del capo dello Stato si avverte nella cronaca quirinalizia solitamente affidabile del Corriere della Sera, dove si sono spinti a prospettare un pensierino, diciamo così, di Mattarella per elezioni anticipate a settembre. Sarà quel che lo stesso Mattarella vorrà o potrà fare.
destinata a non esaurirsi nell’assemblea congiunta dei gruppi parlamentari già annunciata e rinviata perché si è diffusa la voce, se non la notizia, della tentazione di Luigi Di Maio di sottoporre la sua pericolante leadership a un referendum, gestito naturalmente dalla piattaforma Rousseau. O, come dicono più concretamente altri, da Davide Casaleggio, magari nella versione della “Casaleggio dissociati” beffeggiata sulla prima pagina del solito, irriverente manifesto.
Ed ora anche lui, così giovane, è chiamato a contare gli emuli di Bruto coi loro pugnali. Spero che non si monti la testa e non si paragoni a Cesare, distraendosi da quello schiacciasassi di Salvini che intanto procede su di lui, dopo averne subito attacchi, allusioni, derisioni, minacce e quant’altro.
un punto all’altro dell’Italia- il successo elettorale della Lega sembra avere dato la testa più ai giornali che l’avevano più o meno duramente avversata nella campagna elettorale che al suo leader Matteo Salvini. Di cui titoli e vignette -a cominciare da quella di Emilio Giannelli sul Corriere della Sera, che lo rappresenta come Superman che svetta mentre Luigi Di Maio precipita- danno l’immagine del padrone ormai di tutto: dall’”agenda”
del governo alle chiavi di casa nostra, non bastandogli più le coste così a lungo difese dall’assalto dei migranti, i nuovi pirati, e dalle “interferenze” dei magistrati ancora convinti, secondo il capo leghista, di poter fare politica con le loro ordinanze e sentenze senza farsi prima eleggere dai cittadini.
che li spinge all’opposizione: cioè al suicidio, più rapido di quella lunga morte scelta l’anno scorso alleandosi per il governo con i leghisti, anziché spingere -si deve presumere, stando al ragionamento di Marco Travaglio- per le elezioni anticipate. Con le quali essi avrebbero potuto tentare di passare dal 32 al 40 per cento, anziché precipitare al 17, com’è avvenuto dopo poco più di un anno di inebriante potere, alla media non so di quante nomine al giorno e di quanti annunci di conquiste di casematte e cose del genere.
o generalmente sopra le righe, per moltiplicare sia il successo del vincitore sia l’insuccesso dello sconfitto di turno. E non è solo questione di volere saltare sul classico carro del trionfatore, ma anche di masochismo.
pagina da Repubblica; può avere anche incassato “un voto della Madonna”, sparato
in rosso sulla prima pagina dal Foglio che lo soprannomina “il Truce” con quella sinistra rima col Duce; può anche fare da ministro ormai dell’Intero,
anziché dell’Interno, un mazzo così a chi gli capita a tiro; può anche divertirsi a leggere persino sul Giornale della famiglia di Berlusconi il sorpasso eseguito sul Cavaliere
anche nei voti di preferenza nella scalata al seggio di Strasburgo, cui peraltro dovrà rinunciare per una incompatibilità che curiosamente non scatta nel momento della candidatura, con quanto poco rispetto per gli elettori è evidente; ma quando verrà l’ora di decidere davvero sulle sorti del governo gialloverde, cioè ogni volta che i grillini dovessero davvero resistergli come un “argine”, ribadito da Di Maio e dallo stesso Salvini liquidato come un’espressione “emotiva”, il leader leghista si chiederà che cosa davvero lo aspetti ad Arcore e dintorni. E forse si guarderà bene dall’avvicinarvisi.
interni e su quelli con l’Unione Sovietica e gli altri paesi dell’est, specie dopo le tragedie, fra l’altro, dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, abiurassero da soli dando quella che proprio Berlinguer definì con loro “una prova di fedeltà”. Mancata la quale, il malandato segretario del partito Luigi Longo, cui lo stesso Berlinguer era stato affiancato per succedergli nel 1972, avviò la procedura della radiazione. Che fu completata dal Comitato Centrale, su relazione di Alessandro Natta, con i voti contrari dei soli Cesare Luparini, Lucio Lombardo Radice e Fabio Mussi. Neppure, o soprattutto, come preferite, Pietro Ingrao volle sostenere i dissidenti, pentendosene anni dopo ma sentendosi allora “tradito” addirittura da loro.
conquistato l’anno scorso da Matteo Renzi, partito addirittura da oltre il 40 per cento delle precedenti elezioni europee. Che gli avevano dato un po’ alla testa rendendolo troppo baldanzoso, alla maniera della Dc fanfaniana degli anni Cinquanta del secolo passato. La Forza Italia dell’ostinato Silvio Berlusconi è scesa all’8,79 per cento, dal 14 dell’anno scorso, evitando il sorpasso, che sarebbe stato obiettivamente umiliante, dei Fratelli d’Italia di
Giorgia Meloni, saliti al 6,46 dal 4,44 dell’anno passato. Merita infine di essere segnalata la mancata soglia del 4 per cento, sia pure di poco, della lista +Europa di Emma Bonino, che avrebbe forse fatto meglio ad associarsi a Carlo Calenda per gonfiare di più le vele del Pd.
rimasti più a casa che passati alle liste concorrenti o avversarie. L’aspetto penoso di questa consolazione deriva dalla derisione riservata l’anno passato dallo stesso Di Maio alle analoghe spiegazioni che i dirigenti del Pd davano delle loro perdite.
convenienza di una crisi fatta avvertire da Salvini con l’iniziativa assunta dal Cavaliere, nelle ultime battute della campagna elettorale, di rimettere in discussione la leadership del centrodestra riconosciuta ai leghisti dopo il sorpasso dell’anno scorso su Forza Italia.
ai grillini, che non chiederà “mezza poltrona” in più nella compagine ministeriale, e tanto meno perseguirà “un regolamento di conti nella maggioranza”. Il secondo, richiesto dal Corriere della Sera
di una previsione sul futuro del governo, anche alla luce delle difficoltà che lui stesso potrà incontrare nel proprio movimento, di cui non è riuscito a frenare la caduta neppure con i fuochi accesi nell’ultimo tratto della campagna elettorale, ha testualmente risposto: “Certo che va avanti”.
La Stampa, o “governo appeso al voto europeo”, secondo Il Messaggero, e varianti di questo tipo escogitate
dai giornali per creare o mantenere un clima di suspense attorno ai 51 milioni di elettori chiamati alle urne nella penisola tricolore. Se vi erano incertezze -e ve ne sono state per un po’- sulla
sorte della maggioranza gialloverde per i contrasti che l’hanno divisa nella lunga campagna elettorale, e che non cesseranno certamente dopo i risultati della notte, sono state spazzate via nelle ultime battute dalla svolta impressa da Silvio Berlusconi, e incredibilmente sottovalutata dalla maggior parte dell’informazione.
di bomba i due alleati” Salvini e Di Maio, o viceversa se preferite l’ordine alfabetico. Tanto, in attesa della rinascita, resurrezione e quant’altro del Pd, Scalfari può consolarsi con la vignetta dell’amico Francesco Tullio Altan, sempre su Repubblica, dedicata all’Europa che “è sempre l’Europa, come la mamma”, per quanti fastidi e persino dolori possano procurarle i cosiddetti sovranisti, populisti e simili, di varia nazionalità, e non solo italiana.
e rotti in cui di cui si rinnovano i Consigli e si eleggono direttamente i sindaci. Accontentiamocene. Sono d’altronde parecchi. E possono aiutarci a capire lo stesso gli umori del Paese, persino più del voto europeo.
e amministrative in più di 3800 Comuni, nessuno si dimetterà. E tanto meno piangerà. Tutti troveranno il modo, vedrete, di consolarsi a dispetto anche delle vesti che si è già strappato Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano titolando il suo editoriale conclusivo della campagna elettorale, cui il suo giornale ha partecipato non certo da posizioni neutrali, con l’annuncio che “Comunque vada, sarà un disastro”.
sulla loro finta contrapposizione. Che potrebbe cessare senza alcuna crisi di governo o continuare, indifferentemente, sempre senza crisi, salvo sorprese imposte dai mercati finanziari, di solito non sprovveduti. Già si può intravvedere l’attesa dei ballottaggi comunali di metà giugno, poi delle regionali in autunno in Emilia-Romagna, e probabilmente in Umbria, e poi ancora di altre regionali nella primavera dell’anno prossimo.
crisi: l’indomito Silvio Berlusconi, per niente intimidito dalla qualifica di “impresentabile”, per via delle sue grane giudiziarie, attribuitagli dalla presidenza grillina della Commissione Antimafia. Che ha fatto finta, anch’essa, di non sapere che certi interventi producono effetti opposti a quelli pubblicamente perseguìti.
esaurire la spinta che lo ha portato così in alto e a cominciare a pagare gli effetti dell’inevitabile logoramento che forse lo aspetta per l’aggravamento della crisi economica. Ci sarà tempo -può pensare il furbissimo Cavaliere- per un ritorno di Salvini e della Lega nel centrodestra a livello nazionale in condizioni più vantaggiose, o meno pesanti, per Forza Italia, oggi costretta dalle distanze elettorali dai leghisti, a muoversi sulla difensiva, nonostante la baldanza del suo fondatore e leader a vita.
dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Il quale sarà sobbalzato pure lui, credo, sulla sedia, già consumata dai cinque anni già trascorsi dei sei del mandato, sentendo prendere a parolacce un tema sollevato con la professionalità di un magistrato nel momento dell’approvazione della legge cosiddetta “spazzacorrotti”. La cui applicazione potrebbe confliggere col carattere attualmente non ben definito del reato di abuso, appunto, d’ufficio: tanto poco definito da essere stato paragonato una volta da un amministratore, ed ex ministro, dell’esperienza di Pier Luigi Bersani al sovraccarico di un camion, contestabile con una multa al conducente.
del figliol prodigo, ha cercato di ricacciarlo ancora più lontano. In particolare, il Cavaliere ha riaperto i giochi della leadership del centrodestra, dicendo che il capo della Lega avrà pure più voti di Forza Italia, molti di più di quelli che già l’anno scorso gliene consentirono il sorpasso, ma non le qualità politiche necessarie a guidare una coalizione. E così si fa buio anche dall’altra parte, ammesso e non concesso naturalmente che il “capitano” leghista volesse e voglia farla risplendere.