Omessa l’azione del “nostro generale” anche per i pentiti di mafia

Ho molto esitato prima di decidermi a scrivere della fiction televisiva sul prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa morto sul campo della lotta alla mafia –Il nostro generale- sentendomi un pò parte in causa per il torto che ritengo gli sia stato fatto. E ciò pur tra i tanti meriti giustamente riconosciutigli, specie quelli acquisti nella lotta alle brigate rosse e poi sommersi, nella memoria, dalle emozioni per il tragico esito della sua ultima missione al servizio dello Stato.

Mi sono alla fine deciso a scriverne con un compromesso con me stesso: quello di non raccontare come e perché sono parte interessata all’omissione che ho avvertito nella ricostruzione degli ultimi mesi, direi anche giorni di vita del generale. Che non furono contrassegnati soltanto dagli incresciosi rapporti polemici col ministro democristiano dell’Interno Virginio Rognoni, un pò renitente ai maggiori poteri che il prefetto rivendicava per svolgere al massimo delle sue capacità le funzioni finalizzate alla lotta alla mafia. Nei cui riguardi il generale temeva di apparire debole, nonostante il prestigio di cui godeva nel Paese: debole, ripeto, ma soprattutto solo. Che è la condizione peggiore in cui si possa trovare un combattente contro la criminalità organizzata di quel tipo.  

In questa ricerca persino “ossessiva” di maggiori poteri -come una volta si lasciò scappare lo stesso Rognoni parlandone col presidente del Consiglio Giovanni Spadolini- il prefetto chiese ed ottenne anche l’aiuto mediatico di Giorgio Bocca con quell’intervista a Repubblica opportunamente ricostruita e valorizzata nella fiction televisiva. Che, purtroppo per il generale, finì però per ottenere l’effetto opposto a Roma perché al Viminale ebbero la sensazione di un eccesso di personalizzazione del problema. 

Ebbene, proprio in quei giorni, e in quelli immediatamente successivi, oltre che  per i suoi poteri personalie per le misure legislative che avrebbero dovuto supportarli, il generale si prodigò perché fosse sperimentata un’applicazione alla lotta alla mafia della legislazione cosiddetta premiale adottata con successo nella lotta al terrorismo. Che non si sarebbe certamente vinta senza il contributo dei pentiti, a cominciare dal più famoso che fu Patrizio Peci. Il quale peraltro, destinato a perdere barbaramente per ritorsione il fratello Roberto, era stato convinto a parlare proprio dal generale dalla Chiesa. Che si vantava di averlo convinto, dopo la cattura, parlandogli -diceva ai sottoposti- “da militare a militare”. E rivelandogli le scorrettezze e persino i tradimenti riservatigli dai compagni di lotta. 

Nel sostenere l’adozione di una legislazione premiale anche per i pentiti di mafia, sopraggiunta di molto alla morte del generale ma completamente ignorata nella fiction televisiva chissà per quale ragione, il  prefetto avvertiva tuttavia il rischio -date le diverse condizioni sociali in cui i due fenomeni si erano sviluppati e operavano, i terroristi peraltro tenendosi ben lontani dalla Sicilia- di non ripetere l’esperienza di chi, pur avendo parlato senza legislazione premiale, era finito in manicomio. E il prefetto ne fece anche il nome: il palermitano Leonardo Vitale , consegnatosi nel 1973, all’età di 32 anni, nelle mani dell’allora commissario di Polizia Bruno Contrada confessando due omicidi e il tentativo di un terzo.

Il primo pentito di mafia consentì con le sue rivelazioni una quarantina di arresti, ma il processo o i processi che ne conseguirono si conclusero fallimentarmente per lui. Gli accusati furono assolti per l’ancora fortissima  omertà che copriva i mafiosi, e lui condannato a 25 anni di carcere, in gran parte scontati in manicomi criminali perché considerato pazzo. 

  L’ultima detenzione di Vitale, proveniente da Barcellona Pozzo di Gotto, fu a Parma. Da dove uscì nel 1984, circa due anni dopo l’assassinio del prefetto di Palermo. Ma ne uscì per poco perché la mafia si vendicò del suo ormai lontano tradimento, dagli effetti giudiziari peraltro contenuti, uccidendolo il 12 dicembre, prima che l’anno della liberazione passasse. Fu un’esecuzione di pena per la vittima, in applicazione delle leggi della mafia, e un avvertimento per gli altri intenzionati ad avvalersi delle norme premiali avvertite come probabili e sostenute dal generale. Che però aveva saputo seminare abbastanza nel pur poco tempo trascorso a Palermo da prefetto, e ancor più altrove nella lotta al terrorismo, per far crescere il pentitismo, pur nelle degenerazioni prodotte -bisogna ammetterlo- da una cattiva gestione del fenomeno. All’ombra del quale , con uomini ben diversi dalla stazza morale di Carlo Alberto dalla Chiesa, sono accadute nell’intreccio fra politica e mafia, o fra cronache giudiziarie e politiche,  cose da pazzi: di una follia vera, non quella attribuita al povero  Leonardo Vitale. 

Pubblicato sul Dubbio

Il mezzo perdono -non di più- di Carlo De Benedetti ad Enrico Letta e al Pd

L’arrabbiatura dell’ingegnere Carlo De Benedetti per la sconfitta elettorale del Pd di Enrico Letta, cui avrebbe preferito una vittoria pur improbabile di un Pd nuovamente alleato con i grillini, sembra finalmente passata. Finalmente, a quattro mesi dalle funeste elezioni anticipate e dal suo invito al Pd a “sciogliersi”, ma non so se anche fortunatamente perché l’ex editore di Repubblica e ora di Domani ha cambiato umore ma non opinione, com vedremo, sulle condizioni del partito. Di cui prenotò a suo tempo la tessera addirittura numero 1, lasciando la seconda all’amico fondatore e segretario Walter Veltroni. 

A commento dell’ultima riunione dell’assemblea nazionale uscente e insieme “costituente”, rispettivamente, del vecchio e “nuovo” Pd, secondo il curioso e lungo percorso congressuale voluto al Nazareno, un editoriale di Domani affidato ieri a Piero Ignazi, politologo di tutto rispetto, ha certificato nello stesso titolo che “Il Pd è l’unica forza politica in cui si discute veramente”. 

Questa unicità, chiamiamola così, andrebbe riconosciuta “nonostante gli sbeffeggiamenti che   (il Pd) riceve quotidianamente anche da supposti amici e, ancor più, da supposti osservatori indipendenti”, ha scritto Ignazi senza riguardi neppure per fondatore, direttore e altri editorialisti e cronisti dello stesso Domani. Il Pd -ha insistito e precisato il professore- è “l’unica forza politica dove si discute, si mettono sul tappeto idee e proposte, e alla fine si decide dal basso”, poco importa se per stare o rimanere all’opposizione o per stare o tornare al governo. Questa, sì, che è serietà: altro che le convention -non congressi- “per applaudire leader che si sono fatti il loro partito”. 

Tanta certezza, tanta soddisfazione, tanta ottimistica lettura o interpretazione dello spettacolo offerto dall’assemblea -ripeto- uscente e insieme costituente, rispettivamente, del vecchio e del nuovo Pd è però contraddetta sullo stesso Domani, e sempre in prima pagina, dalla cronaca fattane con spirito analitico e beffardo da Carlo Damilano, l’ex direttore dell’Espresso non scambiabile neppure lui, come Piero Ignazi a livello accademico, anzi scientifico, per l’ultimo arrivato. 

“Con un dibattito così al fondo mediocre” -ha scritto Damilano sotto un titolo in rosso sul “Pd alla ricerca di una bussola”- si è “tentati di concludere…che nessun nodo del dopo 25 settembre potrà essere sciolto o almeno affrontato”. E ancora il cronista ha denunciato “il paradosso estremo, finale: un partito politico, l’ultimo partito rimasto, come amano ripetere, anzi, iper-politico, che però non riesce più a parlare di politica, a organizzare al suo interno un onesto, civile, e non distruttivo, conflitto politico, nonostante tutte le sovrastrutture impiegate in tal senso”. 

Quello dell’ingegnere ad Enrico Letta o al Pd, o a entrambi, è insomma un mezzo perdono, non di più. 

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L’autorete dell’assalto a Carlo Nordio, rafforzato da un intervento di Meloni

Questa volta, grazie anche alla rapidità con la quale si è giocata la partita, i giornali e le aree politiche di riferimento non hanno potuto applicare al cosiddetto caso Nordio lo schema, solito a contatto col sistema giudiziario, di sparare in prima pagina l’accusa e di ignorare, o relegare l’assoluzione in ultima, anzi in penultima, quella che si vede ancora meno.

“E su Nordio: piena fiducia”, ha titolato in prima pagina il Corriere della Sera riferendo del comunicato di Giorgia Meloni contro voci e quant’altro che l’avevano data il giorno prima in dissenso dal ministro della Giustizia dopo lo scontro avuto anche nelle aule parlamentari con i pubblici ministeri per la loro pretesa di dare la linea alle Camere. “Meloni blinda Nordio”, ha titolato Repubblica, sempre in prima pagina, pur facendo ripetere da Ezio Mauro l’accusa alla destra di volere imbavagliare l’informazione e fare altre porcherie per favorire i criminali, veri o presunti che siano.

“Fiducia in Nordio”, ha gridato La Stampa  pur insistendo sulle “divisioni” nel governo su altri problemi. “Mi fido di Nordio”, ha titolato fra le virgolette Il Secolo XIX attribuendo le parole alla presidente del Consiglio nel frattempo volata in Algeria per una missione finalizzata a renderci sempre più autonomi dalla Russia sul piano energetico. 

Persino il Fatto Quotidiano, pensate un pò, pur sventolando come bandierine le 125 mila firme raccolte per “cacciarlo”, ha dovuto ammettere e annunciare che “Meloni si tiene Nordio”. Il quale, dal canto suo, aveva preceduto il comunicato di sostegno e di fiducia della presidente del Consiglio, pronta a incontrarlo per “calendarizzare” gli interventi sulla giustizia, smentendo le voci che gli avevano attribuito tentazioni di rinuncia e dimissioni.

Dulcis in fundo, diciamo così, Massimo Cacciari, non classificabile certamente a destra, in una intervista alla Verità, quella di Massimo Belpietro, ha detto che “Nordio ha ragione” nel suo scontro con gli ex colleghi pm e “il Pd dovrebbe dargli una mano”. Figuratevi, nelle condizioni in cui trova quel partito inseguendo a sinistra i grillini di Giuseppe Conte e riaccogliendo a braccia aperte i Bersani, D’Alema e Speranza, in odine rigorosamente alfabetico. Che se n’erano andati via  nel 2017 in odio all’allora segretario Matteo Renzi. 

A furia di recitare il giustizialismo dopo averlo praticato contro Bettino Craxi per eliminarlo anche fisicamente, essendo troppo pericoloso come concorrente sulla strada di una sinistra davvero riformista e moderna, il Pd ha appena regalato l’ormai scomparso leader socialista, a 23 anni dalla morte in terra straniera, al “nuovo Pantheon della destra-destra”, come ha scritto in un’analisi Massimiliano Panarari e hanno titolato ieri sulla Stampa. E come si è visto nelle foto appena  scattate in Tunisia attorno alla tomba di Craxi, dove questa volta è accorso dall’Italia anche il renzianissimo Ettore Rosato.

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Più che un nuovo Pd, è una sopraelevazione -o altana- del vecchio

Senza arrivare alla spietatezza abituale di Maurizio Belpietro, che sulla sua Verità ha confessato quel “pò di pena” che gli fa Enrico Letta, bisogna riconoscere che il segretario del Pd ha avuto sfortuna anche nella metafora con la quale ha voluto concludere l’ultima riunione dell’ assemblea nazionale del partito da lui guidato, e tuttavia “costituente” del nuovo. Di cui non si sa ancora se conserverà lo stesso nome o come lo cambierà. tanto da far titolare Repubblica sulla “fronda del nome”, appunto.

La metafora sfortunata di Enrico Letta, impietosamente rimproveratagli dal Secolo XIX, è stata quella della conclusione anticipata dell’inverno e dell’inizio della primavera nella giornata più fredda di Roma. Dove l’assemblea ha discusso e approvato in tre ore un nuovo “manifesto dei valori”, liquidato però come “poca cosa” dal candidato più avanti nei sondaggi sulla corsa alla segreteria: Stefano Bonaccini. 

“Un manifesto dei valori senza valore”, ha aggiunto in una intervista a Libero l’editorialista del Corriere della Sera Antonio Polito, sicuro anche lui -come tanti altri- che esso, già dichiaratamente provvisorio, potendo essere ulteriormente modificato dalla nuova assemblea del partito, è stato escogitato come un pretesto per consentire il ritorno al Nazareno di Bersani, D’Alema, Speranza ed altri  andati via nel 2017 per scappare dall’allora segretario Matteo Renzi, già indebolito di suo per la sconfitta subita nel referendum sulla sua riforma costituzionale. 

In un tale e così evidente abuso di parole come “nuovo partito”, “rifondazione” e simili è alquanto esagerato anche “il funerale delle correnti” annunciato o celebrato da Repubblica. Col nuovo “manifesto dei valori” che dichiaratamente “non abroga” il precedente, nella speranza di evitare scissioni a destra minacciate dalla componente post-democristiana della formazione fondata da Veltroni nel 2017, si può  parlare più realisticamente, e modestamente, di una sopraelevazione del partito. O di un’altana, magari per ospitarvi non chissà quanti voti, recuperando almeno una parte di quelli perduti negli ultimi anni, ma qualche altra corrente, in aggiunta a quelle che si sono spartite “la ditta”  ed hanno forse suggerito il solito, felicissimo titolo di copertina dedicato dal manifesto agli attori e protagonisti del dramma dei Nazareno: “Spartiti”, appunto. 

In questo contesto sa più dell’eroico che del rassegnato il San Paolo citato da Enrico Letta nel suo discorso di commiato dall’assemblea nazionale uscente per dire, “amarezze e ingenerosità” a parte, da chiudere in un cassetto in soffitta a casa sua: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa”. Il Corriere della Sera con questa citazione gli ha in qualche modo reso gli onori del titolo pur non vistoso in prima pagina.  

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Finita la caccia a Messina Denaro, è cominciata quella a Carlo Nordio

A ciascuno il suo, per favore, anche nell’assegnazione di presunte nefandezze. Prima ancora dell’attuale guardasigilli Carlo Nordio, al quale Repubblica ha tirato le già grandi orecchie  perché vorrebbe – ha titolato sotto “La tentazione di bavaglio”- rompere “l’accoppiata che lega magistrati e giornalisti”, era stato anni fa Luciano Violante, da ex magistrato, ex presidente della Camera, ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, quindi non l’ultimo arrivato, ad esprimere pubblicamente l’auspicio della “separazione delle carriere” almeno fra magistrati e cronisti giudiziari. Ai quali arrivano più o meno puntualmente al momento politicamente giusto le indiscrezioni, soffiate e quant’altro su indagini, intercettazioni e simili necessarie a sputtanare e a mettere fuori gioco politico lo scomodo di turno. E questo senza che mai nessuno abbia pagato mai niente, neppure dopo l’assoluzione o l’archiviazione della vittima designata. 

Per la sostanziale prosecuzione di questo orrendo sistema si è levata un’onda impetuosa contro il guardasigilli “tentato”- ripeto col titolo di Repubblica- di mettervi mano: un’onda che è oggi il fotomontaggio di copertina del solito Fatto Quotidiano, accompagnato da un editoriale che assegna a Nordio il titolo del “peggiore ministro della Giustizia” da una trentina d’anni a questa parte, “scavalcando -ha scritto Travaglio- impiastri di tutto rispetto come Biondi, Castelli, Alfano e Cartabia”. 

Per tornare un attimo -solo un attimo- a Repubblica segnalo contro Nordio la “inutile provocazione” rimproveratagli nel titolo del commento di Francesco Bei e “il ministro del rancore” nel titolo del commento di Francesco Merlo, che nel testo ha coniato anche l’appellativo di “ministro di Astio e Giustizia”.

Sulla Stampa il solitamente severissimo, compassato procuratore ormai emerito Gian Carlo Caselli, appena glorificato a chiusura anche della fiction televisiva sul “nostro generale” Carlo Alberto dalla Chiesa, non è riuscito a trattenersi dal quanto meno paradossale ringraziamento del fortunatamente ex latitante Matteo Messina Denaro. La cui cattura avrebbe smentito Nordio nella presunta inutilità delle intercettazioni nella lotta alla mafia. 

“Tutti contro Nordio”, ha titolato in rosso il Riformista dopo avere riportato in nero il rimprovero rivoltogli di “non volersi sottomettere ai pubblici ministeri”, tra i quali egli ha fatto carriera nella sua attività giudiziaria senza mai allinearsi alle peggiori abitudini dei colleghi. 

In questa notizia non può certo stupire la confidenza o minaccia di Nordio, secondo i gusti, raccolta dal Foglio di “potere benissimo lasciare”. Nè la rappresentazione, sempre fogliante, dei rapporti fra il ministro e la presidente del Consiglio, che pure l’ha così fortemente voluto, come “una complicata strategia di compromesso”. Salvo rapide, auspicabili e soprattutto credibili smentite, mi auguro con tutto il cuore, ma non con tutta la convinzione, a dire il vero.   

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Chi attacca La Russa dimentica Fanfani e un bel pò di successori

Nella difesa che il presidente del Senato Ignazio La Russa merita, a mio avviso, da questa campagna ormai ossessiva condotta formalmente contro di lui ma in realtà per mettere in crisi l’amica e collega di partito che guida il governo, cioè Giorgia Meloni, non mi lascerò trattenere né dagli errori che egli certamente commette ogni tanto, partecipando per esempio anche ad eventi politici minori o lasciandosi scappare parolacce contro giornalisti dai quali si sente infastidito, né da quell’aria un pò macchiettistica che è riuscito ad attribuirgli Fiorello imitandone da tempo  la voce. 

A proposito, poi, di Giorgia Meloni che tanto l’ha voluto alla seconda carica dello Stato all’inizio di questa legislatura, non solo perché se ne fida ma anche perché ne conosce l’abbastanza lunga esperienza politica, non vorrei che gli avversari la stessero scambiando per la premier, e più giovane, neozelandese Joanda Ardem, appena dimessasi perché dichiaratamente “sfinita” e decisa a godersi meglio la vita, e la figlia, sposando anche il compagno col quale l’ha fatta. 

L’Ardem ha impiegato sei anni per “sfinirsi”, ripeto, mentre la Meloni ha trascorso a Palazzo Chigi neppure cento giorni. E non mi sembra neppure segnata dalla sfortuna, viste le misure della sua vittoria elettorale del 25 settembre e la sorpresa fattale dalle forze dell’ordine e dalla magistratura con la cattura di Matteo Messina Denaro: cattura, ripeto, dopo 30 anni di latitanza e non consegna più o meno rassegnata e contrattata dal criminale per le sue condizioni di salute, interessato ormai -per quel che gli rimane da vivere- più a farsi curare al sicuro davvero che a a rischiare un conflitto a fuoco correndo da una clinica privata all’altra. 

Rassegnatevi, cari signori dietrologhi, con penna o in toga, figurata o reale. Qui c’è poco da imbastire processi mediatici o giudiziari. Un criminale rassegnato alla resa, e lasciatosi prendere dopo qualche trattativa, quanto meno provvede a chiudere, svuotare e liquidare bene i suoi covi, quanto meno per risparmiare più grane possibili a chi lo ha aiutato per tanto tempo nella latitanza. 

Ma torniamo a La Russa, a ‘Gnazio, come lo chiama Fiorello. Egli ha appena elencato in una intervista al Corriere della Sera -“in ordine sparso”, ha detto- quelli che lo hanno preceduto al vertice delle Camere senza rinunciare a fare politica, e non dietro le quinte, ma davanti, sul palcoscenico: Fanfani, Fini, Bertinotti, Grasso, Spadolini, Casini. “Fini e Grasso -ha detto La Russa- hanno addirittura fondato due partiti”: il primo -mi e vi ricordo- dopo avere predisposto o lasciato predisporre nel suo ufficio di presidente della Camera una mozione di fiducia contro il governo e la maggioranza di centrodestra che lo avevano portato al vertice di Montecitorio per mantenere un impegno pre-elettorale, pur essendo nel frattempo maturato l’interesse della coalizione ad avere in quel posto un interlocutore dell’opposizione. E ciò per meglio portare avanti una riforma costituzionale cui si era aperto l’allora segretario del Pd Walter Veltroni evitando in campagna elettorale ogni scontro diretto e personale con Berlusconi, indicato solo come “il principale esponente dello schieramento a me avverso”. 

Sarà stato pure “ordine sparso” quello uscito dalle labbra di La Russa nella intervista difensiva concessa al principale giornale italiano, ma quel Fanfani -Amintore Fanfani- messo al primo posto nell’elenco dei predecessori rimasti impegnati nella politica pur da presidenti del proprio ramo del Parlamento è stato ed è rimasto il caso più clamoroso di una leadership di partito combinata con la seconda carica dello Stato. 

Nel lontano 1973 fu da presidente del Senato e nel medesimo Senato, in particolare nel Palazzo Giustiniani, che Fanfani convocò tutti i capi delle correnti democristiane alla vigilia di un congresso nazionale per concordarne l’esito, peraltro contrastante con i risultati di tutti i congressi locali già svoltisi. Che avevano confermato il consenso della maggioranza dei delegati  a favore di Arnaldo Forlani ancora segretario del partito e di Giulio Andreotti presidente di un governo di coalizione con i liberali, essendosi i socialisti disimpegnati dal centrosinistra per l’elezione di Giovanni Leone al Quirinale alla fine del 1971 senza il loro consenso. 

Forlani, con quegli accordi che presero il nome del palazzo in cui erano stati raggiunti in qualche ora, fu sloggiato da Piazza del Gesù per tornarvi 16 anni dopo, e Andreotti da Palazzo Chigi per tornarvi tre anni dopo, portando peraltro nella maggioranza del suo monocolore non solo i liberali e i socialisti ma anche o persino i comunisti di Enrico Berlinguer. 

Fanfani, dal canto suo, dopo avere sostituto Forlani alla segreteria del partito e perduto il referendum contro il divorzio, che fu l’inizio della fine della Dc, ebbe modo di tornare alla presidenza del Senato. Dove nel 1978 fu scomodato non -o non solo- come seconda carica dello Stato ma come uno dei leader più decisivi del partito per partecipare ad una drammatica riunione della Dc che avrebbe dovuto dare via libera al Quirinale per la concessione della grazia ad una dei tredici “prigionieri” terroristi con i quali le brigate rosse avevano proposto di scambiare Aldo Moro, sequestrato 55 giorni prima fra il sangue della sua scorta. Ma i brigatisti rossi preferirono ammazzare l’ostaggio prima di essere messi di fronte alla scelta di accontentasi o meno della liberazione di una sola “prigioniera”. 

Con tutti questi precedenti, peraltro parziali per umane esigenze di spazio, amici mei e loro, ritenete che sia davvero decente -ripeto, decente- la campagna in corso contro ‘Gnazio? Io no, non la considero decente.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 22 gennaio

Non solo il criminale, ma anche la trappola catturata con Matteo Messina Denaro

Anche l’impiegato ormai pensionato del Comune siciliano che rilasciò nel 2016 la carta d’identità poi usata, con le necessarie contraffazioni, da Matteo Messina Denaro per camuffarsi da Andrea Bonafede ha voluto dare il suo contributo, chiamiamolo così, ad una ricostruzione della cattura del superboss mafioso in chiave minimalista: non come un successo delle forze dell’ordine e della magistratura, o dello Stato in senso generale, e tanto meno del governo di turno, ma come una resa, una consegna dell’interessato camuffata da super-operazione a grandissimo rischio e altrettanto grande successo. 

“So bene -ha raccontato quel pensionato di nome Vincenzo e di cognome Pisciotta, che da solo storicamente vale un gioiello- cosa vuol dire avere a che fare con un tumore. Da 50 anni non ho più una gamba. Credo che il boss abbia fatto in modo di farsi trovare, che fosse stanco di lottare con la malattia. Ha deposto le armi”. E avrebbe deciso quindi di   lasciarsi curare nei due, o non sa quanti altri anni ancora di vita gli manchino. in una struttura giudiziaria più sicura, e forse anche più efficiente delle cliniche private alle quali doveva rivolgersi da latitante. 

Beh, se questa è la rappresentazione preferita dai soliti cultori e praticanti della dietrologia, soddisfatti così di sminuire lo Stato e aumentare la furbizia di chi ne sa approfittare anche da disperato, mi sembra che la cronaca li stia smentendo. Il furbissimo, capacissimo, disinvoltissimo criminale, autore di stragi e delitti singoli di ferocia inaudita, nel “consegnarsi” si è dimenticato di chiudere  e svuotare ben bene i suoi covi. Che aumentano col passare dei giorni, man mano che vengono scoperti e perquisiti, con i loro abiti di lusso, i telefonini, gli appunti, le rubriche, i poster e i quadri che glorificano la mafia, non risparmiando grane, a dir poco, a quelli che potranno risultare alla fine complici della sua trentennale latitanza. 

Via, siamo seri una volta tanto anche nell’informazione, e direi persino nella fantasia. Questa cattura è stata un’operazione vera, di autentica lotta alla mafia, di un cristallino successo di chiunque possa istituzionalmente vantarsene. E finiamola pure col gioco di affondarla nella melma solita dell’altrettanto solita lotta politica. Quella, per esempio, che ha fatto attaccare nelle vignette del Fatto Quotidiano una volta metà volto di Matteo Messina Denaro all’altra metà di Silvio Berlusconi, presunto protettore, finanziatore, beneficiario della mafia, e poi -oggi- la metà di Berlusconi all’altra metà dell’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio, presunto avversario, demolitore e quant’altro delle intercettazioni. Che, per quanti abusi possano essere compiuti nel disporne e gestirne, debbono rimanere intoccabili, visti gli effetti che possono produrre, pur in una cattura che allo stesso tempo si è cercato e si cerca tuttora di rappresentare come una finzione, non solo cinematografica. Per cortesia, un pò di decenza, una volta tanto. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it e http://www.startmag.it del 21 gennaio

La doppia verità di Roberto Saviano su Messina Denaro e dintorni

         Nel nostro gergo professionale il buco è quello che un giornale riesce a procurare ai concorrenti con una notizia esclusiva. Notizia intesa in senso lato, a volte anche un commento o un retroscena che dà di un fatto una versione particolare, che non lo completa ma addirittura ne cambia o persino rovescia contenuto e significato.  E’ avvenuto e sta tuttora avvenendo con la cattura di Matteo Messina Denaro dopo 30 anni di latitanza persino a casa sua, cioè nel suo territorio, dove gli è riuscito di nascondersi meglio che fuggendo lontano, anzi lontanissimo, al di là dei confini terrestri o marittimi del proprio paese.

         Al notissimo scrittore Roberto Saviano è capitato -occupandosi appunto della cattura del superboss mafioso- di procurare un buco persino al giornale cui collabora dicendo in una intervista alla Stampa una cosa alla quale non si era spinto nell’articolo scritto per il Corriere della Sera.

          Su quest’ultimo, salvando -credo- anche le coronarie del direttore Luciano Fontana, egli si è tenuto sulle generali scrivendo delle debolezze tante volte dimostrate o attribuite dallo Stato, dietro “lo scalpo da esibire al circo mediatico”, nella lotta alla mafia. Abbiano avuto non a caso processi su trattative e simili nella stagione delle stragi di fine Novecento che hanno sfiorato persino un Presidente della Repubblica in carica, fattosi proteggere dalla Corte Costituzionale.  Mi riferisco naturalmente a Giorgio Napolitano.

         Alla Stampa, invece, scendendo dalle stelle dello Stato alle stalle dei governi, Saviano ha contestato a quello in carica, a cominciare dalla premier Giorgia Meloni volata a Palermo per festeggiare la botta ricevuta dalla mafia con la fine della trentennale latitanza del suo capo, il diritto di intestarsi alcunché. “Questo – ha detto Saviano- è uno degli esecutivi meno antimafiosi che il Pase abbia avuto”. “La predilezione (della mafia) per la destra è testimoniata da una infinità di atti e documenti”, ha aggiunto lo scrittore senza citare direttamente ma in qualche modo ispirandosi al discorso contro la fiducia alla Meloni pronunciato in veste di senatore grillino dall’ex procuratore generale della Corte di Palermo Roberto Scarpinato. Che è stato selezionato nelle liste pentastellate da Giuseppe Conte in persona nella sua nuova veste di aspirante capo di una sinistra naturalmente giustizialista.

Agli occhi di quest’ultima la Meloni avrebbe mandato apposta al Ministero della Giustizia Carlo Nordio per dare “uno schiaffo all’antimafia” -ha titolato oggi Repubblica- limitando il ricorso o l’uso distorto delle intercettazioni, che pure si sono rivelate utili alla cattura di Messina Denaro.

Pensate un po’ quanta erba si può seminare e raccogliere cavalcando l’antimafia dei professionisti a suo tempo smascherata da quel grande, grandissimo e benemerito rompiscatole che era Leonardo Sciascia.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Questo strano Paese in cui si deve avere paura anche delle buone notizie

In questo nostro carissimo ma curiosissimo Paese, col povero Dante a destra, a sinistra o al centro si voglia collocare a sua insaputa, siamo purtroppo condannati a subire ogni giorno una quantità più o meno enorme di cattive notizie, all’ingrosso e al minuto, ma anche a temere le buone, poche o pochissime che siano. Persino quella della cattura a Palermo del super capo mafioso Matteo Messina Denaro, avvenuta non in una sparatoria per strada o in qualche covo ma in una clinica privata, senza lo spargimento di una sola goccia non dico di sangue ma di sudore, o di ansiolitico per gli spettatori colti di sorpresa dall’evento.. Magnifica notizia, che si è trasformata all’istante nell’ennesima occasione di inscenare sospetti, accuse, processi per ora solo alle intenzioni, ma -vedrete- pronti a diventare indagini e processi veri, naturalmente sui giornali prima ancora che nei tribunali. 

Se fossi nel prefetto e ministro dell’Interno Matteo -pure lui, guarda caso- Piantedosi, già danneggiato a suo modo dalla quasi omonimia con Salvini, Matteo anche lui, accenderei ceri e simili davanti ad ogni immagine  della Madonna per strada per scongiurare di finire in galera per favoreggiamento, avendo in qualche modo segnalato a distanza all’ancora latitante il rischio della cattura. Ch’egli avvertiva come  una medaglia da apporre sul proprio petto, oltre a quella che starebbe cercando di guadagnarsi boicottando -dicono le opposizioni- le navi di soccorso ai migranti. Il cui traffico è notoriamente gestito dagli scafisti spendendo il meno possibile e guadagnando il massimo anche impossibile.

Voi riderete, o sorriderete, ma questa è l’Italia dell’informazione, della politica e della giustizia in cui viviamo da non poco tempo. E anche l’Italia della sociologia da strapazzo che ha già fatto dire e scrivere a fior di persone dotate anche di incarichi importanti che la lunga latitanza di Messina Denaro si deve pure o soprattutto al favore di cui il criminale avrebbe goduto -letteralmente- nei “salotti della borghesia”, e chissà se solo siciliana. Lo si diceva e scriveva -fra gli improperi cui una volta si abbandonò in mia presenza l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini buttando s terra la pipa- negli anni di piombo dei terroristi, che lavoravano a loro modo sette giorni su sette, senza sosta o ferie, sparando di spalle e qualche volta ance d faccia. E sparando in orgasmo.

Mi è venuto un colpo -ve lo confesso- a leggere di questa “borghesia mafiosa” anche in una intervista del Procuratore di Palermo Maurizio De Lucia che non conosco, ma per il quale avevo avvertito subito una certa simpatia sapendolo partecipe dell’operazione per la cattura dello stragista più feroce ed elegante, con un orologio al polso del valore di oltre trentamila euro, abiti tutti firmati nel guardaroba, montoni di prima scelta addosso e tutto il resto. Ma mi sono consolato leggendo, sempre del procuratore di Palermo, della “cosa”- ha detto- che lo “ha colpito positivamente”, nonostante le preoccupazioni per “la borghesia mafiosa”. E qual è questa cosa? “Gli applausi -ha risposto- della gente che era all’esterno della clinica”, ma anche all’interno, signor procuratore. Gente che, frequentando una clinica privata, ad occhio e croce può ben considerarsi borghese. E disporre a casa di un salotto, o essere accolta in altri, senza aver letto necessariamente qualcosa del compianto Leo Longanesi. 

Pubblicato sul Dubbio

I romanzi d’appendice sulla cattura di Messina Denaro dopo 30 anni di latitanza

A leggere i romanzi d’appendice, a dir poco, che sula sua cattura si stanno sprecando sui giornali di un pò tutti i colori, a dire il vero, e non solo quelli dichiaratamente antigovernativi, Matteo Messina Denaro non è stato solo il criminale ricercato per 30 anni, ma ancor più  un autentico coglione. E scusate la parolaccia. Che  egli si merita -sempre che non lo si voglia accusare di autotradimento o autolesionismo, oltre che di stragi e di tutto il resto per cui è stato processato e condannato- per non avere saputo raccogliere i segnali di pericolo lanciatigli da varie parti. Da quel tale, per esempio, che già a novembre, ospite di Massimo Giletti, avvertì che il superboss era ormai arrivato al capolinea della latitanza perché la mafia aveva praticamente deciso di scaricarlo per trattare con lo Stato sul cosiddetto ergastolo ostativo. Che  pesa su troppi detenuti mafiosi a dispetto di tutte le garanzie imposte a loro vantaggio addirittura dalla Costituzione. 

Ma ancor più dell’ospite di Giletti sarebbe stato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, per forza di cose informato dei preparativi della cattura,  ad avvisare inutilmente il coglione -ripeto- esprimendo l’augurio di coronare la sua carriera di prefetto e ora anche di politico apponendosi sul petto la medaglia metaforica dell’arresto di quel pericoloso criminale. Il quale, anziché allertarsi e sfuggire all’assedio ormai così chiaramente annunciatogli, ha continuato a lucidarsi l’orologio al polso del valore di oltre trentamila euro, a infoltire il proprio guardaroba di lusso, a imbottirsi di viagra, a collezionare preservativi per attutirne gli effetti e naturalmente a curarsi per le malattie augurategli con successo dalle sue tante vittime. 

Del resto, che l’uomo fosse feroce ma non all’altezza del ruolo conquistato nella mafia lo fece capire il predecessore ed ex istruttore Totò Riina parlando in carcere con i suoi interlocutori di turno nell’ora d’aria, intercettati grazie al fatto che Carlo Nordio allora non immaginava neppure di poter diventare ministro della Giustizia e proporsi le nequizie anti-intercettative ora attribuitegli dagli avversari. 

Perché poi continuare a chiamare questo criminale con tutti i nomi che gli spettano sprecando spazio nei titoli e non ridurlo alla sigla o targa MMD assegnatagli dal Fatto Quotidiano con tanto di vignetta sovrastante che lo rende metà lui e metà Silvio Berlusconi? Al cui “Album di famiglia” -titolo dell’editoriale di giornata- MMD e affini apparterrebbero come a suo tempo i brigatisti rossi al Pci, secondo una celebre denuncia di Rossana Rossanda sul manifesto, a commento del sequestro di Aldo Moro e dei comunicati che ne accompagnavano la prigionia propedeutica all’assassinio finale. 

Pure Roberto Saviano si è preso dal Fatto Quotidiano il cazziatone d’obbligo -altra parolaccia di cui mi scuso- per avere definito quello della Meloni il governo meno antimafioso o più limitrofo alla mafia ignorando quelli guidati personalmente da Berlusconi. 

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