Appena sollevato dal sostanziale sgonfiamento del cosiddetto affare Diciotti -avendo capito che il processo al suo vice presidente e ministro dell’Interno Matteo Salvini per sequestro aggravato di persona e abuso d’ufficio non passerà al Senato, e né lo stesso Salvini né i grillini favorevoli invece all’azione giudiziaria
provocheranno la crisi se la richiesta della magistratura sarà respinta con una maggioranza diversa da quella di governo- Giuseppe Conte ha dovuto riaprire il doloroso fascicolo della recessione. E, una volta tanto precedendo la diffusione dei dati in arrivo dall’Istat, ha annunciato lui stesso la caduta della tegola.
Anche il terzo trimestre dell’anno passato, e secondo del governo gialloverde, si è chiuso negativamente per il prodotto interno lordo, noto con l’acronimo Pil. Rispetto al quale pertanto appaiono esagerate tutte le previsioni di crescita formulate dal governo nel momento del varo della manovra finanziaria per compensare le maggiori spese derivanti dal reddito di cittadinanza e dell’accesso anticipato alla pensione. La cui applicazione si sta già festeggiando nella maggioranza, prima ancora che materialmente qualcuno abbia potuto assaporarne i frutti.
Del resto, la sensazione, chiamiamola così, di un passaggio dalla stagnazione alla recessione era stata già avvertita, diffusa e argomentata dalla Banca d’Italia e da organismi internazionali fra le proteste e gli scongiuri di esponenti del governo, fra i quali persino il ministro dell’Economia Giovanni Tria. E non solo Salvini, nel poco tempo lasciatogli libero dalle decisioni e dalle polemiche sul tentativo di processarlo e, più in generale, sui temi dell’immigrazione più pertinenti alle sue funzioni al Viminale.
Eppure il presidente del Consiglio, in giro per l’Italia e per il mondo come una trottola, premiato in verità per il suo attivismo con la soluzione appena trovata all’ennesima vicenda di una nave bloccata davanti alle coste italiane -la Sea Watch- con migranti in attesa di destinazione, non ha smesso di sperare sull’inversione della brutta tendenza economica, nonostante tutti e tutto. Prima o dopo, oltre che devoto di Padre Pio sul piano religioso e di Aldo Moro sul piano politico, entrambi suoi corregionali, il presidente del Consiglio si scoprirà gramsciano per la famosa e felice espressione del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà coniata dal fondatore della compianta Unità, e tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia: Antonio Gramsci, appunto.
All’ottimismo del presidente del Consiglio italiano -un ottimismo di ufficio o convinto che sia- non credono tuttavia neppure in un giornale dove certamente non gli vogliono male: il Fatto Quotidiano.
La cui “ cattiveria” di giornata, in prima pagina, è stata dedicata proprio a lui, e dice: “Il premier Conte annuncia un’ulteriore contrazione del Pil nel quarto trimestre del 2018. Ma si aspetta una ripresa nel quinto”. Ridete pure, se vi piace la battuta di sapore un po’ montanelliano: bisogna riconoscerlo al direttore del Fatto, che con Indro Montanelli ebbe dimestichezza personale e di lavoro, al pari di altri molto diversi, che lui è solito bistrattare. Ma in realtà ci sarebbe ben poco da ridere.
di attuazione, che il Senato a maggioranza assoluta neghi l’autorizzazione ravvisando nell’azione del ministro Salvini il perseguimento di un superiore interesse pubblico, prevalente anche sulla contestazione di reati da parte dal tribunale dei ministri, Marco Travaglio ha sostenuto che in tal caso l’Italia subirebbe -sentite, sentite- un danno gravissimo di delegittimazione internazionale.
appunto a Salvini, che il cosiddetto tribunale dei ministri di Catania, con la procedura dell’articolo 96 della Costituzione, ha chiesto al Senato di poter rinviare a giudizio per sequestro aggravato di persone e abuso di ufficio, avendo egli bloccato nella scorsa estate per alcuni giorni oltre 170 migranti sulla nave Diciotti della Guardia Costiera italiana, che li aveva soccorsi in mare. Il presunto sequestro, in qualche modo ripetuto davanti alle coste di Siracusa in questo gennaio per i migranti raccolti dalla nave Sea Watch battente bandiera olandese, era finalizzato alla distribuzione dei migranti fra più paesi, come poi avvenne.
alleati di governo votassero al Senato per l’autorizzazione. “Se lui stesso vuole il processo, perché deluderlo o contraddirlo ?”, aveva chiesto Di Maio, sornione, in un salotto televisivo gustandosi lo scampato pericolo- secondo lui- di chiedere ai propri compagni di partito di scendere dal pero della loro ostilità di principio ad ogni forma di immunità o protezione, per quanto prevista dalla Costituzione, e di misurarsi con la realtà di un no alla magistratura per difendere le prerogative di governo da essa contestate.
che comprensibile. Che è questa: il rischio di vedersi condannato al processo e di subirne gli effetti preclusivi come ministro e politico, anche con la sola sentenza di primo grado, sufficiente a fare scattare una legge chiamata Severino, dal nome della ministra della Giustizia dell’epoca in cui fu emanata.
costituzionale attuativa del già citato articolo 96, Salvini ha schiacciato -per tornare alla metafora iniziale- lo zampino della gatta grillina sul lardo della furbizia o, peggio ancora, del doppio gioco. E ha messo i suoi alleati di governo nei guai, in vista delle votazioni che dovranno svolgersi sulla sua vicenda prima nella giunta competente e poi nell’aula del Senato, peraltro in un arco di novanta giorni che coincide con un bel po’ di campagne elettorali per il rinnovo di Consigli regionali e del Parlamento Europeo. Dai cui risultati dipende, non meno che da altri fattori, e forse anche di più, anche la sopravvivenza del governo gialloverde.
destra di Giorgia Meloni a sostenere Salvini e i piddini di ogni tendenza a cavalcare invece la vicenda giudiziaria contro il ministro dell’Interno- ha naturalmente scatenato la fantasia generalmente brillante dei vignettisti e dei titolisti delle prime pagine. Brillante, però, con una eccezione almeno a mio parere: quella di Mauro Biani, che sul manifesto si è lasciato prendere la mano dall’antisalvinismo ed ha in qualche modo paragonato il processo al ministro dell’Interno a quello di Norimberga contro i boia nazisti.
gialloverde, che gli hanno peraltro impedito di riconoscersi nella posizione dell’Unione Europea, pur apprezzata dal suo ministro degli Esteri e dai leghisti, sulla grave crisi esplosa in Venezuela, dove vivono peraltro più di 130 mila italiani, il presidente del Consiglio Conte avrebbe bisogno di fare rientrare in fretta dall’Afghanistan almeno un militare, di quelli bravi a trovare e disinnescare mine. Dovrebbe allestirgli a Palazzo Chigi un ufficio più adiacente al suo di quello del capo ufficio stampa, portavoce o non so cos’altro Rocco Casalino
processi contro deputati o senatori, protetti ora dalla richiesta di autorizzazione solo per l’arresto, la perquisizione e l’intercettazione, non c’entra nulla col problema di Salvini. E del processo cui il tribunale catanese dei ministri ha chiesto di sottoporlo, nonostante l’archiviazione proposta dalla locale Procura della Repubblica, per sequestro aggravato di persone e abuso d’ufficio in ordine alla vicenda, nella scorsa estate, del pattugliatore Diciotti della Guardia Costiera Italiana. Che il ministro dell’Interno bloccò nel porto etneo col suo carico di migranti soccorsi in mare, fino a quando non ne ottenne l’assegnazione a più paesi, e ai vescovi italiani.
del Corriere della Sera Marzio Breda, collaudato da molti anni ormai nell’ascolto -ha scritto- di “coloro che stanno vicino” al capo di Stato di turno, ha annunciato che sulla soglia del quinto anno, appunto, del suo mandato presidenziale Mattarella “si è rassegnato al cambio di passo, a diventare interventista”. Caspita, non è cosa da poco.
rappresentazione fattane dai vignettisti di un uomo distratto o dormiente, tra gli stucchi e gli specchi del Quirinale, al ruolo dichiarato e compiaciuto di “picconatore”. Che egli onorò sino all’ultimo momento del suo incarico, anticipandone con le dimissioni l’epilogo solo di qualche settimana, sufficiente però a sconvolgere i piani della maggioranza uscente di governo, composta da democristiani, socialisti, socialdemocratici e liberali, priva ormai della partecipazione dei repubblicani di Giorgio La Malfa, usciti polemicamente dall’ultimo governo di Giulio Andreotti. Era una maggioranza che, pur uscita ristretta nei numeri dalle urne del 1992 fra gli spifferi di Tangentopoli, decisa a chiedere e ottenere da Cossiga il ritorno di Bettino Craxi a Palazzo Chigi, allontanato nel 1987 con le brutte dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita.
“rassegnato” il presidente della Repubblica verso le “transizioni costituzionali” delineate dalla “democrazia diretta” e dal “federalismo differenziato” che stanno cucinando nel pentolone della maggioranza gialloverde. Ma prima ancora di arrivare a quelle stazioni il convoglio, diciamo così, del capo dello Stato – arricchito da poco di un corazziere nero che ha acceso la fantasia dei retroscenisti in questo periodo di forti polemiche sui migranti- deve affrontare il percorso dei problemi più immediati. Che sono quelli elencati all’inizio. Essi alimentano le cronache politiche di questi giorni e sono destinati a incrociare prima o dopo le competenze del presidente della Repubblica, a tutela dei principi costituzionali e dei rapporti costituzionalmente garantiti fra i vari poteri dello Stato.
ad interim della Repubblica con l’appoggio degli Stati Uniti d’America, accusati per questo di ingerenza dalla Russia di Putin. Che da tempo acquista petrolio venezuelano sotto costo e volta la faccia dall’altra parte piuttosto che riconoscere che in quel paese ormai si vive, per il dissesto cui l’ha ridotto l’erede di Chavez, “tra spie, cibo scaduto e acqua razionata”. Così si legge su una delle tante prime pagine dei giornali italiani che se ne occupano anche per i tanti connazionali che vi vivono: più di 130 mila. Cui potremmo in qualche modo aggiungere due milioni di oriundi.
“alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza” – l’Unione Europea ha voluto e potuto schierarsi abbastanza presto da una parte. Che è quella praticamente di Guaidò, condizionandone il riconoscimento al rifiuto sinora scontato di Maduro di concedere entro otto giorni nuove e finalmente democratiche elezioni.
si mette personalmente in disparte sulla materia per non contraddire il sostegno pieno a Maduro annunciato per conto dei grillini neppure dal vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio, ma dall’ormai ex deputato ma sempre incombente concorrente Alessandro Di Battista. Cui invece l’altro vice presidente del Consiglio, e ministro dell’Interno, Matteo Salvini reagisce in malo modo staccandosi questa volta lui dai sovranisti, e infischiandosene una volta tanto della posizione dei suoi amici a Mosca. Dove sino a qualche giorno fa il leader leghista si recava sentendosi dichiaratamente e orgogliosamente “di casa”.
già allora pesante cui Maduro aveva ridotto il Paese avvolgendosi nel mito dello scomparso Hugo Chavez. La mozione fu approvata, ma col voto contrario dei grillini, rimasti ostinatamente fermi quindi nelle loro idee, nonostante la situazione nel frattempo in Venezuela si sia ulteriormente aggravata. Casini forse anche per questo si è chiesto di recente se la prospettiva venezuelana non sia quella perseguita per l’Italia al governo dal movimento di Grillo, pur fra le alterne distinzioni e distanze dei leghisti.
In tal caso la Camera di competenza per l’autorizzazione è il Senato, dove Salvini peraltro è di casa facendone parte. Ma egli è arrivato al vaglio della sua Camera di appartenenza non come senatore, ripeto, provvisto di una immunità da proteggere da eventuali fumi persecutori dei magistrati che se ne occupano, ma come ministro cui una legge costituzionale, non il capriccio suo o di chi gli sta accanto o sopra, conferisce il diritto di derogare ad una norma, pur contestatagli dalla magistratura, di fronte alla necessità di tutelare “un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” o “un interesse pubblico”. Lo ha letto e ne ha scritto sul Fatto Quotidiano che dirige persino Marco Travaglio, per cui credo che si possa ripeterlo senza paura di offendere la sensibilità dei grillini che non vedono l’ora invece di vedere processare Salvini, e magari anche unirsi a certe opposizioni di sinistra nel sognarlo fra le grate di una cella, come nella vignetta di Giannelli sul Corriere della Sera.
quindi di trascinare Salvini sul banco degli imputati e magari poi anche in cella, è che non è per niente scontata la resistenza del leader leghista al processo, pur disponendo lui al Senato di una sicura maggioranza a suo favore. I grillini del sì alla richiesta della magistratura potrebbero essere sostituiti con i più numerosi parlamentari del centrodestra che ha portato Salvini al Parlamento: quelli dei partiti di Silvio Berlusconi e di Giorgia Meloni, già pronti a farlo.
I novanta giorni necessari al passaggio della vicenda Diciotti, chiamiamola così, fra la giunta competente e l’assemblea del Senato coincidono con la campagna elettorale per le europee di maggio, e con quelle regionali ancora più vicine dell’Abruzzo, della Basilicata e della Sardegna, in ordine alfabetico.
della maggioranza di governo: il movimento delle 5 stelle. Dove si soffre con crescente evidenza l’alleanza con Salvini sia per il ruolo preponderante che egli ha assunto nella compagine di governo, sia per il carattere politicamente poco omogeneo dei pentastellati, o grillini, sia e forse ancor di più per l’idrovora elettorale che si sta rivelando, anche ai loro danni, il leader leghista.
verso la magistratura di turno, a gridare nel titolo di prima pagina che con la notizia giudiziaria giunta da Catania “Salvini ottiene il suo processo”. E si sente incoraggiato, nella propensione alle sfide che lo distingue, ad affrontare i nuovi casi di migranti e navi in arrivo con la stessa determinazione mostrata in occasione della vicenda Diciotti.