Sveglia Italia, diceva Marcello dell’Utri già ai primi tempi del partito di Berlusconi

Donne di Forza Italia

  La guerra, rissa, ressa in Forza Italia, chiamatela come volete, è tutta al femminile, almeno nelle apparenze: Mariastella Gelmini contro Licia Ronzulli a carte scoperte, anzi scopertissime, o Mara Carfagna in competizione on la collega non di partito ma di schieramento Giorgia Meloni per una ristrutturazione del centrodestra di tipo dichiaratamente e orgogliosamente conservatore, con la benedizione di quella specie di Papa laico che è considerato anche negli ambienti scientifici l’ex presidente del Senato Marcello Pera. Papa laico, il simpatico Pera, a causa dei suoi rapporti di affinità culturale e amicizia personale con Benedetto XVI, il Pontefice benemerito col quale Papa Francesco divide in Vaticano, pur in ruoli diversi, l’eredità di Cristo. 

E’ roba da far tremare i nervi ai polsi, ma non a quelli del filosofo disincantato Pera, arrivato di recente a scherzare anche sulla candidatura a sua insaputa al Quirinale, prima che il centrodestra si dividesse rovinosamente sulla presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati Alberti, accoltellata politicamente dai franchi tiratori, e sul magistrato emerito Carlo Nordio, adottato alla fine con astuzia solo dal partito di Giorgia Meloni.

            A dividere Mariastella Gelmini e Licia Ronzulli è stato formalmente Massimiliano Salini, difeso dalla Gelmini come coordinatore regionale del partito in Lombardia, regione chiave per Forza Italia, e ridotto di rango e funzioni da Silvio Berlusconi per essere sostituito dalla sua più fedele portavoce Ronzulli. Che, quasi per scusarsi con una furente Gelmini, si è declassata a sua volta a semplice soldatessa obbediente agli ordini dell’”Arma”, intesa come quella di Arcore, non certo dei Carabinieri.

             Chi ha meritato in questo durissimo scontro la comprensione almeno dei suoi colleghi giornalisti, che ne hanno riferito con un certo garbo, è stato Antonio Tajani. Il quale è stato investito in pubblico dalle proteste della Germini in veste di coordinatore nazionale del partito, come se davvero queste cariche avessero un contenuto in un movimento politico personalissimo come quello di Berlusconi. Non lo è più tanto pesonale neppure quello di Beppe Grillo, degradatosi di recente sul piano quanto meno politico da fondatore, garante e quant’altro a consulente in qualche modo retribuito con l’uso comunicativo del suo blog pur personale dal partito ora contiano. Tajani, poveretto, ha inutilmente cercato di calmare la Gelmini richiamandola alla realtà di una forza politica così speciale come quella di Berlusconi, che è generoso con gli incarichi come Indro Montanelli lo era nel suo Giornale.

Titolo del Dubbio

            La verità è che il motivo serio dell’ultima lacerazione interna a Forza Italia, in attesa della prossima, non è Salini ma il quasi omonimo Salvini, Matteo anziché Massimiliano. Al quale Berlusconi ha concesso un rapporto privilegiato, sino a incoronarlo unico e vero leader dell’Italia, addirittura, nonostante il suo europeismo e atlantismo a corrente alternata, quanto meno diverso quello a corrente continua rivendicato dall’ex presidente del Consiglio. Pera se n’è accorto e ha scaricato il “capitano”, Berlusconi no. Anzi, egli insegue il progetto, o lascia che altri in Forza Italia lo inseguano, di liste unitarie con la Lega per evitare il sorpasso della Meloni nel centrodestra.

            È di pochi giorni fa la rivelazione di Salvini al Fatto Quotidiano un pò imbarazzatodi avere preceduto  Giuseppe Conte nella richiesta a Draghi di non fornire più aiuti militari all’Ucraina per non compromettere le trattative di pace pur improbabili con un Putin preoccupato più di perdere la faccia che altri soldati russi, abbandonati peraltro in Ucraina per non contarli e farli seppellire  in patria tra le lacrime dei familiari non certo riconoscenti.

Marcello Dell’Utri

            Di fronte alla remissività dell’amico Silvio a Salvini chissà se Marcello Dell’Utri non è tornato a djre o invocare “Sveglia Italia”, come nei primi anni, quando si lamentava per scherzo, ma non troppo, del freno di Gianni Letta alle spinte innovative del partito azzurro.

Pubblicato sul Dubbio

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Le due donne che stanno facendo perdere la guerra a Putin, in Ucraina e altrove

Questo 2022, pur contrassegnato da una guerra fra due uomini, Putin e Zelensky, diventati subito nell’immaginario collettivo Golia e Davide, per l’imponenza nucleare del primo e l’astuzia coraggiosa dell’altro, sta diventando l’anno delle donne per il ruolo crescente che stanno assumendo anche ai fini della guerra in Ucraina.

Il fuoco in Ucraina

La premier finlandese Sanna Marin e quella svedese Magdalena Andersson hanno letteralmente rotto o rovesciato lo schema dietro al quale Putin aveva rivendicato il diritto di fare la guerra all’Ucraina, senza neppure dichiararla, per ripararsi dalla Nato. Che attraverso Zelensky, suo sostanziale manutengolo, avrebbe deciso di strozzare praticamente la Russia su commissione, a sua volta, degli Stati Uniti di Joe Biden. 

Le richieste di adesione alla Nato delle neutrali Finlandia e Svezia dimostrano -senza che le due premier abbiano avuto bisogno di fare sparare un solo colpo di pistola dai loro eserciti ben forniti di armi-  che il problema di Putin è lui stesso. Egli fa tanta paura ai vicini da spingerli nelle braccia dell’alleanza atlantica. 

Ciò indebolisce il nuovo zar, diventato via via più simile a Breznev della defunta Unione Sovietica che a Pietro il Grande, non solo all’esterno ma anche, anzi soprattutto all’interno della Russia. Dove, per quanto l’informazione sia controllata, non può che serpeggiare sempre di più il sospetto che sia il Cremlino a isolarsi dal mondo e non il mondo a volere isolare il paese di non ricordo più quanti fusi orari, abbastanza vasto comunque per poter appagare le ambizioni di potere di un governante normale.

Le bombe russe di dileggio della vittoria ucraina all’Eurovision

In questa situazione, con un quadro militare e politico così rovinosamente rovesciato ai suoi danni, è a dir poco paradossale l’ossessione che continua a dimostrare Putin. I cui generali, o sottograduati, pensano adesso di rendere ancora più devastanti le loro bombe destinate agli ucraini scrivendovi sopra frasi di dileggio per la loro vittoria al festival europeo della canzone. Decisamente più modesto ma ugualmente significativo è ciò che le donne stanno combinando, diciamo così, nella politica italiana. Che si divide fra la guerra pur verbale di uomini nel cosiddetto centrosinistra, in particolare fra Conte e Di Maio sotto le cinque stelle e fra lo stesso Conte ed Enrico Letta nel “campo largo” di là da venire, e la guerra tutta femminile scoppiata nel cosiddetto -anch’esso- centrodestra, di cui si stenta sempre più a cogliere un carattere davvero unitario. 

Gorgia Meloni
Marta Carfagna

Mentre la ministra forzista Mara Carfagna e l’ex ministra della destra Gorgia Meloni si contendono, forse senza neppure accorgersene, un progetto di rimescolamento delle carte nel loro campo, l’una puntando sull’area diffusa ma disorganica dei centristi e l’altra sulla demolizione del rapporto privilegiato creatosi fra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, il partito azzurro dell’ex presidente del Consiglio è esploso in una guerra tutta al femminile. 

Licia Ronzulli
Marastella Gelmini

La ministra Mariastella Gelmini non ha retto all’ultimo torto che ritiene di avere subìto da Berlusconi con la promozione della sua fedele e ormai portavoce Licia Ronzulli a commissaria politica, più o meno, della Forza Italia lombarda. E all’ombra di questa apparente rissa locale, oltre che femminile, è aumentata la già alta temperatura creatasi nel centrodestra col già ricordato rapporto privilegiato fra Berlusconi e Salvini: un rapporto che tuttavia non impedisce al leader leghista di rincorrere e spesso precedere Conte in un’azione di continuo contrasto a Draghi. Il quale come presidente del Consiglio avrebbe davvero da mettersi le mani fra i capelli. Ma, beato lui, appare tranquillo, salvo qualche accigliamento di tanto in tanto per la confusione nella maggioranza, inevitabilmente crescente nella lunga coda di questa avventurosa legislatura.

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Il perfido scoop riservato da Salvini al Fatto sulla primogenitura del no ad altre armi italiane a Kiev

Matteo Salvini al suo omonimo Giacomo

 Sarà stato per una simpatia da omonimia -parlando con il Giacomo del Fatto Quotidiano- o per calcolo perfido, volendo creare problemi proprio al suo interlocutore, Matteo Salvini ha voluto riservare al giornale di Marco Travaglio uno scoop. Egli ha detto di avere posto nella maggioranza di govermo ben prima di Giuseppe Conte, che se ne è poi vantato nella “piazza pulita” di Corrado Formigli, il problema della fine degli aiuti militari italiani all’Ucraina. Bastano quelli già accordati. Non si deve andare oltre il terzo decreto interministeriale col quale sono state praticamente imballate le ultime forniture d’armi a Kiev, o dov’altro arrivano quelle occidentali a Zelensly cercando di metterle al riparo dai bombardamenti russi.

La pace, pur lontana e boicottata da Putin ogni giorno con altre bombe, altri missili e altri eccidi, come quello appena scoperto con quella fossa piena di cinquecento ucraini freddati con un colpo alla nuca, ancor più numerosi delle vittime dei nazisti nelle Fosse Ardeatine di Roma nella seconda guerra mondiale; la pace, dicevo, pur lontana è troppo importante per comprometterla con altri aiuti agli aggrediti. E tanto meno aprendo le porte della Nato alla Finlandia e alla Svezia, cui Salvini continua ad opporsi anche dopo che ha rinunciato o quanto meno ha ammorbidito i suoi veti il presidente turco Erdogan.

“Quella di Conte -ha detto testualmente Matteo a Giacomo Salvini, entrambi- è una posizione che va rispettata. Noi stiamo parlando di pace fin dall’inizio e se Conte è arrivato sulle nostre posizioni sono contento”. Ben arrivato, quindi.

Il titolo del Fatto Quotidiano

  Le parole sono state rispettate nel testo pubblicato, un pò distorte però nel titolo per amore, rispetto e quant’altro dell’ex presidente del Consiglio da parte del giornale di Travaglio.  Che ne denunciò “l’omicidio” più di un anno fa, quando a Palazzo Chigi gli subentrò Mario Draghi per volere del capo dello Stato. Nel titolo deciso nella redazione del Fatto Quotidiano si legge solo che la posizione di Conte “va rispettata”. Che sia sopraggiunta a quella di Salvini è bene che si sappia e si veda di meno. L’amicizia è amicizia, perdio. Chissà se Berlusconi ha qualcosa da dire o ridire sulla sua amicizia privilegiata con Salvini   nel centrodestra. 

Il sabato nero di Putin dopo ottanta giorni di guerra all’Ucraina

Titolo d’apertura dell’Ansa
Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Mondo ladro, deve avere gridato qualcuno al Cremlino commentando l’ultima del sabato nero di Putin: la vittoria degli ucraini anche all’Eurofestival di Torino con la Kalush Orchestra, raccomandata personalmente in lontananza dal presidente Zelensky, sicuro di poter ospitare nel suo paese la prossima edizione della kermesse continentale della musica. “Vittoria entro l’anno”, ha del resto detto il capo degli 007 ucraini, il generale maggiore Kyrilo Budanov, parlando fra “previsioni e segreti” – ha riferito il Corriere della Sera- della guerra imprudentemente aperta dai russi senza neppure dichiararla, chiamandola solo “operazione speciale” di pulizia, o polizia, addirittura antinazista. 

Titolo della Stampa

Un sabato nero, dicevo, per Putin. Sul quale sono cadute come bombe al grappolo, di quelle che piovono fra missili ed altro sull’Ucraina dal 24 febbraio, la liberazione di Kharkiv dall’occupazione russa e il sostanziale rientro del veto turco all’adesione -non “annessione”, come dicono a Mosca- della Finlandia e poi anche della Svezia alla Nato, sconsigliata personalmente come un errore da Putin ai vicini impauriti della sua fama di territori. O dell’ossessione di accerchiamento non nuova da quelle parti, essendo stata avvertita anche dai sovietici e portata a giustificazione delle loro invasioni e crescenti rampe missilistiche nei territori dei paesi dell’allora patto di Varsavia. Cui la Nato reagì con un riarmo a inseguire il quale l’allora Unione Sovietica si schiantò sul piano economico e sociale, crollando senza che gli occidentali avessero avuto bisogno di sparare un solo colpo. A picconare e demolire l’emblematico muro di Berlino nel fatidico 1989 furono gli stessi berlinesi con le loro mani, sotto lo sguardo un pò esterrefatto e un pò anche compiaciuto delle guardie dell’est, stufe pure loro di sparare per uccidere chiunque tentasse di scappare nella parte occidentale della capitale tedesca spartita fra i vincitori della seconda guerra mondiale. 

La vignetta di Repubblica

Arrivato dov’è per chiudere l’epoca sovietica, Putin l’ha voluta chissà perché riaprire riesumandone qualche volta anche i simboli. Ed ora si trova -dietro la facciata delle parate militari e delle sparate verbali del suo ministro degli Esteri, convinto che sia stato l’Occidente a “dichiarare una guerra ibrida totale contro la Russia”- nella posizione di chi deve cercare di “salvare la faccia”. Glielo ha fatto dire impietosamente Altan nella vignetta di prima pagina di Repubblica, in Italia. 

L’editoriale della Verità

Altri invece ritengono, sempre in Italia, che Putin tema anche di perdere qualcosa in più: la vita stessa, già minacciata da chissà quale delle numerose malattie che medici improvvisati in Occidente diagnosticano guardandone le immagini fotografiche e soprattutto televisive. “Ma la morte di Putin non è la soluzione”, ha avvertito con il suo editoriale oggi sulla Verità, unendosi al coro delle richieste di trattative, il direttore in persona Maurizio Belpietro, per niente imbarazzato dalle critiche che gli arrivano dai lettori. Ad uno dei quali egli ha voluto recentemente rispondere assicurando di essere sempre lui, non un altro.

Dalla prima pagina di Repubblica

Un pò di sconcerto per la piega presa dalla guerra in Ucraina, con una capacità di resistenza degli aggrediti superiore ad ogni aspettativa, si coglie in Italia anche da certe parti della maggioranza sempre più insofferenti per gli aiuti militari a Zelensky. Alludo, in particolare, a Matteo Salvini -sul fronte del centrodestra- e sull’altra sponda a  Giuseppe Conte. Che, deluso da Enrico Letta troppo affiancato a Mario Draghi, ora sogna un rapporto privilegiato con Pier Luigi Bersani, secondo notizie raccolte e rilanciate da Repubblica scrivendo della “roulette delle coalizioni”.

Dal blog di Beppe Grillo

E’ meglio occuparsi d’altro, dev’essersi detto Beppe Grillo aprendo il suo blog personale – ma non più tanto dopo gli ultimi accordi con Conte- della “intelligenza delle piante che estraggono i metalli dal terreno” senza bisogno di devastarlo.  

Il fatto quotidiano delle polemiche sulla guerra nell’omonimo giornale di Travaglio

Il titolo del Riformista

E’ ormai diventato un fatto quotidiano, con le minuscole, lo scontro fra le “grandi firme”, chiamiamole così, dell’omonimo giornale fondato da Antonio Padellaro e diretto da Marco Travaglio. La guerra in Ucraina -viste le telefonate che sono cominciate a scorrere fra il Pentagono e Mosca, le trattative “segrete” su cui ha titolato ieri la Repubblica e le preghiere che recita di notte e di giorno Papa Francesco per la pace, diversamente dal Patriarca “di tutte le Russie”- può darsi che prima o dopo finisca. speriamo naturalmente più prima che dopo. Ma essa ha già procurato un bel pò di danni anche alla comunità, chiamiamola così, del Fatto Quotidiano. Che difficilmente Travaglio riuscirà a trasformare in un affare, lasciando che i suoi redattori e collaboratori si scontrino sulle pagine del giornale facendone una tribuna libera, addirittura la più libera d’Italia, come praticamente si è già vantato il direttore dando libero sfogo alle polemiche. Che sono però contenute tutte all’interno, con generici e anodini richiami in prima pagina, dove il diritto di dire la sua e di emettere giudizi sempre definitivi, naturalmente, continua a spettare solo a lui. 

Il pubblico non è sprovveduto, per quanto stordito dal tono sempre propagandistico e accusatorio del quotidiano che forse detta la linea a quel che è rimasto del MoVimento 5 Stelle più del suo presidente Giuseppe Conte e del garante Beppe Grillo, ora anche consulente in qualche modo remunerato. Se ne vedranno gli effetti nelle elezioni politiche, alle quali prima o dopo si arriverà entro un anno. E dalle quali mi sembra scontato che non sarà confermata la “centralità” vantata ancora in questo Parlamento dall’ex presidente del Consiglio. 

I guai da guerra in Ucraina sono cominciati nel giornale di Travaglio con l’arrivo del professore Alessandro Orsini, in onore del quale il quotidiano ha organizzato addirittura uno spettacolo festoso, e a pagamento, scandalizzando il povero Furio Colombo. Che temo abbia cominciato a pentirsi di avere allevato nell’Unità, quando la dirigeva, sia Padellaro sia Travaglio, orfano professionale dell’ultimo, anzi penultimo Indro Montanelli. Alla festa per Orsini, dopo tutto quello che questi dice e scrive a favore di Putin e contro quel “fantoccio” americano che sarebbe il presidente ucraino Zelensky, il povero Furio Colombo- che prima di approdare all’Unità, e di contribuire alla fondazione del Fatto Quotidiano, era stato un  mai pentito patito degli Stati Uniti, forse più del compianto avvocato Gianni Agnelli, che ve lo aveva mandato a rappresentarlo- è davvero sbottato con un articolo di denuncia e di rifiuto di poter essere “complice” di certi spettacoli.

Furio Colombo al Riformista

Intervistato poi dal Riformista, cui naturalmente non è parso vero inzuppare il pane in questa minestra dopo tutti gli insulti che riceve dal Fatto Quotidiano sulle problematiche della giustizia, Colombo ha rincarato la dose adombrando la rinuncia alla sua collaborazione con Travaglio. Che, nel difendere Orsini dalle sue critiche, pur precisando di non condividerne tutte le opinioni, aveva praticamente accusato Colombo di avere ecceduto nella polemica. Come se lui, Travaglio, sapesse contenersi quando parla e scrive di chi gli capita sotto tiro, storpiandogli per prima cosa il nome. 

Il richiamo di Lerner in prima pagina
Gad Lerner all’Interno del Fatto Quotidiano

“La battaglia delle idee non può essere sempre incruenta”, gli ha risposto Colombo dalle pagine del Riformista. E con lui, “splendido novantunenne”, ha solidarizzato oggi sul Fatto Quotidiano Gad Lerner, pur concludendo con Travaglio che il loro giornale è il più libero d’Italia, se non del mondo.  

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Enrico Letta in gelida attesa del fiasco politico e personale di Conte

Titolo del Dubbio

 Peccato per chi si è perduto lo spettacolo di Enrico Letta collegato con la “Piazza pulita” di Corrado Formigli, sulla 7, dopo l’intervista ultimativa di Giuseppe Conte contro nuovi aiuti militari italiani all’Ucraina, incompatibili -secondo lui- con l’impegno assunto e persino sollecitato da Draghi a Biden, nell’incontro alla Casa Bianca, per una trattativa finalmente con Putin propedeutica alla pace.

            Sono rimasto persino ammirato di tanto gelo fuori stagione, specialmente ricordando nitidamente la reazione infastidita, a dir poco, di Letta junior a quello scambio di consegne a Palazzo Chigi nel 2014 col nuovo segretario del Pd Matteo Renzi. Che gli aveva preso il posto alla guida del governo dopo avergli augurato, assicurato e quant’altro una “serenità” che da allora è diventata una barzelletta, o una provocazione nel linguaggio politico italiano. 

            Ne è consapevole lo stesso Renzi, che tuttavia si diverte ogni tanto a replicare col malcapitato di turno, come accadde in particolare con Giuseppe Conte quando ne interruppe l’esperienza a Palazzo Chigi dopo averlo salvato dalla crisi del primo governo a maggioranza gialloverde, nell’estate del 2019.

            Pazientemente Enrico Letta ha reagito al veto posto da Conte  contro altri aiuti militari all’Ucraina da parte italiana ricordandogli che certe cose si decidono insieme, non potendosi regalare a Putin la divisione fra gli europei, gli occidentali e nella maggioranza di governo da noi. Pertanto occorre aspettare ciò che Draghi riferirà la prossima settimana alle Camere, discuterne e magari anche votare, come l’ex presidente del Consiglio reclama. E aveva per giunta preteso prima ancora che Draghi incontrasse Biden, come se non avesse un mandato per un simile passaggio, o non ne avesse alcuno in generale sulla guerra in Ucraina. Cose davvero dell’altro mondo, dette peraltro dal presidente di un partito, o movimento, rappresentato al governo addirittura dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Che forse è il vero problema di Conte, essendo o apparendo i due sotto le cinque stelle più competitivi che collaborativi, a dir poco, senza dovere neppure scomodare i retroscenisti, tanto evidente e notoria è la natura problematica dei loro rapporti

            Nonostante l’intimazione a chiudere la partita delle armi all’Ucraina senza attendere o a prescindere da ciò che avrà pure il diritto di dire il presidente del Consiglio, il segretario del Pd ha espresso a Formigli ottimismo sui rapporti con Conte e sui suoi sviluppi parlamentari ed elettorali, considerando il voto amministrativo del 12 giugno e i pur non menzionati referendum sulla giustizia. Di fronte ai quali piddini e pentastellati hanno fatto presto a ritrovarsi insieme sul fronte del no ad ogni cambiamento.

            Resta solo da capire, o da vedere, se tanta calma  da parte di Letta alle prese con gli strappi continui che Conte opera o tenta da Draghi e, più in generale da un governo poco rispettoso, secondo lui, della “centralità” dei grillini in questa legislatura pur agli sgoccioli, ormai, derivi dalla poca affidabilità dell’ex presidente del Consiglio come uomo degli ultimatum, declassati dallo stesso Grillo ironicamente ma non troppo a penultimatum. O dalla speranza ben nascosta che, una volta tanto, Conte faccia sul serio e finisca per provocare una crisi. E con la crisi un turno anticipato delle urne che Enrico Letta non teme, avendo buone ragioni per sperare di uscirne comunque meglio del partito da cui il Pd fu sorpassato, anzi travolto nel 2018.

Pubblicato sul Dubbio

Il buco nero di Conte nella maggioranza col veto ad altri aiuti militari a Kiev

Conte a Piazza Pulita

Dal buco nero della Via Lattea, il “Sagittarius A”, che avevamo appena ammirato vedendone la fotografia nei telegiornali, abbiamo dovuto passare ieri sera, nella “piazza pulita” di  Corrado Formigli, sulla 7, al più modesto buco nero procurato alla maggioranza di governo dall’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ora  presidente solo del MoVimento 5 Stelle. Che ha posto un veto contro un altro invio di armi italiane all’Ucraina, dopo il terzo appena predisposto dal governo esaurendo -secondo Conte- il mandato ricevuto in questa materia dal Parlamento, o non avendolo forse mai avuto davvero. 

Di armi in Ucraina -ha detto il predecessore di Mario Draghi a Palazzo Chigi- ce ne sono già troppe, per cui fornendone altre al presidente Zelensky, specie poi se dovessero essere anche carri armati, boicotteremmo le trattative per la pace sulla cui strada il capo del governo si è appena impegnato incontrando alla Casa Bianca il presidente americano Biden. Al quale ha persino chiesto di fare un pò il primo passo chiamando Putin, come lui stesso ha poi tenuto a far sapere col presumibile permesso dell’interlocutore, secondo una ragionevole deduzione esposta dal direttore della Repubblica Maurizio Molinari. Secondo il quale i rapporti di amicizia con Biden sarebbero troppo forti perché Draghi potesse comprometterli rivelando una richiesta del genere senza il consenso dell’interessato.

Titolo di Repubblica

Non sarebbe obiettivamente una novità da poco una telefonata o altro contatto americano col Cremlino dopo che Biden ha dato a Putin del “criminale” e del “macellaio” procurandosi il dissenso del presidente francese Emmanuel Macron. Ma -va precisato anche questo- non di Draghi, che anzi ha usato pure lui a Washington l’immagine della “macelleria” per descrivere l’aggressione e l’invasione russa dell’Ucraina. E la conseguente urgenza di far cessare la guerra, magari avviando già quella “trattativa segreta” su cui ha titolato oggi la Repubblica con l’aria di saperne davvero.

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto Quotidiano

Peccato tuttavia per Conte, per il suo veto o buco nero nella maggioranza, e per il solito Fatto Quotidiano che con aria compiaciuta ne ha reclamizzato l’iniziativa fra titoli e fotomontaggio in prima pagina, che Draghi abbia indicato a sostegno delle trattative di pace la realtà un pò meno favorevole dell’inizio della guerra per Putin. E ciò a causa della forza acquisita e dimostrata dagli ucraini resistendo all’invasione e contrattaccando con gli aiuti militari dell’Occidente. La cui cessazione pertanto, a cominciare dall’Italia,  appare contraria alla logica della posizione, linea e quant’altro del presidente del Consiglio. Ma anche -direi- del segretario del Pd Enrico Letta. 

Enrico Letta intervistato da Corrado Formigli

Quest’ultimo, collegato con Formigli dall’esterno e intervistato subito dopo l’uscita di Conte dallo studio, evitando così ad entrambi l’inconveniente di un difficile confronto diretto, nel riconoscersi pienamente nell’azione sin qui condotta da Draghi ha ricordato all’insofferente socio di  maggioranza che ogni cambiamento va deciso da tutti insieme, non imposto da qualcuno a qualcun altro. Il migliore regalo che si possa fare a Putin in questa fase -ha ammonito Enrico Letta- è dividerci “fra noi”, intendendosi per tagli gli europei, gli occidentali e la maggioranza di governo in Italia. Noi -ha insistito il segretario del Pd- dopo avere ascoltato Draghi in Parlamento siamo pronti a discutere e a votare, come l’ex presidente del Consiglio reclama appunto che si faccia fra Camera e Senato. 

Nonostante questo, Enrico Letta ha espresso fiducia -beato lui- nella prosecuzione dell’alleanza con Conte. Che d’altronde gli aveva offerto la rinuncia del grillino antiamericano Gianluca Ferrara a candidarsi alla presidenza della nuova commissione Esteri del Senato, dopo la dissoluzione del vecchio organismo imposta dal rifiuto di putininianissimo e ormai ex grillino Vito Petrocelli  di  lasciarne la guida. 

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Draghi tirato da tutte le parti dopo l’incontro con Biden alla Casa Bianca

Titolo del Fatto Quotidiano
Titolo del manifesto

Proseguono senza tregua, impietose e parallele, le guerre con le armi e con le parole: la prima in Ucraina, naturalmente, e la seconda sui giornali. Dove si trova davvero di tutto a proposito dell’incontro fra Biden e Draghi alla Casa Bianca: dal “pugno di mosche” attribuito al presidente del Consiglio dal manifesto, o dalla “missione incompiuta” del Fatto Quotidiano, che pure non gliene aveva attribuita alcuna dovendo il premier solo ricevere ordini, ai piedi puntati dell’ospite visti  nelle parole con cui egli ha avvertito che la pace in Ucraina non potrà essere quella imposta “da altri”. Che sarebbero gli Stati Uniti, per conto dei quali il presidente ucraino si starebbe battendo con tanta ostinazione contro Putin.

Titolo del Sole 24 Ore
Titolo di Avvenire

A questa rappresentazione dei piedi puntati da Draghi nell’incontro con Biden si sono prestati anche Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, e  il quotidiano della Confindustria 24 Ore. Nè all’uno né all’altro è sorto il sospetto -che è invece la mia personale convinzione- che gli “altri” cui alludeva Draghi parlandone a Washington fossero e siano Putin e la sua corte, se non vogliamo parlare dei russi in senso lato, meritevoli forse di essere distinti da quelli che li stanno governando. 

Non è un caso -credo- che il presidente del Consiglio abbia precisato che la pace dovrà essere quella scelta dagli ucraini e che la guerra abbia sfatato il mito della invincibilità di Putin, per niente Golia senza ombra di un David. Sconfiggerlo insomma non è per niente impossibile o velleitario, come ritenevano e ritengono che il presidente ucraino Zelensky per ridurre le perdite avrebbe dovuto scappare o arrendersi dal primo momento, anziché resistere e chiedere aiuti all’Occidente.

Poi, certo, una volta sconfitto o comunque piegato Putin ad una trattativa sino ad ora rifiutata, o condotta -sino a quando si è svolta in Turchia- in modo da vanificarla, si potrà condividere col presidente francese Emmanuel Macron la necessità. opportunità e quant’altro di “non umiliare” la parte soccombente, come si fece alla fine della prima guerra mondiale con i tedeschi predisponendo le condizioni dell’avvento di Hitler e del secondo conflitto, ancor più mondiale del primo. 

Titolo di Repubblica

Vedremo, al suo ritorno, cosa dirà Draghi il 19 maggio alla Camera per riferire sulla missione negli Stati Uniti e, più in generale, sulla guerra in Ucraina e sui suoi riflessi. Il predecessore Giuseppe Conte, ora presidente non parlamentare, quindi un pò a distanza, del MoVimento 5 Stelle, che egli ancora considera il partito di maggioranza in questo Parlamento, è già impaziente, anzi insoddisfatto perché non di una informativa, senza voto conclusivo, ma di un vero e proprio dibattito, con tanto di votazione finale su uno o più documenti, si dovrebbe sentire il bisogno. 

Dalla prima pagina della Stampa

Il clima politico insomma resta teso, per quanti sforzi si possano fare nella guerra delle parole di tirare Draghi da una parte o dall’altra, o forse proprio per questi sforzi. Un osservatore economico, diciamo così, senza partiti alle spalle, o di fianco, come Carlo Cottarelli si è spinto sulla Stampa a dare un consiglio pur in tempi di guerra che un pò sono quelli in corso: risparmiare al governo e, più in generale, al Paese le tensioni di una campagna elettorale di un anno e anticipare il rinnovo delle Camere, nella previsione -pur non espressa dal professore- che nelle nuove né Conte né altri al suo posto potranno rivendicare la “centralità” dei grillini come partito più rappresentato in Parlamento. Aspetto al varco il primo cretino che vedrà in questo intervento di Cottarelli un’aspirazione a guidare il governo elettorale mancatogli negli anni scorsi. 

Il suicidio del centrodestra per fare dispetto a Giorgia Meloni

Titolo del Dubbio

Quei 41 deputati del centrodestra -dico quarantuno in lettere, come negli assegni, non due o tre, o tredici, o venti- che con le loro assenze, al netto di una ventina di giustificate, hanno voluto far battere Giorgia Meloni dal cosiddetto centrosinistra nella votazione in aula sul presidenzialismo, col risultato di 236 voti contro 204, non sono astuti. Che, ripetendo in quantità maggiore quanto già accaduto in commissione, hanno forse voluto dare una “lezione” alla leader della destra, cresciuta troppo nelle urne e nelle ambizioni di governo, sino a proporsi per Palazzo Chigi nella prossima legislatura. In realtà essi hanno solo segato il ramo dell’albero su cui è seduta la coalizione inventata da Silvio Berlusconi nel 1994, peraltro pasticciosamente, vestita diversamente al Nord e al Centro-sud,  

             Di questo passo, fra risse o sgambetti locali, e presunte astuzie, vendette e manovre nazionali, di posti di governo -nè alti nè bassi, né poltrone nè strapuntini,- non ce ne saranno per nessuno nel centrodestra. Nè, se ce ne saranno per la mancata vittoria anche del Pd di Enrico Letta e del suo “campo” più o meno largo, potranno essere di lunga durata, dovendosi prevedere in questo caso una legislatura ancora più anomala e infernale di questa cominciata nel 2018 con la “centralità “dei grillini e sviluppatasi con tre maggioranze diverse, due delle quali contrapposte. La terza, alquanto ibrida, è sopravvissuta solo per le emergenze prima del Covid e poi della guerra in Ucraina scatenata da uno scriteriato Putin per prevenire – ha avuto appena il coraggio di dire nella piazza rossa di Mosca- un attacco della Nato alla Russia per interposta Ucraina, appunto.

            Era talmente reale e pericolosa questa ipotesi di lavoro, diciamo così, che non appena avuta certezza dell’attacco russo, dalla Nato e personalmente da Biden, il terribile e cinico Biden, giunse al presidente ucraino Zelensky il suggerimento di scappare in esilio ben protetto, lasciando quindi a Putin e alle truppe russe libertà d’invasione e di conquista. Invece Zelensky decise di rimanere al suo posto, senza tradire il 70 per cento del popolo che lo aveva eletto nel 2019 al vertice dello Stato, e chiese aiuti anche militari agli occidentali per compiere il suo dovere, oltre che diritto, di difendersi e contrattaccare. Questa, e solo questa, è la realtà di quanto è accaduto, per non parlare del resto, cioè degli eccidi compiuti dalle truppe russe e persino – come si è appena scoperto- dell’abbandono dei loro soldati caduti negli automezzi refrigeranti. Era evidentemente troppo impopolare in patria il ritorno delle salme e la loro sepoltura, fra le lacrime di troppi familiari delusi, a dir poco, del loro “zar”.

Bettino Craxi immaginato da Giorgio Frattini
Randolfo Pacciardi

         Che cosa c’entra tutto questo su cui mi sono dilungato – mi chiederete- col centrodestra e con la sua crisi confermata dal suicidio parlamentare sul presidenzialismo, vecchio tema di battaglia della destra?  Dove già dagli anni Sessanta si veniva spregiativamente classificati, e chiusi a chiave, a pensare e a parlare di elezione diretta del Capo dello Stato o di “Nuova Repubblica”. Così capitò persino ad un antifascista doc come Randolfo Pacciardi, battutosi in armi nella Spagna contro il generale Franco. Non parliamo poi di quello che sarebbe accaduto al socialista Bettino Craxi aprendo alla Repubblica presidenziale. Persino Giorgio Forattini sulla Repubblica di carta saldamente diretta dal fondatore Eugenio Scalfari avrebbe cominciato a rappresentare il segretario del Psi con gli stivali e a testa in giù, come Mussolini a Piazzale Loreto. Poi, ma molto poi, il vignettista se ne sarebbe pentito.

            La guerra in Ucraina c’entra eccome con la crisi del centrodestra perché neppure su di essa le sue componenti sono riuscite a trovarsi d’accordo dopo la linea del forte contrasto a Putin adottata dal presidente del Consiglio Mario Draghi, e peraltro approvata quasi all’unanimità dal Parlamento. Quel Salvini pappa e ciccia con Giuseppe Conte, come all’epoca della maggioranza gialloverde, ma questa volta contro la pretesa degli ucraini -pensate un po’- di resistere davvero e a lungo a Putin e persino di batterlo con gli aiuti occidentali, fa veramente del centrodestra un baraccone. Nel quale, viste anche certe ambiguità forziste, salva la faccia, ma dall’opposizione, solo la “conservatrice” e atlantista Giorgia Meloni, forse penalizzata anche per questo nella battaglia presidenzialista di fine legislatura. Una battaglia solo nominalistica, di facciata, per i tempi ormai stretti della legislatura, ha detto il parlamentare e costituzionalista del Pd Stefano Ceccanti. Ma proprio per questo è risultato più disonorevole il boicottaggio di quei 62 del centrodestra a Montecitorio, fra ingiustificati o in missione galeotta. Un suicidio, ripeto, politico e forse anche elettorale, considerando sia le amministrative di giugno sia il rinnovo delle Camere l’anno prossimo, o prima ancora.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it il 15 maggio

Biden e Draghi hanno ostentato alla Casa Bianca il loro rapporto privilegiato

Il titolo del Foglio
Il titolo di Repubblica

C’è qualcosa di esagerato o quanto meno di improprio in quel “patto della Casa Bianca” che la Repubblica del superatlantista Maurizio Molinari ha voluto vedere nell’incontro fra il presidente americano Joe Biden e il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi. Lo stesso vale naturalmente per quel “gran patto per armare la democrazia” scelto e dipinto di un rosso compiaciuto dal Foglio fondato dal perdurante animatore Giuliano Ferrara e diretto da Claudio Cerasa, “il ragioniere” che piace ancor meno di Ferrara a Marco Travaglio. Che, dal canto suo, è stato questa volta più sobrio o misurato, come preferite, preferendo sottolineare nel titolo del suo Fatto Quotidiano le “lodi”  di Biden a Draghi per avere “unito Nato e Ue”, non per avergli ubbidito. 

Il titolo del Fatto Quotidiano

In effetti Draghi è volato negli Stati Uniti e Biden lo ha atteso alla Casa Bianca non per stringere chissà quale “patto”, non avendone bisogno né l’uno né l’altro, d’accordo sin dal primo momento della guerra d’invasione e aggressione di Putin all’Ucraina, quanto per sottolineare questo loro rapporto privilegiato. Che non può essere certamente considerato una sorpresa, essendosi Draghi presentato alle Camere l’anno scorso, per chiedere e ottenere la fiducia, su una linea dichiaratamente “europeista e atlantista”. Giuseppe Conte e Matteo Salvini, ora uniti nei mal di pancia per questa linea, si erano evidentemente distratti in quell’occasione rimanendo nella vasta e “anomala” maggioranza raccomandata, diciamo così, dal presidente della Repubblica, contrario a sciogliere i nodi della politica alquanto aggrovigliati mandando gli italiani anticipatamente alle urne in piena pandemia. 

Il titolo della Verità
Il titolo del Riformista

Il rapporto privilegiato fra gli Stati Uniti di Biden, dopo la parentesi di Donald Trump alla Casa Bianca, e l’Italia di Draghi è tanto più evidente quanto più si cerca, a torto o a ragione, di rappresentare il confermato presidente della Francia, e presidente di turno dell’Unione Europea, Emmanuel Macron come distinto e forse anche distante dagli americani. A ragione, dicevo a proposito di questa rappresentazione, isolando dal contesto della sua ultima presa di posizione sulla guerra in Ucraina la necessità  sottolineata da Macron di “non umiliare” il pur aggressore Putin. A torto, considerando che questa necessità, opportunità e quant’altro, come volete chiamarla, è stata rivendicata dal presidente francese parlando del dopoguerra in Ucraina, quando si saranno svolte e concluse le trattative. Alle quali purtroppo Putin continua a non essere disponibile, peraltro neppure chiamando per nome la guerra che ha aperto: una indisponibilità che Biden ha ricordato anche a Draghi quando questi, nell’incontro alla Casa Bianca, gli ha detto che l’Europa, tutta l’Europa, non solo la Francia di Macron, “vuole la pace”. E gli ha espresso questa volontà non certo per chiedergli l’autorizzazione a cercarla, come ha titolato con malizia Piero Sansonetti sul Riformista, una volta tanto in sintonia col Travaglio dell’umore peggiore, come anche -a destra- l’ormai solito Maurizio Belpietro. Che sulla prima pagina della Verità– traduzione italiana della Pravda dei tempi sovietici- si è speso personalmente con un editoriale per sostenere che “gli ucraini combattono per procura”, naturalmente americana, e “l’Italia li paga” con una “pioggia di miliardi” sottratti alle esigenze nazionali in periodo di rallentamento dell’economia o di temuta recessione.

Immagine dall’Ucraina
Titolo del Giornale

Sulla necessità, opportunità e quant’altro di “non umiliare” Putin né prima né dopo la pace non sarebbe male se i lettori parziali di Macron si rendessero conto che Putin da quando ha avviato la sua cosiddetta “operazione speciale”in Ucraina ha fatto di tutto per umiliarsi da solo, addirittura con lo scandalo umano e militare appena scoperto dei cadaveri dei soldati russi lasciati chiusi e nascosti in camion refrigeratori, non degni neppure di un rimpatrio per la sepoltura. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

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