Le apprensioni romane di Mario Draghi nelle sue missioni internazionali

Provate ad immaginare pure voi il fastidio -a dir poco- che deve provare un uomo pratico come Mario Draghi, specie nelle sue trasferte all’estero, come quella di oggi in Ucraina col presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Sholz, a compulsare i messaggini del suo telefonino, o a parlare con qualcuno dei collaboratori a Roma, per essere informato delle convulsioni nei partiti della maggioranza di governo dopo i risultati del primo turno delle elezioni amministrative. Che, avendoli fortemente penalizzati, hanno messo ancor più in agitazione i già malmostosi grillini e leghisti, tentati a parole dall’idea di un disimpegno, quanto meno, ammesso e non concesso che siano mai stati davvero impegnati da qualche mese a questa parte a sostegno del presidente del Consiglio. 

Macron e Draghi

Lui, Draghi, in asse sotto sotto con Macron, cerca praticamente di creare le condizioni, in un contesto internazionale che comprende anche americani e cinesi, per convincere il presidente ucraino ad una trattativa con Putin fornendogli l’ombrello protettivo dell’Unione Europea, cui Kiev ha chiesto di aderire. E pazienza se qualche pezzo  dell’Ucraina, già perduto e in cenere, rimarrà in mani russe. In compenso potrebbero crearsi finalmente e davvero le condizioni per ridisegnare nuovi equilibri politici nei rapporti fra l’est e l’ovest d’Europa, e oltre ancora. 

Titolo del Fatto Quotidiano
Dalla prima pagina di Libero

In Italia invece, tra i palazzi romani del potere, compresi gli uffici delle 5 Stelle frequentati da Giuseppe Conte, appena confortato dalla rinuncia dei giudici civili di Napoli di contestargli anche la seconda elezione a presidente, avvenuta peraltro con meno voti della prima ma con ancor più reclami; in Italia invece, dicevo, Draghi deve fare lavorare i suoi collaboratori sulle voci, sui segnali e cose del genere dei feriti elettorali. Deve capire se Salvini, costretto intanto al Senato a retrocedere dall’iniziale offensiva ritorsiva contro la riforma della giustizia del governo dopo il fiasco referendario di domenica, si deciderà a scegliere nel centrodestra fra l’invito di Vittorio Feltri, in linea con Giorgia Meloni, a rompere col governo e quello di Silvio Berlusconi a restare. E in questa ottica va visto anche l’ormai vicino appuntamento parlamentare del 21 giugno, quando la proroga degli aiuti militari all’Ucraina, in attesa che si avvii davvero una trattativa di pace con Mosca, dovrà passare per le parole, gli incisi, i sottintesi e quant’altro del documento di approvazione della linea del governo nel Consiglio Europeo di qualche giorno dopo. 

Sempre da Verità Affari
Titolo di Verità Affari

La sensazione è che dietro tanta apparente agitazione, tante minacce, tante voglie di apparire diversi da quelli che si è, un pò per stanchezza e un pò per opportunismo la maggioranza resisterà -come si è lasciato scappare di recente il segretario del Pd Enrico Letta con involontario umorismo- “sino all’ultimo giorno”. E che significa? mi chiederete pensando  che ad ognuno di noi capiterà di vivere appunto sino all’ultimo giorno. Significa , nel nostro caso, anche oltre la fine della legislatura prevista sino a qualche mese fa per marzo del 2023. Essa  potrebbe durare sino a maggio con opportuni ricalcoli, alla modica spesa aggiuntiva  -calcolata da Franco Bechis su Verità Affari- di 20 milioni di euro. Ma, in compenso, con parziale consolazione di tanti parlamentari destinati a tornare a casa per il gioco perverso della riduzione dei seggi della Camera e del Senato e di quella ancora più consistente dei voti dei loro partiti. Che ne sarà poi della prossima legislatura Dio solo lo sa. E spero che Gli torni la voglia di occuparsene dopo troppi anni -temo- di sostanziale disinteresse. 

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Siparietto al Senato sulla giustizia. La partita grossa è dietro le quinte sul governo

      Il siparietto politico di giornata è naturalmente quello del Senato, dove il governo è stato sollecitato dal segretario del Pd a mettere la fiducia sulla riforma Cartabia della giustizia, limitata ma ora a rischio di bocciatura per dispetto, a causa delle resistenze opposte dai leghisti e dai renziani, ma anche da una parte dei forzisti, dopo la scoppola referendaria di domenica. E’ una ritorsione francamente sconcertante anche per l’avallo fornito a Matteo Salvini su questa strada da una professionista del settore, chiamiamola così. Che è naturalmente la senatrice, avvocato e già ministra, sia pure non della Giustizia, Giulia Buongiorno. 

          Ma la partita più grossa dopo il primo turno di elezioni amministrative, nel quale tutti i partiti hanno potuto misurare le loro forze in un migliaio di Comuni, è quella ormai apertasi fra Salvini e Giuseppe Conte, i grandi o maggiori sconfitti per i voti che hanno perduto e le loro ridotte capacità contrattuali all’interno delle coalizioni cui ancora appartengono formalmente: il centrodestra e il cosiddetto campo largo -o camposanto, come dicono i più critici- dei presunti progressisti. Di cui Enrico Letta è tornato a parlare ieri sera dopo avere omesso di citarlo in mattinata aprendo il cuore dei suoi critici, nel Pd, a qualche speranza di ravvedimento.

Ora i due sconfitti -ripeto, Matteo Salvini e Giuseppe Conte- si inseguono sulla strada quanto meno del disimpegno dal governo, nella speranza di riprendere un pò della forza perduta, a loro avviso, per l’impopolare appoggio -si fa per dire- a Draghi. Che tuttavia nella valutazione internazionale, ma anche nei sondaggi interni, risulta molto più popolare, o meno impopolare di loro, pur con tutte le grane di cui si occupa, compresa la guerra in Ucraina. Dove peraltro egli sta per andare in missione europea per sostenerne la richiesta di adesione all’Unione, utile anche a salvaguardarne la sopravvivenza dopo l’aggressione russa.

Titolo di Repubblica
Titolo del Corriere della Sera

“A settembre valuterò” la sorte dei rapporti con Draghi, ha detto Salvini nella rappresentazione del Corriere della Sera pensando al raduno autunnale di Pontida, dove la Lega ha sempre dato il meglio o il peggio di sé, secondo i gusti, dai tempi di Umberto Bossi. “Lo strappo di Salvini”, ha annunciato su tutta la prima pagina la Repubblica, come una volta si titolava sulla buonanima di Enrico Berlinguer nei rapporti con l’Unione Sovietica. 

Marco Travaglio sul Fatto
Titolo della Stampa

“Ce lo chiedono i cittadini”, ha detto Giuseppe Conte parlando della possibilità di rompere pure lui con Draghi, secondo la rappresentazione della Stampa. Ma più prudentemente, essendo anche lui uomo di mondo,  un “doroteo” dei nostri tempi di memoria democristiana, un ammiratore dell’ex presidente del Consiglio come Marco Travaglio gli ha suggerito sul Fatto Quotidiano di tirare fuori il Movimento 5 Stelle solo dal governo, non anche dalla maggioranza. E ciò giusto per togliersi il gusto, forse, di vedere in qualche difficoltà l’ormai odiato ultradraghiano ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Che per restare alla Farnesina, dove si è fatta una certa competenza e comunque gli piace ormai lavorare, dovrebbe uscire dal partito, o da quel che ne rimane dopo la presidenza di Conte, e nel silenzio quanto meno imbarazzato del garante Beppe Grillo. 

Giuliano Ferrara in dimensione umana
Giuliano Ferrara per gli intimi sul Foglio

  Se Travaglio dà consigli ai grillini, Giuliano Ferrara, sul Foglio ne dà alla sempre più emergente Giorgia Meloni nel centrodestra, ormai lanciata verso la candidatura a Palazzo Chigi in caso di sopravvivenza e vittoria elettorale della coalizione. L’ex ministra di Berlusconi deve imparare ad essere -le ha consigliato Ferrara- “più endorfinica che dopaminica”. Ma, fortunatamente impietosito dei suoi lettori, le ha raccomandato più terra terra, nello stesso titolo discorsivo, di “trasmettere anche serenità ed equilibrio”, visto ciò che grida nelle piazze italiane e straniere.  

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L’inferno di fine legislatura prodotto dai risultati delle elezioni amministrative

Titolo di Repubblica
Titolo del Fatto Quotidiano

Rimosso con un fantomatico carro attrezzi della Protezione Civile il carro funebre del referendum, immaginando i cinque sui temi della giustizia accomunati a torto o a  ragione in una sola cassa, del turno elettorale di domenica 12 giugno ci rimangono i risultati dei partiti misuratisi nel rinnovo delle amministrazioni comunali. Per una volta possiamo fidarci anche dei fotomontaggi e dei titoli del Fatto Quotidiano, uguale -pensate un pò- alla sintesi di Repubblica, che accomuna nella sconfitta, come dato essenziale o finale di almeno il primo turno del voto comunale, Matteo Salvini nel centrodestra e Giuseppe Conte nel centrosinistra. O “campo largo”, come preferisce ancora chiamarlo il segretario del Pd Enrico Letta con antica astuzia democristiana, cioè segretamente confortato dalle perdite che subisce il troppo ingombrante alleato. 

Titolo del manifesto

“Spopolati”, ha definito Salvini e Conte con la solita efficacia verbale il manifesto. Dove debbono avere riso di cuore scrivendone, diversamente dal Fatto Quotidiano, dove Conte, pur ridotto così male per dolorosa ammissione, viene ancora considerato il meglio che sia rimasto del MoVimento 5 Stelle, cui il giornale di Travaglio ha cercato di fare da scuola, pur non nascondendo le troppe delusioni via via riservategli da Beppe Grillo in persona.che ora nella “sua” Genova si deve accontentare di meno del 5 per cento dei voti, dal 30 e più degli anni migliori. E’ un pò come il 6 per cento della Lega rimasto a Salvini nel Veneto.

Conte, quindi, questo “avvocato del popolo” già iscritto all’anagrafe degli uccisi da Travaglio l’anno scorso, alla fine pasticciata e ritardata del suo secondo governo; questo emulo del conte Camillo Benso di Cavour, ora appeso anche al giudizio di una sezione civile del tribunale di Napoli per liti un pò da condominio partitico, entra sfiancato nella fase conclusiva di questa legislatura, come il suo ex e ritrovato alleato Salvini. Che pure nel 2019 egli aveva ritenuto di avere liquidato per sempre dalla sua strada processandolo in diretta nell’aula del Senato come un incontinente della prepotenza, alla ricerca dei “pieni poteri” in un turno anticipato di elezioni politiche che Matteo Renzi, ancora per pochi giorni nel Pd, riuscì a sventare buttando via tutti i pop corn che gli erano rimasti godendosi dall’opposizione lo spettacolo del governo gialloverde. 

Titolo di Libero

Per Mario Draghi la fine della legislatura è “una grana”, come giustamente osserva Libero sottolineando la “incontrollabililità” dei “grillini agonizzanti”. Ma è ancor più una grana proprio per Conte, specie se dovesse cedere al consiglio appena formulatogli  televisivamente dal suo estimatore Travaglio di portar via il partito dal governo prima delle elezioni. Come nel centrodestra Giorgia Meloni, ormai prevalente su tutti gli alleati nei sondaggi e anche nelle urne, suggerisce a Salvini e a Berlusconi.  

A proposito delle grane di Draghi, che è chiamato in questi giorni con un bel pò di viaggi ad affrontare quelle di natura internazionale, le più pericolose anche per i riflessi sulla situazione economica del Paese, può sembrare paradossale -e un pò lo è davvero- l’aiuto giuntogli su questo terreno dai risultati elettorali di domenica. Essi hanno infatti penalizzato i due partiti che nella maggioranza gli hanno procurato i maggiori problemi di politica estera, con particolare riferimento alla prima emergenza del momento che è la guerra in Ucraina. Sono i partiti appunto di Salvini e di Conte.

Titolo della Stampa

Per fortuna -lasciatemolo dire pur con tutto il rispetto dovuto ad una figura come quella del Pontefice di Santa Romana Chiesa-  le urne si sono richiuse in tempo prima che Papa Francesco si lasciasse andare a quel soccorso -pure lui- a Putin, e in fondo a quel “chierichetto” del Cremlino giù indicato nel Patriarca di Mosca Cirillo, tornando a lamentare “le provocazioni” della Nato alla Russia. 

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Il referendicidio compiuto alla luce del sole, e nell’indifferenza generale

Titolo di domenica su Domani
Titolo di ieri su Repubblica

Magari si potesse liquidare il naufragio dei referendum sulla giustizia nell’astensionismo, per la mancata affluenza alle urne della metà più uno degli elettori aventi diritto al voto come frutto inevitabile del “cinismo” e dei “pasticci” della Lega.Lo hanno fatto anche il nuovo e il vecchio giornale di Carlo De Benedetti: Domani prevedendo di domenica il risultato e Repubblica commentandolo lunedì. 

La Lega, in effetti, sin dal primo momento era apparsa una curiosa alleata dei radicali di consolidata tradizione garantista – tradita solo nella campagna del 1978 contro Giovanni Leone al Quirinale- nella promozione dei quesiti abrogativi e nella raccolta delle firme. Alle quali peraltro, quasi per diminuirne l’importanza o per timore che non potessero risultare valide abbastanza, i leghisti preferirono l’anno scorso, per il deposito alla Cassazione, le richieste abrogative formulate dalle regioni governate da un centrodestra neppure compatto nel contestare le norme e leggi prese di mira dall’iniziativa referendaria. 

La destra di Gorgia Meloni, che peraltro contende ormai la guida della coalizione alla Lega in retrocessione, non se l’è notoriamente sentita di contestare anche la  cosiddetta legge Severino, pur costata il seggio del Senato al Cavaliere nel 2013 per la condanna definitiva ma contestata per frode fiscale, e le norme sulla “custodia cautelare”, cioè sulle manette, nella fase delle indagini preliminari. 

Magari, dicevo, potessimo liquidare il naufragio referendario attribuendone la colpa al Carroccio e a Salvini in persona -aggiungo- per le troppe cause disinvoltamente sostenute negli ultimi mesi, fra cui il velleitario e confuso progetto di viaggio a Mosca, con tanto di assistenza anche economica dell’ambasciata russa a Roma, per sorpassare di fatto il governo Draghi nei contatti con Putin. Dal quale è incontrovertibilmente partita la guerra di aggressione all’Ucraina secondo valutazioni condivise in Parlamento anche dalla Lega e servite per partecipare agli aiuti militari occidentali a Kiev. 

I referendum sulla giustizia non c’entrano, d’accordo, col pacifismo avvertito e cavalcato da Salvini, ma -ripeto- qualche ricaduta su di essi non può essere esclusa per la ridotta credibilità di un leader che si stenta francamente a inseguire all’interno del suo stesso partito, tanto fitte sono le sue agende, a dir poco. 

Dalla prima pagina del Dubbio

La verità è che -per fortuna della magistratura più politicizzata interessata a proteggere le sue abitudini di lavoro e le sue prerogative anche dall’abrogazione popolare delle norme che le tutelano- i referendum sono stati ormai uccisi in via generale dall’astensionismo. Si è consumato domenica un referendicidio, ormai. Se lo metta in testa anche Matteo Renzi, che pensa di praticare questa strada anche contro il reddito di cittadinanza, visto l’uso che se n’è fatto. 

Da pagina 4 del Dubbio

Quella metà più uno degli elettori partecipanti al voto come condizione di validità del risultato di una prova referendaria abrogativa era logica, naturale più di 70 anni fa, quando fu messa nella Costituzione e l’affluenza alle urne nelle elezioni di ogni tipo, dopo più di vent’anni di dittatura, e nelle condizioni persino emotive di mobilitazione   popolare nel primo dopoguerra, era generalmente di oltre l’80 per cento, e persino 90. Oggi per demerito della politica, ma anche per una lunga, naturale evoluzione dei costumi, laica potremmo dire se della stessa politica si avesse una concezione quasi religiosa, quelle percentuali sono semplicemente da sogno. E così pure il quorum dei referendum abrogativi, di cui non a caso si è progettata -senza riuscire, come al solito, a realizzarla- una modifica costituzionale per rapportarlo alla media di affluenza alle urne delle ultime tornate elettorali politiche.

Sino a quando non si farà un cambiamento del genere, sarà semplicemente inutile puntare sui referendum abrogativi, nonostante i grandi servizi resi da essi nella causa del divorzio, nel 1974, o nello stesso campo della giustizia nel 1987, con un risultato sulla responsabilità civile dei magistrati scandalosamente tradito in pochi mesi dalle Camere con una nuova legge. Bisognerà puntare solo sulla capacità riformatrice del Parlamento. Ma al solo pensarci mi viene l’orticaria, nella confusione politica che temo cominci a far paura anche a uno della solidità di nervi come Mario Draghi. 

Pubblicato sul Dubbio

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Il Corriere attribuisce a Berlusconi una polemica mancata con Mattarella su Putin

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Non vorrei infierire sul Corriere della Sera alle prese con lo scoop sui “putiniani d’Italia”, che ha provocato anche le stizzite reazioni del sottosegretario delegato da Draghi ai servizi segreti,  ma mi sembra francamente un pò troppo tirato il tentativo di trascinare Silvio Berlusconi oggi, sulla prima pagina del giornale milanese, nelle polemiche sulla guerra in Ucraina strumentalizzando -diciamo la verità- contro Mattarella un suo racconto sul bei tempi in cui aveva buoni rapporti con Putin e riusciva a dargli buoni consigli. Accadde a Pratica di Mare, quando pensò di arruolare il capo del Cremlino addirittura nella Nato, ma anche dopo. Per esempio, quando in cinque ore di colloquio telefonico, sempre da presidente del Consiglio, riuscì nel 2008 a dissuaderlo da una guerra alla Georgia analoga a quella in corso contro l’Ucraina. 

Berlusconi ieri al seggio elettorale

Il racconto di Berlusconi ancor più nel titolo di richiamo dell’articolo in prima pagina che nel testo interno contrappone praticamente l’ex presidente del Consiglio e mancato presidente della Repubblica al confermato capo dello Stato. Che non avrebbe avuto, praticamente, né la tempestività, né la possibilità di un contatto diretto con Putin, nei mesi scorsi, per fermarlo sulla strada dell’invasione dell’Ucraina. Ma dello stesso Berlusconi si racconta la rivelazione fatta parlando al bar col pubblico dopo avere votato a Milano per i referendum ed essersi lamentato al solito della giustizia politicizzata: che, chiamatolo due volte in prossimità o a guerra appena iniziata, Putin si è sottratto all’amichevole abitudine di rispondergli. Perché allora -mi chiedo- mettere inutilmente Berlusconi in un’altra gara con Mattarella, dopo quella perduta di fatto nei mesi scorsi per la successione? L’uomo è sin troppo facile, a volte persino simpaticamente, a eccessi, svarioni, imprudenze, gaffe e simili. Non ha bisogno di aiuti. 

La debacle della democrazia, non solo più della giustizia…

Titolo del Messaggero
Titolo del Corriere

Chiamatelo o chiamiamolo come vogliamo riconoscendoci in questo o quel titolo di giornale sul “flop”, l’”affondamento” ed altro dei cinque referendum sulla giustizia. Ai cui risultati, formalmente favorevoli all’abrogazione delle norme contestate dai promotori della prova elettorale, dal 57 a oltre il 70 per cento dei sì, è mancata la validità garantita solo da un’affluenza alle urne della metà più uno degli aventi diritto al voto.

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto Quotidiano

Si è invece scomodato  una ventina per cento del corpo elettorale: il livello più basso -sembra- di sempre. E a a circa le ore sette di lunedì, oggi 13 giugno, festa di Sant’Antonio da Padova, a quasi otto dalla chiusura dei seggi, il Ministero dell’Interno non era ancora in grado di dare il dato preciso di questa debacle della democrazia, prima ancora della “catastrofe” attribuita dal solito Fatto Quotidiano nell’altrettanto solito fotomontaggio di prima pagina solo ai “re Mida” alla rovescia che sarebbero Silvio Berlusconi, Emma Bonino, Carlo Calenda e i due Mattei -Salvini e Renzi- accomunati nella disavventura, peraltro largamente prevista. 

Diciamoci la verità: pur se in buona compagnia, come dimostra la poca voglia di votare che hanno mostrato ieri anche in Francia nelle elezioni legislative, come del resto nella stessa Italia nelle elezioni amministrative cui i referendum erano stati abbinati, noi italiani stiamo diventando imbattibili, se non lo siano già ben consolidati, come evasori di ogni tipo: fiscali ed elettorali. Altro che il popolo di “santi, poeti, navigatori” di mussoliniana e infausta memoria. 

Dopo più di trent’anni di esondazione politica della magistratura, ammessa anche da fior di magistrati in servizio e in pensione, e a più di 39 dall’arresto del compianto Enzo Tortora, diventato   la vittima emblematica della cattiva giustizia italiana, solo una ventina di elettori su cento sentono attuali i problemi dei e nei nostri tribunali, e dintorni. 

Mario Draghi
Marta Cartabia

Pensare che questi problemi, come dicono i vincitori, anzi i beneficiari della partita referendaria appena fallita, debbano e possano essere risolti in Parlamento, dove nelle prossime ore riprenderà, particolarmente al Senato, l’esame della cosiddetta riforma Cartabia, dal nome della ministra della Giustizia Marta, è una pia  illusione, pensando sia alle Camere ormai in scadenza sia a quelle che, salvo anticipo da incidente o agguato,  subentreranno l’anno prossimo. Dove approderanno, a ranghi ridotti dai tagli imposti dai grillini agli alleati di turno di questa legislatura, cartelli, coalizioni e formazioni politiche da maionese, a dir poco. E tutto in un contesto internazionale da brividi, tra guerre quasi ai nostri confini e rischi di recessione, anche se molti fingono di non accorgersi e girano la testa dall’altra parte, non riuscendo peraltro neppure a spaventarsi all’idea che dopo le nuove elezioni politiche potremmo non essere più rappresentati all’estero,  da un governo presieduto da Mario Draghi. Che- detto per inciso- diversamente da Mario Monti, promosso da Giorgio Napolitano in contemporanea con la chiamata a Palazzo Chigi, non è stato nemmeno nominato senatore a vita. E difficilmente credo che lo sarà in questo scorcio di legislatura per ragioni ormai di galateo, pronto -per carità- a scusarmi con un fortunatamente maleducato Sergio Mattarella. 

Ed ora, amici miei, godiamoci nelle prossime ore, si fa molto per dire, spifferi e tempeste dei partiti e partitini alle prese con i risultati delle elezioni amministrative propedeutiche a quelle politiche.  

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La corsa ai seggi nell’ambigua rappresentazione di troppi giornali

Titolo del Corriere della Sera

Non chiamatemi pedante, malizioso e altro di più o memo simile, ma significherà pure qualcosa che di tutti i quotidiani italiani, o almeno di quelli più diffusi o noti, solo il Corriere della Sera ha rappresentato col titolo di apertura in termini corretti l’odierno appuntamento con le urne segnalando “la sfida del quorum”. Che riguarda naturalmente non le elezioni amministrative nei 970 Comuni e rotti , in cui si vota per scegliere il sindaco, ma quelle referendarie in tutti i Comuni -circa 8000- per abrogare o confermare le cinque leggi o disposizioni contestate con altrettanti quesiti sulla giustizia proposti dai radicali e dai leghisti. Il Corriere insomma ha correttamente indicato le priorità del voto, avendo più rilevanza politica e legislativa i referendum che il rinnovo amministrativo, pur importante per carità, in tanti Comuni, molti dei quali anche capoluoghi regionali e provinciali, dove si misurano partiti e schieramenti. La “sfida del quorum” nasce naturalmente dal requisito necessario della partecipazione al voto referendario della maggioranza degli elettori che ne hanno diritto, pena l’invalidità del risultato. 

Titolo di Libero
Titolo del Giornale

Hanno seguito più o meno l’esempio del Corriere, segnalando più i referendum che il voto amministrativo, il Messaggero (ma non Mattino e il Gazzettino, dello stesso editore), il Giornale della famiglia Berlusconi e Libero: questi ultimi due con titoli a caratteri di scatola.      

Titolo di Repubblica
L’editoriale della Stampa

Tutti gli altri, chi più e chi meno, hanno ignorato o snobbato i referendum sulla giustizia preferendo valorizzare, diciamo così, il turno di elezioni amministrative, considerato evidentemente più interessante o solo più gravido di conseguenze immediate sugli affanni del governo. La Stampa, per esempio, pur accennando al “Paese al voto” nell’editoriale dedicato anche a “spread, mafia e un passato che non passa”, non ha dedicato alcun titolo specifico alle elezioni. La Repubblica ha puntato su “quasi 1000 Comuni al voto”, ignorando gli altri 7 mila e più interessati anche ai referendum sulla giustizia.

Vignetta della Gazzetta del Mezzogiorno
Titolo del Fatto Quotidiano

La Verità di Maurizio Belpietro si è limitato a titolare, come per un inciso, sulle “urne aperte dalle 7”. Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che ritiene interessati ai referendum solo “i delinquenti” per potere sfuggire alle manette e ai processi, ha puntato la maggiore attenzione del titolo di apertura alle “città”, come hanno fatto per le loro diffusioni regionali ancora di più Il Secolo XIX, la Nazione, presumo anche il Resto del Carlino e Il Giorno del gruppo Riffeser Monti, e l’appena risorta Gazzetta del Mezzogiorno. Il cui vignettista Nico Pillinini si è tuttavia divertito a immaginare una scheda referendaria adatta ai gusti di Luciana  Littizzetto, con tre e non due risposte fra cui scegliere: sì, no e boh. 

Scherzo per scherzo, i più furbi sono stati quelli- direi, al solito- della redazione del manifesto. Che per non sbilanciasi fra chi è interessato più ai referendum o al primo turno delle elezioni amministrative ha titolato  genericamente “test a test”. Meraviglioso. Dovremmo ancora ringraziare, dopo 53 anni, l’allora vice segretario Enrico Berlinguer per avere cacciato e liberato così brillanti intelligenze dalle catene per quanto metaforiche del Pci . E ciò a causa dell’ostinazione con la quale esse diffidavano, precedendolo di una quindicina d’anni, della caserma sovietica del Cremlino. Dove ancora si festeggiava nel 1969 l’invasione di Praga compiuta l’anno prima.  

Matteo Salvini
Il deserto del Po fotografato dalla Stampa

In questo quadro un pò desolante, a mio parere, della sensibilità dell’informazione e, più in generale, della cultura politica italiana, che mi riporta un pò al deserto del Po fotografato oggi sulla Stampa, quel diavolo di Matteo Salvini è riuscito a imporsi con le sue sorprese. Non solo ha violato il silenzio elettorale della vigilia ma ha dovuto ammettere di essersi fatto anticipare dall’ambasciata russa le spese, pur rimborsate successivamente, del mancato volo pacifista di andata e ritorno da Mosca di fine maggio.

Ripreso da http://www.policymakermag.it 

Le ciliegine sulle torte distraenti dei referendum sulla giustizia e del voto amministrativo

Titolo del Corriere della Sera

Il penultimo venerdì nero delle borse, mercati eccetera, in attesa del prossimo che sicuramente non mancherà, è anche la penultima ciliegina distraente sulla torta delle elezioni di domani, non potendosene escludere altre anche oggi e persino domani stesso, ad urne appena aperte, prima che le richiudano nella stessa giornata per rovesciarne le schede e contarle: sia quelle per il rinnovo delle amministrazioni, in un migliaio di comuni, sia quelle dei cinque referendum sulla giustizia promossi l’anno scorso dall’inconsueta coppia di radicali e leghisti, con tanto di immagini e striscioni davanti al Palazzo della Cassazione. Che purtroppo è già tristemente noto come Palazzaccio, dove si depositano i quesiti abrogativi delle leggi e si consegnano poi le firme di sostegno. Quesiti che spesso sono sì complicati, anche agli occhi e alle orecchie di Luciana Littizzetto, abituata a semplificare tutto nei suoi monologhi televisivi, ma che hanno il pregio finale di una risposta obbligatoriamente semplice: sì o no. 

Titolo del Fatto Quotidiano
Titolo di Repubblica

Fra le ciliegine elettorali non sono mancate neppure stavolta le manette, scattate ai polsi di candidati a cinque e persino a due giorni dal giorno del voto, questa volta in particolare a Palermo per il rinnovo del Consiglio comunale, e sempre in un campo: quello del centrodestra, colpendo un candidato prima di Forza Italia e poi di Fratelli d’Italia. Così la Repubblica, quella di carta naturalmente, ha potuto titolare in prima pagina, nell’edizione nazionale  e non locale, “Per chi vota la mafia”. Più facile di così il compitino non poteva essere proposto, volente o nolente, dalla magistratura locale e svolto a sua volta dalla stampa nazionale, anch’essa -per carità-  volente o nolente. 

Nel caso della mafia la fava di Palermo, chiamiamola così, ha potuto beccare due piccioni: sia il rinnovo del Consiglio Comunale sia il pacchetto, grappolo -chiamatelo come volete- dei referendum sulla giustizia, due dei quali riguardano l’abrogazione di norme che incidono su candidature, eleggibilità e quant’altro, liquidate con la solita sommarietà e perfidia dal giornale più schierato con la magistratura e le sue prerogative vecchie e nuove –Il Fatto Quotidiano- come interessanti “solo i delinquenti”, non certo anche le persone perbene. Per le quali c’è sempre tempo poi per rimediare con l’assoluzione, magari senza neppure doverle o poterle processare. 

I referendum di domani sulla giustizia, a dispetto del  loro carattere nazionale, che dovrebbero pertanto essere sottratti agli elementi locali delle altre votazioni, partono obiettivamente svantaggiati da un errore nel quale cadono sovente i loro promotori. I quali, ossessionati da un astensionismo crescente che equivale per il quorum obbligatorio di partecipazione, sono ricaduti -a mio modestissimo avviso- nell’errore di chiederne l’abbinamento a votazioni amministrative: un errore impedito invece a livello nazionale, dove referendum ed elezioni per il rinnovo delle Camere non possono coincidere, essendo le seconde considerate talmente prevalenti da comportare il rinvio dell’altro voto. 

Mario Draghi

Una volta imboccata la strada dell’abbinamento locale, i promotori dei referendum abrogativi ne hanno dovuto subire anche gli inconvenienti, magari appositamente studiati dagli avversari, come una data estiva e un’unica giornata di votazione. Eppure il governo -va ricordato ad onore del presidente del Consiglio Draghi,  vantatosene pubblicamente- aveva deciso di non frapporre ostacoli ai referendum nella procedura dell’ammissibilità alla Corte Costituzionale. 

Per la magistratura, o la sua parte più politicizzata, questi referendum sono al solito indigeribili perché possono modificarne abitudini, discrezionalità e potere. Essa pertanto coltiva speranze di successo, cioè di naufragio del voto di domani. E’ un pò come la Chiesa quando si arroccava nella difesa del suo potere temporale, prima di convincersi, con le buone o le cattive, che quel potere non le conveniva poi tanto. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

L’improbabile recupero dei ritardi di Salvini nella campagna referendaria sulla giustizia

Titolo del Dubbio
Titolo del manifesto

  Un pò, anzi un pò troppo “a scoppio ritardato”, come il manifesto forse non a torto ha definito le proteste levatesi in Italia contro i soli  tredici anni che l’Europa vorrebbe lasciarci di tempo per non avere più macchine nuove a benzina o a nafta da potere acquistare, Matteo Salvini si è ricordato di avere promosso con i radicali i cinque referendum sulla giustizia per i quali si voterà dopodomani, in contemporanea con le elezioni amministrative in un migliaio di Comuni. E si è guadagnato qualche titolo o richiamo di prima pagina con un appello al Quirinale e a Palazzo Chigi a “rompere il silenzio” caduto sulla campagna referendaria, a rischio di fallimento per scarsa affluenza alle urne, inferiore alla metà più uno degli aventi diritto al voto ancora necessaria costituzionalmente per renderne valido il risultato. 

In questa campagna referendaria si è invece si è speso molto, sino al pannelliano sciopero della fame, il vice presidente leghista del Senato Roberto Calderoli, praticamente bollato dal solito Marco  Travaglio sull’altrettanto solito Fatto Quotidiano come partecipe di quel mondo di “criminali” cui davvero interesserebbero le prove abrogative per le maggiori possibilità offerte loro di scampare agli arresti che meritano. Che poi in Italia su 55 mila detenuti siano più di ottomila quelli in attesa del primo giudizio e più di settemila quelli in attesa dei gradi successivi, prima di poter essere definitivamente discolpati o condannati, a Travaglio e simili evidentemente interessa poco, o niente.  E sarebbe persino auspicabile che questi numeri crescessero ancora con la sconfitta o il naufragio dei referendum così a lungo dimenticati dallo stesso Salvini, impegnatosi su altri fronti politici da un bel pò di settimane e mesi. 

Persino della comune appartenenza al centrodestra, comprensivo anche della ormai concorrente Giorgia Meloni, meglio piazzata di lui e di Silvio Berlusconi nella corsa a Palazzo Chigi quando finalmente saranno rinnovate le Camere elette nel 2018, Salvini si è ricordato solo ieri sera partecipando a Verona ad una manifestazione neppure del tutto unitaria. Nella città scaligera infatti i due hanno un comune candidato a sindaco, diverso da quello sostenuto da Berlusconi, che è l’ex sindaco leghista in un certo senso storico, a lungo più noto a livello nazionale  dello stesso Salvini: Flavio Tosi. 

Dalla prima pagina della Stampa

Le distrazioni, chiamiamole così, di questi ultimi giorni, ma anche le delusioni procurategli nel partito dalle riserve per la sua smania, nelle settimane scorse, di correre a Mosca per sostenere una pace in Ucraina praticamente più favorevole al Cremlino che a Kiev, con cui invece è schierato il governo di Mario Draghi a forte partecipazione leghista, hanno fatto perdere a Salvini l’occasione, non sfuggita invece in qualche senso a Lucia Annunziata sulla prima pagina della Stampa, di fare particolarissimi aiuti di compleanno a Putin. Che è tornato ieri a richiamarsi come modello a Pietro il Grande, del quale ricorrevano i ben 350 anni dalla nascita. 

Emma Bonino
Roberto Calderoli

Ora, scherzi a parte su un terreno peraltro così scivoloso come quello della guerra in Ucraina, dove non passa giorno senza che i russi non spargano altro sangue innocente in una terra che hanno invaso, non so neppure sino a che punto il ritrovato interesse di Salvini per i referendum di domenica sulla giustizia potrà rivelarsi utile ad un loro risultato positivo, che possa servire quanto meno di stimolo ad una successiva azione legislativa in sede parlamentare. Forse al punto in cui si era ormai spinto nel disinteresse, coerente con gli anni leghisti del cappio nell’aula di Montecitorio, cui appendere gli indagati per finanziamento illegale dei partiti della cosiddetta prima Repubblica, Salvini conveniva silente anche al compagno di partito Calderoli, oltre che ad Emma Bonino, l’icona radicale dichiaratamente polemica con lui. 

Quegli arresti più o meno puntuali con elezioni di ogni tipo, anche referendarie….

Titolo del Dubbio

Di dannatamene certi e sotto molti aspetti sfortunati, nella vicenda giudiziaria e politica del candidato forzista Pietro Polizzi al Consiglio Comunale di Palermo, ci sono i soli cinque giorni che ne hanno separato l’arresto per voto di scambio d’interesse mafioso dall’apertura delle urne amministrative e referendarie di domenica prossima. 

Di dannatamente certi e sotto molti aspetti sfortunati anch’essi ci sono i 19 giorni , non due, quattro o sei trascorsi tra l’intercettazione di Polizzi a colloquio col già famoso condannato di mafia Agostino Sansone, agli arresti domiciliari,  e della sua “spalla” Manlio Porretto,  e la cattura dei tre disposta dal giudice delle indagini preliminari. 

Del tutto incerti invece rimangono i giorni che saranno necessari per terminare le indagini, rinviare eventualmente a giudizio gli interessati e attendere la fine del processo. 

Gianfranco Miccichè con Silvio Berlusconi

Non dovrei scrivere nulla anche a causa della rapidità con la quale il capo di Forza Italia in Sicilia Gianfranco Miccichè, e presidente dell’assemblea regionale, garantista per la sua stessa militanza politica, ha scaricato il candidato, proveniente peraltro dall’Udc e  incensurato, preannunciando la costituzione del suo partito come parte civile in caso di processo. E tentando una cauta difesa solo di un’altra candidata, sempre al Consiglio Comunale, Adelaide Mazzarino, moglie di Eusebio D’Alì, vice presidente dell’azienda dei trasporti, anch’essa coinvolta nelle indagini come sospetta beneficiaria di sostegno mafioso. E che da parte sua, dichiarandosi “sconcertata, senza più voglia di proseguire”, ha annunciato di considerare “finita qui” la sua campagna elettorale, inconsapevole dell’attenzione guadagnatasi in certi ambienti. 

Non dovrei scrivere nulla, dicevo. E invece ne scrivo per tornare non so neppure io   ad esprimere più lo sconcerto sui tempi delle indagini e degli arresti o la solidarietà -come preferite- per la sfortuna dei magistrati i cui tempi di lavoro ancora una volta si trovano a coincidere casualmente -per carità- con i tempi della politica e, più in particolare, delle elezioni: stavolta persino dei referendum sui problemi della giustizia. Uno dei quali riguarda proprio la candidabilità o eleggibilità degli amministratori locali con la proposta abrogazione della cosiddetta legge Severino, dal nome della guardasigilli del governo tecnico di Mario Monti, più famosa in verità per l’applicazione retroattiva che nel 1983 fu fatta ai danni dell’allora senatore Silvio Berlusconi, decaduto da parlamentare con voto inusualmente palese dopo una condanna definitiva per frode fiscale poi contestata in sede europea. 

La coincidenza fra i tempi politici e quelli giudiziari ha fornito l’occasione o il pretesto, come preferite, alla capogruppo di 5 stelle ad una commissione parlamentare della Giustizia di motivare il no della sua parte politica al referendum sulla legge Severino nel confronto col vice presidente leghista del Senato Roberto Calderoli, in sciopero peraltro della fame, nello speciale televisivo di Enrico Mentana dell’8 giugno, il giorno proprio dell’arresto di Polizzi. 

Salvatore Cuffaro, Totò per gli amici

Date e numeri, più in generale, parlano da soli. E oltre ad intossicare ulteriormente le elezioni comunali di Palermo, e in prospettiva quelle regionali siciliane del prossimo autunno, per il sostanziale ritorno alla politica dell’ex governatore Totò Cuffaro, orgogliosamente propostosi la resurrezione della Dc ora che lui ha pagato tutti i suoi debiti  di mafia alla giustizia, dimostrano come tutto purtroppo congiuri in Italia perché i rapporti fra politica e giustizia rimangano opachi. Sembra una maledizione, oltre che una disgrazia. 

Pubblicato sul Dubbio

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