L’aiuto inconsapevole di Berlusconi alla ricandidatura di Casini col Pd

Titolo del Dubbio

Ecco un altro paradosso, scherzo e quant’altro di questa campagna elettorale un pò pazza, e non solo inedita nella sua versione estiva, come tutta la legislatura dalla cui interruzione è nata. Con la sua gaffe -a dir poco- sulle “doverose” dimissioni di Sergio Mattarella prima del compimento del mandato in corso se dovesse essere approvata la riforma presidenzialista della Costituzione proposta dal centrodestra Silvio Berlusconi ha aiutato Pier Ferdinando Casini a ottenere dal Pd la ricandidatura al Senato come una specie di guardiano della Costituzione minacciata, assaltata e via discorrendo dall’ex presidente del Consiglio. 

L’Ansa sulla lettera di Enrico Letta al Corriere della Sera per la candidatura di Casini

Sentite che cosa ha scritto Enrico Letta all’edizione bolognese del Corriere della Sera, rivolgendosi praticamente agli insofferenti organi locali del partito, prima di riunire la direzione nazionale per varare appunto le candidature nel giorno di un Ferragosto di fuoco, col sangue metaforicamente grondante sulle pareti come accadeva alla direzione della Dc in analoghe circostanze elettorali, o quando si dovevano varare le lunghe liste dei sottosegretari ad ogni cambio di governo. “E’ possibile, non probabile ma possibile, che nella prossima legislatura -ha scritto Enrico Letta rinverdendo le polemiche sulla sortita di Berlusconi- che nella prossima legislatura si tenti un assalto alla Costituzione da parte della destra”, in “un disegno nefasto, da sventare”, per quanto Berlusconi abbia cercato di precisare, ridimensionare e altro le sue parole, e persino i suoi alleati ne abbiano prese le distanze. “Credo in questo senso che la voce di Casini -ha scritto ancora il segretario del Pd , consapevole dei sacrifici già imposti a tante aspirazioni dalla riduzione dei seggi parlamentari- potrebbe dare un contributo importante e utile ad allargare il sostegno intorno a noi e a rendere più efficace il nostro compito a tutela della Costituzione….contro ogni torsione presidenzialista”. 

E così al buon Casini, un veterano ormai del Parlamento, pur a soli 66 anni compiuti e portati peraltro magnificamente, Berlusconi ha finito per dare una mano inconsapevolmente riparatrice alla non felice sorpresa fattagli nell’ultima corsa al Quirinale. Allora l’ex presidente del Consiglio prima si candidò personalmente, poi “rinunciò” rendendosi conto che i numeri erano diversi da quelli originariamente immaginati, poi  ancora scartò l’ipotesi di appoggiare Casini, avvertito da molti nel centrodestra come un “traditore”, infine si unì ai sostenitori della conferma di Mattarella.  

Ignazio La Russa al Corriere della Sera del 13 agosto su Berlusconi

Fra gli effetti dello scivolone -ripeto- di Berlusconi compiuto prospettando le dimissioni del presidente in carica nel caso di approvazione di una sua elezione diretta, da parte del popolo e non del Parlamento, quello della mano a Casini a sua insaputa per un ritorno al Senato sarà importante, per carità ,per lo stesso Casini sul piano personale ma meno rilevante, sul piano politico, di altri.  Fra i quali eccelle, a mio avviso, l’apertura difensiva fatta da Giorgia Meloni a percorsi alternativi a quello da lei proposto per approdare al presidenzialismo: in particolare, ricorrendo non alla revisione prevista dall’articolo 138 della Costituzione ma ad un’Assemblea Costituente. Che sarebbe più indicata, anche se non è imposta dalla carta costituzionale, per una revisione così incisiva e complessa come l’elezione diretta del presidente della Repubblica, produttrice in pratica di un altro sistema istituzionale e comportante la ridefinizione compensativa di tanti altri articoli diversi dall’ottantatreesimo: quello che affida appunto l’elezione del capo dello Stato al Parlamento “in seduta comune dei suoi membri e con la partecipazione di “tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze”, salvo per la Valle d’Aosta” avente “un solo delegato”. Una parte, questa dell’articolo 83 della Costituzione, che avrebbe dovuto essere modificata in contemporanea con la nuova composizione delle Camere imposta dai grillini ai loro alleati di turno, prima di destra e poi di sinistra. Con un terzo in meno dei seggi elettivi del Parlamento la rappresentanza delle regioni con tre delegati ciascuna, eccetto la Valle d’Aosta, è di uno sbilanciamento, direi, sfacciato.  

Ma questa è solo una delle eredità del MoVimento attorno al quale è ruotata la legislatura fortunatamente interrotta, almeno sotto questo profilo, al netto degli altri danni procurati dalla crisi del governo presieduto dall’italiano più autorevole nel mondo, senza offesa per Mattarella. Cui spetta d’altronde il merito di avere chiamato Mario Draghi in servizio come presidente del Consiglio quando il ricorso anticipato alle urne gli apparve impraticabile per la pandemia e le emergenze connesse. 

Pubblicato sul Dubbio

                 

La terra della Repubblica di carta sul terzo polo di Calenda (e Renzi)

Carlo Calenda e Matteo Renzi

Chissà perché in una edizione particolare come quella destinata a durare due giorni per via della pausa ferragostana la Repubblica di carta ha voluto schierarsi così nettamente contro il polo di Carlo Calenda (e Matteo Renzi). Tanto da farne liquidare i leader come Bibì e Bibò in una vignetta di Francesco Tullio Altan. Una vignetta che -dovendosi escludere i grillini per ciò che Repubblica scrive abitualmente di loro, specie dopo la guerra condotta da Giuseppe Conte contro Mario Draghi, e il centrodestra dei tre leader da quelle parti uno più indigesto dell’altro, come Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, in ordine rigorosamente alfabetico- è di fatto una sponsorizzazione vera e propria del Pd di Enrico Letta e alleati, o soci. I quali sono a destra, diciamo così pur sapendo di non fare cosa gradita agli interessati, i radicali +europeisti di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova, a sinistra i rossoverdi di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli e al centro cespugli o singole personalità come gli ex pentastellati del ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, nonché senatore uscente già ospite “indipendente” delle liste del Nazareno del 2018 nella sua Bologna. 

L’Ansa sul segretario del Pd per la canddatura di Pier Ferdinando Casini

Stavolta peraltro Enrico Letta ha personalmente riproposto Casini ai sofferenti organi locali del Pd, in una lettera al Corriere della Sera, come una specie di guardiano della Costituzione minacciata dall’”assalto” presidenzialista del centrodestra, almeno nella versione sfuggita in una gaffe a Silvio Berlusconi prefigurando le dimissioni di Sergio Mattarella prima della scadenza del suo secondo mandato. Sono seguite precisazioni persino indignate del Cavaliere, nonché prese di distanza della Meloni e dei leghisti, che non sono tuttavia bastate a cambiare la rappresentazione dello scenario berlusconiano fatta dagli avversari con prevedibile tempestività, o altrettanto prevedibile strumentalizzazione.

La bocciatura del polo di Calenda (e di Renzi ) da parte di Repubblica è solo questione di antipatia o critica personale di Maurizio Molinari, il direttore della corazzata del gruppo editoriale della famiglia Agnelli copertosi dietro la zona franca della satira, o è proprio una scelta alla quale prima o dopo, in questa pur breve campagna elettorale estiva, dovranno adeguarsi a Torino La Stampa e a Genova Il Secolo XIX? E che cosa ne avrebbe detto o, ancor più, pensato il recentemente scomparso Eugenio Scalfari? Il quale di Bibì o di Bibò- in chi dei due vogliate identificare Renzi- aveva apprezzato e difeso la riforma costituzionale del 2016, anche a costo di urtare il blasonato collaboratore di Repubblica Gustavo Zagrebelsky e di perdere l’agguerritissima Barbara Spinelli, convertitasi per reazione al Fatto Quotidiano. 

Mario Draghi accolto in Campidoglio dal sindaco Gualtieri per la camera ardente di Eugenio Scalfari

Ma prima ancora di difenderne la riforma costituzionale, e di lasciare poi l’interessato cadere nella zona d’ombra della sconfitta referendaria e di quella elettorale successiva riconoscendone i limiti temperamentali, Scalfari aveva cercato di essere addirittura il paterno e grande consigliere di Renzi. Del quale aveva accettato e ricambiato telefonate di auguri e complimenti. E a cui aveva indicato i libri da leggere sui quali poi poterlo interrogare per accertarsi che li avesse letti davvero, anzi studiati per bene. Di Renzi infine, pur dopo la disapprovata scissione del Pd, Scalfari aveva sicuramente apprezzato il contributo dato all’arrivo a Palazzo Chigi di un amico specialissimo come Mario Draghi, non a caso fra i primi ad accorrere ad omaggiare in Campidoglio la salma del fondatore di Repubblica

Bibì o Bobò che sia stato Renzi nella mente di Altan, non credo proprio che Scalfari avrebbe gradito o condiviso la bocciatura o l’ostracismo elettorale del “suo” giornale nel numero in qualche modo doppio di ieri.  Si sarebbe forse spinto sino ad uno dei “post scriptum” dei suoi lunghi commenti domenicali per alleggerirgli la pur metaforica terra.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Il simbolo migliore dei 101 presentato solo per scherzo, o per sbaglio

Difficile, diceva col suo consueto garbo del suo e nostro Paese il compianto Piero Angela, come già notavo ieri. Curioso, paradossale e altro ancora, potremmo aggiungere davanti a quel campionario dell’Italia che potrebbe ben essere visto nei 101 simboli presentati al Viminale per le elezioni anticipate del 25 settembre, fra una quarantina di giorni soltanto. E per fortuna, ripeto ancora ringraziando Draghi e Mattarella, in ordine delle competenze rispettive in questo campo, di averci risparmiato una campagna elettorale più lunga, e quindi più esposta alle stranezze, vista l’abitudine che abbiamo di giocare con le istituzioni e di fare qualche volta la cosa giusta solo a nostra insaputa, o per scherzo.

Lo hanno fatto, per esempio, quei bontemponi che all’ultimo momento, giusto per scherzare appunto -visto che la loro iniziativa è destinata alla bocciatura tecnica del Ministero dell’Interno- ma esprimendo il sentimento forse più diffuso nel Paese hanno presentato il simbolo tricolore “Italiani con Draghi”, per un “rinascimento” nazionale, hanno aggiunto alla maniera di Vittorio Sgarbi. Che del rinascimento ha fatto uso e abuso in precedenti occasioni e potrà forse contribuire con qualche protesta a fare cestinare il simbolo praticamente impugnato anche  da Draghi in persona. Una nota di Palazzo Chigi  ne contesta la “trasparenza” per la inconsapevolezza del per niente interessato alla competizione elettorale.  

“Italiani con Draghi” sarebbe stato un simbolo efficacissimo se fosse stato concepito sul serio, concordato fra partiti una volta tanto uniti da un obiettivo serio, utile all’Italia. Che davvero non meritava quanto meno le modalità di uno scioglimento anticipato delle Camere che pure aveva una sua motivazione politica altissima nella lunga, evidente ed esplosa crisi della forza politica attorno alla quale era ruotata con le maggioranze più diverse la legislatura prodotta dalle elezioni del 2018: il MoVimento 5 Stelle. 

Le modalità del trauma politico, con una sorprendente convergenza -a dir poco- di Beppe Grillo e di Silvio Berlusconi, di Giuseppe Conte e di Matteo Salvini, peraltro già alleati come presidente e vice presidente del Consiglio fra il 2018 e il 2019, della destra di Giorgia Meloni e della sinistra di Nicola Fratoianni, sono state quelle della contestazione della guida del governo più autorevole che avessimo potuto e potremmo ancora avere sul piano internazionale: quella appunto di Draghi. Alle cui dimissioni hanno brindato al Cremlino, fra un ordine e l’altro nella guerra di feroce, persistente aggressione all’Ucraina. 

In festa davanti al Viminale

Bel capolavoro della politica nazionale. Un capolavoro di follia, del resto rivendicata come “creativa” anche in uno dei fantasmagorici simboli presentati al Viminale anche all’esterno come in una fiera dell’assurdo. Che anch’essa, tra foto e gesti festosi e compiaciuti dei concorrenti, francamente meritava di essere spazzata via da un provvidenziale temporale di stagione. Ma anche l’estate è impazzita scaricando l’acqua altrove, sui posti sbagliati.  

“Difficile” davvero questa nostra Italia, come ha scritto andandosene Piero Angela

La bella vignetta di Repubblica
Il messaggio di commiato del popolare giornalista e divulgatore scientifico

C’è proprio tutto, anche contro la  scomposta campagna elettorale avvertita negli ultimi giorni della sua lunghissima vita, in quella definizione dell’Italia “difficile Paese” nel messaggio di commiato tanto orgoglioso quanto toccante lasciato da Piero Angela prima del “buon viaggio” auguratogli con le lacrime negli occhi dal figlio Alberto.  Un viaggio che meglio non poteva essere rappresentato nella vignetta di Mauro Biani su Repubblica, in cui Piero con lo zaino sulle spalle percorre il ponte dell’infinito.

Mattarella e Draghi al Quirinale

Difficile Paese davvero quello in cui si interrompe il lavoro di un governo di emergenza come quello guidato dall’italiano più autorevole nel mondo – con tutto il rispetto meritato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che d’altronde lo nominò presidente del Consiglio sorprendendo il partito ancora più rappresentato nel Parlamento- per avventurarsi tutti, ma proprio tutti, in una campagna elettorale che più scombinata e deludente non avrebbe potuto rivelarsi. E che per fortuna -unica consolazione- è stata accorciata al massimo sia da Mattarella sia da Draghi per limitarne i prevedibili danni.  

E’ una campagna elettorale così piena di promesse sproporzionate -a destra ma anche a sinistra, e si spera non anche al centro, visto che l’omonimo polo è appena nato- che il pragmatico presidente del Consiglio le ha liquidato come “sogni” sarcasticamente augurando ai partiti dei ministri del suo governo di realizzarli. Nessuno di essi ha naturalmente avuto il coraggio o l’ironia- come preferite- di ringraziarlo. Già, perché i partiti mancano anche di ironia, per quanto i loro protagonisti e attori producano battute sprecandole persino nei loro simboli. 

Il simbolo delle 5 Stelle affisso personalmente da Conte al Viminale

E’ il caso di quel 2050 stampato in rosso -l’ultimo colore preferito dal suo presidente Giuseppe Conte, e probabilmente anche dal “garante” Beppe Grillo- nelle insegne del MoVimento 5 Stelle. O delle loro polveri, viste le condizioni anche di isolamento politico in cui esso si trova dopo una legislatura interamente vissuta al governo, con qualsiasi tipo di maggioranza, nella presunzione di una “centralità” non proprio apprezzata dagli elettori. I quali in tutte le occasioni che hanno avuto di votare dal 2018 in poi o hanno ingrossato e ingrassato l’astensionismo, facendolo diventare  il primo, vero partito d’Italia, o hanno contribuito alla crescita degli avversari o concorrenti dei grillini. E io, a 80 anni e più di età, e con me tanti altri anziani o vecchi, come preferite, dovrei  aspettare il 2050 sognato o promesso da Conte e amici, chissà quanto destinati poi ad arrivarvi essi stessi.  E ancor più pazienza e fiducia dovrebbero avere i giovani accontentandosi del cosiddetto reddito di cittadinanza – guai a chi lo tocca!- non più propedeutico ad un lavoro ma semplicemente e distruttivamente sostitutivo.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

Come se non bastassero quelli già prevedibili, direi scontati, si sono aggiunti in questa disgraziata campagna elettorale gli inconvenienti improvvisati, come la gaffe di Silvio Berlusconi – con quel presidenzialismo contrapposto, volente o volente, ad un presidente della Repubblica che il suo partito ha peraltro contribuito a rieleggere, pur tentando in un primo momento la scalata al Quirinale- e l’abuso che ne stanno facendo -va detto anche questo- gli avversari  demonizzando col Cavaliere anche la riforma presidenzialista. Di cui Marco Travaglio, per esempio, sul Fatto Quotidiano ha attribuito la paternità al “maestro Gelli”, prima ancora che al “compare Craxi” e alla sua “pochette Amato”, ora presidente della Corte Costituzionale, dimenticando il presidenzialismo sostenuto all’Assemblea Costituente dall’antifascista Piero Calamandrei.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it 

Come sarebbe bello se Berlusconi si scusasse con Mattarella….

Titolo del manifesto

Sarebbe bello se Silvio Berlusconi -anzichè “Re cidivo”, come lo ha raffigurato Stefano Rolli nella vignetta di prima pagina del Secolo XIX- chiudesse l’incidente, la gaffe, lo scivolone  e quant’altro scusandosi esplicitamente con Sergio Mattarella. E non solo precisando di non averlo voluto “attaccare” quando ne ha praticamente reclamato le dimissioni in caso di approvazione della riforma presidenzialista della Costituzione proposta dal centrodestra, senza aspettare la fine del suo secondo mandato, nel 2029.  “L’avvertimento”, ha titolato vistosamente il manifesto, come se stesse trattando una cronacaccia di mafia. 

Dalla prima pagina del Foglio
Titolo del Fatto Quotidiano

Più sobrio, graficamente e insolitamente, ma meno allusivo è il titolo dedicato alla vicenda dal Fatto Quotidiano in un richiamo di prima pagina: B. presidenzialista “licenzia” Mattarella. Il quale da Alghero, dove è in vacanza, è rimasto rigorosamente in silenzio, almeno sino al  momento in cui scrivo, probabilmente compiaciuto della difesa, stima e quant’altro confermatagli da gran parte dei giornali e delle forze politiche, in fondo persino nel centrodestra, dopo la sortita berlusconiana. “L’uscita inspiegabile di Berlusconi su Mattarella gela la leader di Fdi che ha un piano per contenere gli alleati”, ha spiegato in un titolo di prima pagina Il Foglio riferendosi a Giorgia Meloni, quasi come la prima danneggiata dall’ex presidente del Consiglio.

Carlo Galli su Repubblica
Titolo del Foglio

In un altro titolo, sempre in prima pagina, il giornale fondato da Giuliano Ferrara tenta tuttavia una spiegazione dell’intervento a gamba tesa di Berlusconi nella campagna elettorale, dandole un carattere di “emergenza democratica” denunciato su Repubblica da Carlo Galli. Dice questo titolo del Foglio: “Veto Mattarella- Dietro all’’uscita del Cav. la paura di negoziare con il Quirinale la lista dei ministri”. Cioè, Berlusconi avrebbe cercato di intimidire il presidente della Repubblica temendone le resistenze alla lista dei ministri del centrodestra in caso di vittoria elettorale. Per essere o essere stato nella redazione fogliante “l’amor nostro”, non è molto il riguardo ottenuto da Berlusconi con una simile lettura della sua sortita contro Mattarella. Siamo un pò all’”avvertimento” già ricordato del manifesto. 

Titolo della Stampa
Titolo del Corriere della Sera

Certo, questa storia non sembra proprio destinata -in mancanza di scuse esplicite, ripeto, di Berlusconi- a riassorbirsi nei circa 40 giorni che ci separano dalle elezioni per il rinnovo delle Camere. Non si spegnerà facilmente il fuoco acceso, volente o nolente, dal Cavaliere. O “la bufera”, secondo il titolo del Corriere della Sera. O l’allarme lanciato più o meno maliziosamente dal segretario del Pd Enrico Letta e tradotto dalla Stampa in questo titolo virgolettato: “Berlusconi vuole il Quirinale”. Da qui anche “l’assalto al Colle” nel titolo di Repubblica. 

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L’incredibile sgarbo di Berlusconi a Mattarella prospettandone le dimissioni

Mattarella e Berlusconi in una foto d’archivio

Silvio Berlusconi non ha detto una bestialità politica nell’ipotizzare le dimissioni di Sergio Mattarella nella prossima legislatura, prima della scadenza del suo secondo mandato al Quirinale, nel caso in cui venisse approvata la riforma presidenzialista contenuta nel programma del centrodestra. Egli ha fatto di peggio. Ha compiuto un atto di gratuita, diciamo pure imprudente villanìa nei riguardi del capo dello Stato, al quale solo compete la valutazione di un simile passaggio, a meno di una esplicita e improbabile interruzione del mandato in corso sancita dalla stessa riforma. 

Al presidenzialismo proposto dal centrodestra Berlusconi ha compiuto l’errore, che penso gli sarà contestato almeno in privato da Giorgia Meloni, di avere assegnato un carattere punitivo, o di bocciatura, del presidente della Repubblica in carica: un carattere che renderebbe molto, ma molto più difficile il percorso della riforma entrata -ripeto- nel programma del centrodestra per volontà della stessa Meloni. 

Proprio oggi in un commento sul settimanale 7 del Corriere della Sera, scritto ben prima della sortita dell’ex presidente del Consiglio, il buon Antonio Polito ha lamentato gli inconvenienti della “senilità” di Berlusconi, pur cercando di indorargli la pillola con riconoscimenti della eccezionalità della sua esperienza politica. Che cominciò nel 1994 – mi sia permesso di precisarlo- improvvisando un centrodestra ancora più complicato di quello attuale e vincendo, ciò nonostante, la campagna elettorale contro l’ultimo segretario del Pci Achille Occhetto, avventuratosi nel tentativo di fare apparire “gioiosa” la “macchina da guerra” allestita contro gli avversari di ciò ch’era rimasto del comunismo italiano.  

Non credo, francamente, che Mattarella abbia bisogno di un ruvido richiamo di Berlusconi per porsi il problema -in caso di approvazione di una riforma presidenzialista- della sostenibilità, opportunità e quant’altro della prosecuzione del suo pur legittimo secondo mandato. 

Ricordo che Francesco Cossiga quand’era presidente della Repubblica, nel suo primo e unico  settennato anche di “picconatore”, si pose il problema ora sollevato senza garbo da Berlusconi nei riguardi di Mattarella. E disse a chiunque avesse avuto occasione di parlargli, compreso il sottoscritto, che se il Parlamento avesse deciso l’elezione diretta del capo dello Stato -cui lui non era peraltro contrario- non avrebbe atteso un istante per dimettersi e fare scegliere dal popolo il suo successore.  

La guerra dei caratteri, in ogni senso, sulla strada delle elezioni

Il simbolo del Pd di Enrico Letta

Sembra che sia stato Matteo Renzi in persona, per mettersi alla prova della “generosità” vantata durante la trattativa, a scegliere le dimensioni del nome di Calenda nel simbolo elettorale del terzo polo, come ormai si chiama generalmente quello composto da Azione e Italia Viva, nonostante proteste, lacrime e quant’altro del Fatto Quotidiano per una specie di furto subito da Giuseppe Conte. Che nei sondaggi precede Calenda  sotto il centrodestra ormai condotto da Giorgia Meloni e il Pd di Enrico Letta, o Italia democratica e progressista, come preferite. 

Il simbolo di Forza Italia

Per via delle lettere, del corsivo e della grafica il nome di Calenda, fra i vari simboli in corsa per il voto del 25 settembre, è anche più chiaro, vistoso, leggibile di quel Berlusconi  stampato sotto Forza Italia. Di cui l’anziano Cavaliere è presidente, come ricorda il sottotitolo, senza allusioni ormai ad una candidatura a Palazzo Chigi. Di presidenze politiche, oltre al suo partito, potrebbe esserci a breve nel futuro di Berlusconi solo quella  del Senato, dove  però egli stesso si è candidato  per ora solo ad un seggio uguale a tutti gli altri, e a quello da lui perduto per frode fiscale il 27 novembre 2013. 

Mario Draghi

Oltre che per i caratteri voluti per i loro nomi nei simboli elettorali, Calenda e Berlusconi, o viceversa, si battono per la paternità del prossimo governo, il primo della nuova legislatura. L’ex presidente del Consiglio ormai, volente o nolente, salvo sorprese  clamorose dalle urne, deve spingere per l’arrivo della prima donna al vertice dell’esecutivo nella storia d’Italia: Giorgia Meloni, della quale egli ha appena riconosciuto, indicato, apprezzato “il coraggio” paragonandolo al suo. Calenda invece è dichiaratamente e orgogliosamente impegnato per la conferma di Mario Draghi a Palazzo Chigi, a capo questa volta di un governo non sottoposto alla rovinosa “centralità” del Movimento 5 Stelle, finalmente sciolta con le Camere dal presidente della Repubblica. E improbabile, a dir poco, nelle nuove. 

Giuseppe Conte

A favore di Draghi, nonostante l’assunzione politica appena annunciata di Carlo Cottarelli, detto anche “il Draghi dei poveri”, dovrebbe e potrebbe essere pure il Pd per averne sostenuto il primo governo più a lungo e forse anche più convintamente di tutti gli altri nella maggioranza specialissima, di quasi unità nazionale, voluta da Mattarella nel 2021 per l’impossibilità, allora, di mandare gli italiani a votare in piena pandemia: il famoso “Conticidio” denunciato dagli amici ed estimatori del professore e avvocato adesso alla guida di ciò che è rimasto del movimento fondato e tuttora “garantito” da Beppe Grillo. 

Titolo di Repubblica
Dalla prima pagina di Repubblica

Ma per tornare o rimanere con Draghi a Palazzo Chigi occorre che fallisca la corsa della Meloni: obbiettivo al quale sul piano mediatico dà oggi il proprio contributo la Repubblica sparando, diciamo così, in prima pagina una foto della leader della destra italiana in mascherina antivirale con tanto di fiamma stampata del defunto Movimento Sociale, a sua volta evocativa della tomba di Mussolini. “La vecchia fiamma”, titola il quotidiano, con tanto di editoriale dell’ex direttore Ezio Mauro sulle “ombre del ventennio” fascista che sopravviverebbero all’archiviazione annunciata in più lingue dalla sorella dei fratelli d’Italia. 

L’editoriale di Repubblica
La vignetta del Foglio

Su questa archiviazione -“abbiamo consegnato alla storia” quell’esperienza , ha detto testualmente Giorgia Meloni- scherza oggi con una vignetta in prima pagina anche Il Foglio completando così l’allineamento al Pd anticipato con l’annuncio personale di Giuliano Ferrara di votarlo il 25 settembre. E pazienza per l’ormai ex “amor nostro” dei foglianti, cioè Silvio Berlusconi. 

Ripreso da http://www.startmag.it

Ma quanti Rieccoli in questa caldissima stagione elettorale…

Titolo del Foglio

Per carità, mettiamoci anche noi in fila nell’attesa dell’annuncio, salvo sorprese, dell’accordo per il terzo polo elettorale fra Carlo Calenda e Matteo Renzi, impegnati in un “negoziato poco politico e molto personale”, come ha titolato polemicamente Il Foglio. Dove sono evidentemente preoccupati dei danni che potrebbero derivarne anche al polo di Enrico Letta, preferito da Giuliano Ferrara. Il cui atteggiamento critico verso Calenda e l’ex “royal baby” del Cavaliere, battezzato laicamente dallo stesso Ferrara ai tempi del suo pur licenzioso berlusconismo, è british rispetto a quello di Marco Travaglio. Che sul Fatto Quotidiano è ricorso al solito fotomontaggio per proporre Calenda e Renzi in una riedizione della celebre coppia comica americana Stanlio e Ollio. Essa divertì in bianco e nero milioni di spettatori nel secolo scorso, sicuramente meno di quanti possano far ridere adesso i  promotori di un polo falso anche nella numerazione secondo Travaglio, essendo quarto dopo il terzo spettante per i sondaggi al pur solitario Giuseppe Conte. 

Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano

“Finora -ha raccontato il Fatto dei promotori delll’”ultima farsa” centrista- “si insultavano, ora si alleano perché Carlo non ha le firme e Matteo non ha i voti”. Il che, a dire la verità, un pò è anche vero, nonostante Calenda creda o mostri di credere di poter fare a meno delle firme bastando e avanzando il tratto personale col quale riuscì a farsi eleggere nel 2019 al Parlamento nelle liste del Pd.

Titolo del Riformista

Tuttavia, neppure nella variante un pò sfottente anch’essa del Riformista di Piero Sansonetti, che ha unito Calenda e Renzi nel none Renzenda, come la buonanima di Giampaolo Pansa a suo tempo fece con Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi chiamandoli Dalemoni; tuttavia, dicevo, mi colpisce di più nello scenario politico di queste ore la folla dei Rieccoci, chiamiamoli così. Uso il plurale dello storico Rieccolo dato da Indro Montanelli ad Amintore Fanfani per la capacità che aveva di risorgere, o rialzarsi, o tornare dopo ogni caduta o assenza, forzata o volontaria che fosse stata, nella sua Democrazia Cristiana. 

Rieccoli, in fondo, sono gli stessi Calenda e Renzi per la loro capacità di ricomparire politicamente, separati o uniti secondo le circostanze.  

Titolo di Libero
Silvio Berlusconi

Rieccolo è naturalmente, con la precedenza che gli spetta per l’anagrafe, Silvio Berlusconi. Che ha sempre qualche riserva da sciogliere e qualche altra da mantenere. Dopo averla smentita al telefono non ricordo neppure con chi, l’ex presidente del Consiglio ha appena annunciato  la sua candidatura al Senato. Ma non -o non ancora- alla sua presidenza per una più completa rivincita rispetto al voto di espulsione del 2013. Rieccolo sono riusciti a far diventare Carlo Cottarelli il segretario del Pd Enrico Letta e la +europea Emma Bonino candidandolo in diretta  al Parlamento. Dove l’economista nel 2018 avrebbe potuto affacciarsi addirittura da presidente del Consiglio se l’incarico ricevuto da Sergio Mattarella non gli fosse stato soffiato da Giuseppe Conte assistito da Luigi Di Maio e Matteo Salvini. “Il perdente di successo”, lo ha definito Libero facendogli la cortesia di omettere anche l’altro soprannome che circola in giro: “Il Draghi dei poveri”. 

Intervista di Goffredo Bettini al Corriere della Sera

Rieccolo, infine, è in qualche modo anche Goffredo Bettini, l’uomo del Pd che sussurra ai cavalli anche di altre scuderie, tirato giù da qualche pisolino sul Corriere della Sera da Maria Teresa Meli. Che gli ha strappato una speranza, notoriamente l’ultima a morire. E’ quella di vedere l’”amico” Conte sopravvivere più o meno alla grande alle elezioni del 25 settembre, per quanto rifiutatosi di seguire i suoi ripetuti consigli di non fare la guerra a Draghi, sia pure non come Putin all’Ucraina. 

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C’è un giudice a Verona, senza doversi spingere a Berlino….

Titolo del Dubbio
Il giudice d sorveglianza Vincenzo Semeraro

Grazie a Vincenzo Semeraro, il magistrato di 63 anni che ha commosso tutta Italia per quella lettera di confessato fallimento di fronte al suicidio della giovane detenuta Donatella Hodo affidata alla sua “sorveglianza”, possiamo risparmiarci una volta tanto il richiamo storico e letterario al giudice di Berlino su cui aveva scommesso il mugnaio prussiano del 1700 per sottrarsi alle angherie dell’imperatore. Non abbiamo dovuto andare a Berlino, ma a Verona per trovare il nostro onestissimo giudice Semeraro. Che impastando codici e sentimenti ha restituito dignità e sacralità, direi, ad una funzione da troppo tempo esposta, per colpa di una minoranza non necessariamente ma spesso politicizzata, più alla diffidenza che alla fiducia, più alla paura che al rispetto.

Il giudice Semeraro al Corriere della Sera

Il giudice Vincenzo Semeraro ha avuto il coraggio e l’umiltà al tempo stesso quasi di incolparsi, dopo il suicidio di una detenuta di  ventisette anni di cui sei trascorsi in carcere sotto la sua vigilanza per garantire, fra l’altro, il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Che dice: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un articolo impossibile da rispettare o applicare, per quanta fatica e umanità possa metterci un giudice di sorveglianza come Semeraro, in un sistema in cui “le strutture detentive -egli ha detto in una intervista al Corriere della Sera successiva alla missiva letta ai funerali di Donatella- non sono a misura di donna”. “Le detenute -ha spiegato- vanno approcciate in modo totalmente diverso,  hanno un’emotività che non ha nulla a che fare con quella maschile. Vanno seguite -ha spiegato- in modo specifico e del tutto peculiare. Per Donatella ciò non è avvenuto”, semplicemente e dannatamente, pur essendo il giudice riuscito a tentarne il recupero in una comunità dalla quale la giovane era scappata, e lui fosse in procinto di affidarla ai servizi pubblici per le tossicodipendenze, con tutte le loro procedure e i loro tempi.

Il giudice Semeraro su Donatella Hodo, uccisasi in carcere

Donatella -ha raccontato il giudice come se ne avesse di fronte la fotografia- aveva vicissitudini pesanti, come macigni. Per andare avanti si era costruita una corazza. Voleva sembrare forte, in realtà svelava una sensibilità estrema. Era fragile come un cristallo”. A proteggere il quale non sono riusciti né la famiglia né lo Stato, né il padre né il giudice, incontratisi in privato dopo i funerali.

“Ci siamo abbracciati, piangevamo entrambi. Tutti e due -ha raccontato il magistrato- ci sentiamo in colpa, io come giudice, lui come genitore. Ciascuno ha detto all’altro di farsi forza. E’ stato toccante. Ma il momento più lacerante è stato quando il papà di Donatella mi ha ringraziato, perché sua figlia gli parlava di me come di un secondo padre. Da brividi”.

Dal Corriere della Sera di ieri

Sì, da brividi. Che vorrei attraversassero anche la schiena di tanti politici pensando, ciascuno per sé o per il proprio partito in questa campagna elettorale piena, come al solito, di troppe promesse, di troppe dimenticanze e di troppe astuzie, a tutto quello che non si è fatto neppure nella legislatura appena sciolta per rendere davvero e finalmente umana la Giustizia, con la maiuscola. E per fare corrispondere i fatti alle parole della Costituzione, sia nelle carceri sia nei tribunali, dove il garantismo -vorrei ricordare andando anche oltre il dramma di Donatella- suona spesso come una parolaccia, o quasi. 

Pubblicato sul Dubbio

Le mezze ore di Carlo Calenda e i quarti d’ora di Beppe Grillo

Dalla prima pagina della Stampa

Dalla “mezz’ora in più” di Lucia Annunziata ai “30 minuti al Massimo” dell’omonimo direttore della Stampa Giannini. Evidentemente Carlo Calenda preferisce le trasmissioni a  tempo, diciamo così, per le sue epifanie. La prima volta, domenica scorsa, volendo chiudere la partita del centrosinistra con Enrico Letta. La seconda volta, ieri, per tornare sulla “cavolata” del segretario del Pd troppo aperto ai rossoverdi e definire “il terzo polo” in arrivo, che egli sta trattando con Matteo Renzi, “un argine anti-destra” più adeguato alle circostanze di questa campagna elettorale per il rinnovo anticipato delle Camere. 

Titolo di Libero
Titolo del Giornale

“Commedianti”, ha gridato dal Giornale di famiglia Silvio Berlusconi in persona, che pure aveva fatto offrire nei giorni scorsi ad uno dei due, Renzi, l’ex “royal baby” inventatosi a suo tempo da Giuliano Ferrara, un bel pò di candidature nel centrodestra per risparmiargli una corsa elettorale da solo, a rischio di naufragio sotto la soglia del 3 per cento dei voti. “Non fatevi fregare, questi sono del Pd”, ha gridato Libero a causa della comune provenienza di Calenda e Renzi. 

L’editoriale del Fatto Quotidiano
Titolo della Verità

“Calenda gonfiato”, ha titolato la Verità di Maurizio Belpietro in sintonia non nuova col Fatto Quotidiano, che l’ha messa al plurale per accomunare Renzi. “Palloni gonfiati”, ha scritto Marco Travaglio nell’editoriale di giornata. Gonfiati dal solito sistema mediatico interessato a falsare persino l’aritmetica. 

Marco Travaglio

In particolare, Travaglio se l’è presa con Sky, che diffondendo un sondaggio da cui risultano “destre al 49,1 per cento, centrosinistra al 27,4, Movimento 5 Stelle all’11 e, fanalino di coda, Azione-Iv al 4,8”, ha indicato come “terzo polo” quello di Calenda e Renzi, in realtà quarti ed ultimi. 

L’ormai passato di Grillo e Di Battista

I numeri sembrano in effetti dare ragione a Travaglio. Ma proprio sotto le cinque stelle Beppe Grillo dal suo blog in un quarto d’ora di sarcasmo, ripescando un proprio intervento del 2018 al raduno nazionale del Circo Massimo di Roma, ha raccomandato di “non prendersi sul serio”. Come ha forse fatto anche Travaglio con l’11 per cento attribuito a Conte e a ciò che gli è rimasto in mano, o fra i piedi, del 33 per cento delle elezioni di quattro anni e mezzo fa. Un 11 per cento, peraltro, che non può più contare sulla risorsa inseguita per un pò dallo stesso Conte strizzando l’occhio ad Alessandro Di Battista. Che ha appena mandato a quel posto il  “padre padrone” Grillo per gli ostacoli opposti  ad un suo rientro nel movimento con tanto di candidatura al Parlamento. Nell’occasione gli ha anche rinfacciato la partecipazione alla vicenda non cristallina della elezione, a suo tempo, di Luigi Di Maio a capo del movimento, quando le preferenze della base sembravano favorevoli a lui, Di Battista, Dibba per gli amici, presosi evidentemente troppo sul serio. 

Temo che il giovanotto appena rientrato da  un reportage in Russia, più che candidarsi al Parlamento potesse solo aspirare ad entrare nell’album delle figurine degli zombie, traditori ed altri inventatosi da Grillo. Se già non vi si trovava,  visto che di quell’album il comico genovese ha diffuso solo la copertina e la prima pagina, o poco più, delle immagini da coprire con le apposite figurine. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it  

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