Il dramma del centrodestra si è compiuto nei ballottaggi di Roma e Torino

Non per essere irriverenti, ma quel “tutto è compiuto” di Gesù Cristo sulla croce può ben essere ripetuto dal centrodestra di fronte ai risultati dei ballottaggi a Roma e a Torino. Dove la coalizione a trazione non più berlusconiana ha raccolto ciò che ha seminato con candidature deboli e ancor più ha rovinato con una campagna elettorale che peggio non poteva essere condotta fra il primo e il secondo turno di queste amministrative del 2021. Quella di di Trieste, dove è stato confermato faticosamente il sindaco uscente di centrodestra, rimane una magra consolazione.

A dispetto della convinzione maturata da Alessandra Ghisleri che i disordini del 9 ottobre a Roma – con l’assalto dei forzanovisti alla sede nazionale della Cgil e tutte le esitazioni e contraddizioni delle reazioni dei leghisti e dei fratelli d’Italia di Giorgia Meloni- non fossero destinati a influire sul ballottaggio capitolino, penso che un peso l’abbiano avuto eccome.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso dell’indifferenza, tradottasi nel record dell’astensionismo, è stata a mio avviso la restituzione della storica piazza romana di San Giovanni alla sinistra. Il centrodestra, che era riuscito a strappargliela negli anni scorsi, avrebbe ben potuto unirsi con convinzione e decoro alla solidarietà che la Cgil meritava. Ma alla quale persino Silvio Berlusconi, dopo avere cominciato a mettere il trattino fra il centro e la destra, ha ritenuto che potesse bastare e avanzare una telefonata.

Ora il centrodestra dovrà fare i conti con l’obiettivo rafforzamento di una sinistra che tuttavia dovrebbe anch’essa riflettere sulla crescente crisi di rappresentatività. E’ stata una vittoria, certamente, ma non il “trionfo” addirittura vantato dal segretario del Pd Enrico Letta, giù dimentico di essere stato eletto a Siena il 4 ottobre con un’affluenza alle urne ben al di sotto del pur spaventoso 40 per cento o poco più dei romani andati a votare per scegliere il sindaco.

Cessata la sbornia del segretario piddino, la sinistra al governo dovrà subito fare i conti con la realtà alla quale il presidente del Consiglio Mario Draghi, fortunatamente estraneo alla competizione appena conclusasi, la richiamerà con le scadenze finanziarie e il fitto calendario delle riforme collegate al piano della ripresa finanziato dall’Unione Europea. Non parliamo poi dei guai dei grillini destinati a ripercuotersi su chi li insegue come alleati.

Purtroppo non si può dire che, chiuso questo capitolo elettorale, a parte la scadenza istituzionale di febbraio, quando il Parlamento dovrà sciogliere il nodo del Quirinale per la scadenza del mandato di Sergio Mattarella, la politica potrà darsi una tregua. No. Matteo Salvini, risconfitto anche a Varese, si è già prenotato per la campagna elettorale delle amministrative dell’anno prossimo. Ma il 2022, anche se si dovesse evitare lo scioglimento anticipato da molti immaginato dietro l’angolo, sarà pur sempre l’ultimo anno della legislatura: in quanto tale il più difficile di tutti, in cui quello che l’economia e mancato presidente del Consiglio Carlo Cottarelli ha appena definito “l’assalto alla diligenza” della spesa. Ci sarà poco da stare allegri.

Ripreso da http://www.startmag.it  

I ballottaggi comunali disertati da una maggioranza crescente di elettori

Già abituale di suo, l’ulteriore aumento dell’astensionismo fra il primo e il secondo turno delle elezioni comunali era scontato dopo che tutti, proprio tutti i partiti, dell’ampia maggioranza e della ristretta opposizione, hanno contribuito a distogliere l’opinione pubblica dai ballottaggi. L’hanno distratta a tal punto, presumendo di politicizzare ancor più di quanto già non fossero gli appuntamenti con le urne, da provocare la fuga dai seggi e la corsa al mare, dove il tempo lo ha permesso. Era desolante il vuoto, per esempio, che ho trovato nella scuola della zona di Roma dove ho votato. Poco mancava che il presidente della sezione, riconoscente per averne interrotto la contemplazione del soffitto, mi offrisse un pasticcino.

La vignetta del Corriere della Sera

Proprio i romani, specie quelli delle periferie, si sono quanto meno guadagnati il perdono, chiamiamolo così, del vignettista del Corriere della Sera, Emilio Giannelli. Che li ha trovati solo “pochissini”, anziché porci, nel vecchio gioco di tradurre negativamente la sigla della loro città: SPQR, acronimo storico di Senatus Populusque Quiritium Romanorum.

Titolo di Repubblica
Gualtieri e Michetti al seggio

“Il centrodestra trema”, ha titolato la Repubblica scommettendo a suo modo, a dispetto di quella fandonia che è ormai diventato l’obbligo del silenzio elettorale a urne aperte, sulla vittoria a Roma di Roberto Gualtieri, il candidato del centrosinistra presuntivamente allargato alle 5 Stell, sul concorrente del centrodestra Enrico Michetti, che lo aveva superato nel primo turno. Ma sarebbe una ben magra vittoria quella di un sindaco sostanzialmente di minoranza. Lo sarebbe naturalmente anche quella di Michetti, guadagnatosi fra il primo e il secondo turno anche la preferenza dichiarata del marito della sindaca grillina uscente Virginia Raggi, come a Torino l’omologo dal marito della sindaca, sempre grillina, Chiara Appendino. Ma chi se n’è accorto nel bailamme scatenatosi fra il primo e il secondo tempo della partita?     

Federico Geremicca sulla Stampa di ieri
Dalla prima pagina del Corriere della Sera

“L’attenzione dei cittadini -ha scritto giustamente Federico Geremicca sulla Stampa di ieri- è stata calamitata dall’esordio del green pass obbligatorio. E i partiti hanno litigato, piuttosto su fascismo e democrazia, dividendosi quelli di maggioranza su questioni di governo assai delicate, che nulla hanno a che fare col voto di oggi e domani”. Penso, per esempio, alle barricate levate in difesa del sempre più costoso reddito di cittadinanza da ciò che rimane del MoVimento 5 Stelle, che si identifica in questa misura. Eppure, lungi dall’avere “sconfitto la povertà”, secondo l’annuncio fatto dal balcone di Palazzo Chigi dall’allora vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio, essa l’ha aumentata distraendo ingenti risorse dal sistema produttivo e dalla creazione di nuovi posti di lavoro. E questo senza parlare degli scontati abusi cui la misura si sapeva dall’inizio potesse prestarsi, rivelatisi superiori alle peggiori previsioni anche per effetto della sopraggiunta pandemia. Sono quindici miliardi in due anni gli euro rubati in frodi da reddito di cittadinanza, invalidità e pensioni, ha appena calcolato la Guardia di Finanza e pubblicato il Corriere della Sera.

E poi bisogna sentirsi dire da Marco Travaglio sul solito Fatto Quotidiano che è Mario Draghi, l’uomo al presunto servizio della Confindustria, e non il politicamente compianto Giuseppe Conte, che lo ha preceduto a Palazzo Chigi sino a gennaio scorso, ad essere una specie di reincarnazione di Maria Antonietta, convinta nel 1789 di poter evitare la rivoluzione francese facendo distribuire brioches alla popolazione.

Che autorete per il centrodestra quella piazza restituita alla sinistra…

Titolo di Libero

A cose fatte, cioè a manifestazione compiuta nella piazza romana di San Giovanni tornata storica per la sinistra, dopo che Silvio Berlusconi con i suoi alleati di centrodestra riuscì una volta a riempirla come il Pci ai tempi di Enrico Berlinguer, ripeto con maggiore convinzione della vigilia: Dio mio, che errore avere disertato e restituito quella piazza agli avversari politici. Che errore averlo compiuto in nome di una cosa che ormai non rispetta più nessuno, con i cambiamenti intervenuti nella comunicazione: il silenzio elettorale sbandierato sulla prima pagina, per esempio, di Libero. Quasi che a suo modo non l’avesse violato anche il centrodestra accusando di violazione la sinistra, demonizzandone così l’iniziativa e politicizzandola ancor più di quanto non avessero voluto fare forse i suoi promotori.

Conte e Gualtieri in Piazza San Giovanni a Roma
Massimo D’Alema a Piazza San Giovanni

Non credo proprio che la presenza in quella piazza anche di Giorgia Meloni col candidato di centrodestra al ballottaggio capitolino di oggi Enrico Michetti, compensativa di quella di Giuseppe Conte col concorrente Roberto Gualtieri, sarebbe passata inosservata, o quella di Matteo Salvini e Antonio Taiani, visti gli impedimenti ricorrenti di Berlusconi, rispetto a quelle di Enrico Letta e di Massimo D’Alema. Eppure sia Michetti che qualificati parlamentari del partito di Giorgia Meloni erano corsi nella sede della Cgil assaltata e devastata dai forzanovisti per solidarizzare col sindacato rosso, così come Berlusconi si era affrettato a telefonare solidalmente al segretario generale della Confederazione Maurizio Landini.

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Non credo che sul Corriere della Sera il “cronista” Fabrizio Roncone in presenza anche del centrodestra avrebbe potuto cominciare il suo articolo in prima pagina scrivendo, come quelle assenze gli hanno invece consentito avvolgendosi in qualche modo anche lui nelle bandiere rosse: “Striscioni, palloncini, bandiere, pugni chiusi e Bella Ciao”. Qualcosa egli avrebbe dovuto scrivere per dovere professionale anche della presenza, se ci fosse stata, di esponenti del centrodestra. Che sarebbero stati peraltro coerenti con l’obiettivo o la necessità della “pacificazione” indicata nei giorni precedenti da Matteo Salvini uscendo non da una trattoria romana, non dalla sua abitazione, ma da Palazzo Chigi. Dove il leader leghista aveva avuto il secondo incontro in pochi giorni col presidente del Consiglio Mario Draghi. Che occasione migliore poteva offrirsi per una pacificazione, in tempi ancora di pandemia, di una presenza, o di un ritorno del centrodestra in piazza per confermare la solidarietà espressa già al sindacato vilmente aggredto nel suo sacrosanto diritto di esistere?

Titolo di Repubblica
Titolo della Stampa

Dio mio, ripeto, che errore. Al quale per fortuna non si è aggiunto quello, solito invece in occasione delle piazze da riempire, di stare a polemizzare sulle cifre, contrapponendo i duecentomila manifestanti contati e gridati da Repubblica ai centomila della Stampa. Duecentomila o la metà che siano stati, lo spettacolo per chi l’aveva promosso è riuscito.

La prima pagina del manifesto

Non ha avuto torto, obiettivamente, il quotidiano orgogliosamente comunista il manifesto, con la sua abituale arguzia, a riconoscere a Maurizio Landini di avere fatto “un buon lavoro” con la sua iniziativa, prima ancora che col suo discorso abilmente inneggiante alla “piazza di tutti” lasciata masochisticamente dal centrodestra solo all’altra parte.

Eppure Sansonetti ha tirato le orecchie a Mattarella sul Riformista

Titolo del Riformista

Questa volta dissento dal mio amico Piero Sansonetti. Che sul Riformista da lui diretto con la solita grinta ha scambiato per una specie di spolverino inutile,  se non addirittura nocivo, quella che a me è parsa invece una frustata alle toghe e al loro sindacato, che è notoriamente l’Associazione Nazionale dei Magistrati. Della cui rivista che ha appena cambiato veste il capo dello Stato si aspetta -in una lettera mandata al presidente della stessa Associazione, Giuseppe Santalucia- il contributo ad “un dialogo autentico della Magistratura ordinaria con le istituzioni e con la società”: dialogo che, a mio avviso, e presumo anche nelle convinzioni maturate in Mattarella, è spesso mancato, o si è rovesciato nell’opposto, cioè in un’azione di contrasto quasi pregiudiziale.

Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella

Cito una vicenda per tutte: il processo sulla cosiddetta trattativa fra lo Stato e la mafia, in cui si è cercato negli anni scorsi di coinvolgere anche l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e sono stati appena assolti in appello – fra le critiche e le proteste di un bel po’ di magistrati-  eccellenti ufficiali  in uniforme  e rispettabili personaggi politici scambiati dalla  Procura di Palermo e dai giudici di primo grado per complici, praticamente, della mafia in un attentato allo Stato e al suo funzionamento.

Formalmente il processo non è ancora concluso potendo avere, su iniziativa dell’accusa, una coda in Cassazione. Dove però l’ostinata posizione della Procura palermitana, e dei suoi corifei mediatici, è stata già bocciata in un altro processo svoltosi col rito abbreviato, per scelta dell’imputato: l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, promotore secondo l’accusa della presunta trattativa finalizzata non alla cattura dei boss responsabili delle stragi mafiose, come avvenuto, ma al soddisfacimento delle pretese dei criminali. Bel tipo di “dialogo” con le istituzioni attraverso processi così chiaramente, direi sfacciatamente arbitrari, nei quali l’accusa si è messa a contestare con tanto di documenti decisioni e valutazioni inappellabili della Cassazione.

Oltre alla denuncia di questo mancato o perverso dialogo, pur senza addentrarsi in questi particolari per evidenti motivi di opportunità istituzionale, avendo per fortuna gli stessi processi  provveduto a smascherarne i responsabili, Mattarella nella sua lettera ha sottolineato la necessità di una “rigenerazione etica e culturale” dei magistrati. Ma con ciò egli avrebbe compiuto quanto meno l’ingenuità -par di capire dalla “critica” formulata da Sansonetti- di scommettere sull’autoriforma di una magistratura mancante di morale e di cultura. Ci sarebbe bisogno non di un’autoriforma ma di una riforma, finalmente imposta ad una magistratura recalcitrante e “corporativa”, lamentata dallo stesso Mattarella nella sua lettera al presidente del sindacato delle toghe

Sergio Mattarella e Francesco Cossiga in una foto d’archivio

Ma la riforma spetta al Parlamento, su iniziativa propria o del governo. Se la prenda dunque, il mio amico Sansonetti, con l’uno e con l’altro, con i loro ritardi, con le loro contraddizioni, con i loro errori, non col presidente della Repubblica, almeno in questa circostanza.: un presidente, peraltro, in scadenza di mandato e dalle abitudini assai diverse di un predecessore, amico e collega di partito come Francesco Cossiga. Che neppure col suo interventismo e le sue picconate, di giorno e di notte, riuscì peraltro ad ottenere risultati diversi.

La frusta di Mattarella, finalmente, sulle toghe e la loro associazione

Titolo del Messaggero
Titolo di Libero

Peccato che le circostanze politiche abbiano fatto passare quasi inosservata sulle prime pagine dei giornali la frusta sia pure metaforica usata dal presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura, Sergio Mattarella, con le toghe e il loro sindacato denunciandone, rispettivamente, le carenze etiche e il corporativismo. Delle venti testate abitualmente selezionate dalla meritoria rassegna stampa del Senato, solo due –Il Messaggero e Libero– hanno ritenuto di trovare uno spazio sia pur modesto alla clamorosa iniziativa del capo dello Stato, assunta con una lettera al presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, Giuseppe Santalucia, in occasione della pubblicazione della sua rivista in una nuova veste, utile almeno negli auspici del Quirinale a “stimolare la riflessione e il confronto su temi di costante attualità, sia sul piano giuridico che istituzionale”.

Il comunicato del Quirinale

Il sindacato delle toghe, secondo Mattarella, “lungi dal coltivare corporativismo autoreferenziale, è chiamato a promuovere e sostenere il dialogo autentico della magistratura ordinaria con le istituzioni e la società”. Che spesso -mi permetto di chiosare- escono malconce dalle iniziative giudiziarie e da prese di posizione di singoli magistrati abitualmente coperti dalla loro associazione per il diritto di dire qualsiasi cosa, anche che gli assolti -per esempio- sono solo gli imputati riusciti a “farla franca”.

“Occorre impegnarsi -ha scritto il presidente della Repubblica nel passaggio più urticante della lettera- per assicurare la credibilità della Magistratura che, per essere riconosciuta da tutti i cittadini, ha bisogno di un profondo processo riformatore ed anche di una rigenerazione etica e culturale”. Rigenerazione significa che le attuali condizioni non sono proprio al massimo, diciamo così. Il capo dello Stato non poteva essere più esplicito e, al tempo stesso, dettagliato. Peccato, ripeto, che i giornali abbiano generalmente relegato questo intervento nelle pagine interne: persino una testata come Il Foglio, tre le minori per diffusione ma di solito tra le maggiori nel reclamare ciò che ha appena scritto con la sua autorità il presidente della Repubblica e, ripeto, del Consiglio Superiore della Magistratura.

Titolo di Repubblica
Titolo di Domani

Le circostanze che hanno provocato questa specie di corto circuito informativo sono essenzialmente due, che hanno infatti dominato sulle prime pagine dei quotidiani. La prima è naturalmente la riuscita, per fortuna, dell’operazione green pass voluta dal governo e contrastata da tutti quelli che si erano mobilitati con scioperi, boicottaggi, minacce e quant’altro. “La forza tranquilla del premier”, ha giustamente commentato Repubblica in un titolo. “La linea della fermezza paga molto più dei compromessi”, ha osservato Domani, il quotidiano di Carlo De Benedetti.

Travaglio sul Fatto

Marco Travaglio ha preferito invece tornare a lamentarsi sul suo Fatto Quotidiano del governo “presieduto da un ex banchiere mai votato né indicato da nessuno”. E a temere che Mattarella accettando una conferma tenga “in caldo la poltrona” del Quirinale a Mario Draghi “per un paio d’anni”. E’ proprio un’ossessione a questo punto.

L’altra circostanza è il sostegno illuminante del Pd in Consiglio dei Ministri e dintorni alle resistenze delle 5 Stelle ad una stretta del cosiddetto reddito di cittadinanza, cui sono stati invece predisposti maggiori finanziamenti, nonostante gli abusi e gli sprechi cui sinora si è prestato.

Il giorno più lungo di Draghi, alle prese con l’obbligo operativo del green-pass

Titolo di Repubblica
Titolo del Riformista

Ancora una volta la satira soccorre la politica e persino l’informazione. Accade nel “giorno della verità”, come l’ha definito nel titolo di prima pagina la Repubblica, in cui Mario Draghi – come ha titolato il Riformista– si gioca tutto” -aggiungo io- con “la madre di tutte le battaglie”. Che non è, caro il mio Goffredo Bettini, del Pd, il ballottaggio elettorale di domenica per il Campidoglio, ma l’applicazione dell’obbligo del cosiddetto green-pass per l’accesso al posto di lavoro: obbligo contestato dal “popolo no vax”, come ci siano un po’ tutti abituati a chiamarlo sia quando scende in piazza sia quando sciopera nei porti e nei trasporti su strada minacciando di paralizzare il Paese. Tutti insieme, non volendosi vaccinare, accusano il governo di volerli cacciare fuori dal mondo del lavoro garantito, se hanno la fortuna di averlo. Che è, fra l’altro, una menzogna perché il non vaccinato ha delle penalizzazioni, a cominciare dal tampone non gratuito, ma conserva il diritto al posto. La mancata vaccinazione non può essere giusta causa di licenziamento.

Il problema è che ancor più grave del presunto rischio di uscire dal mondo del lavoro è il pericolo di non uscire dalla pandemia virale, nella quale l’economia non avrà mai la possibilità di sviluppare tutte le sue potenzialità e di garantire finalmente un lavoro a chi non ce l’ha mai avuto o l’ha perso, spesso a causa dei danni procurati dal covid al sistema produttivo e sociale. Giustamente Emilio Giannelli nella sua vignetta di prima pagina del Corriere della Sera fa dire ad un disoccupato sulla solita panchina che “avere il green pass è facile, ma il difficile è avere il lavoro”, in risposta al signore che aveva tradotto così notizie e titoli di un giornale: “Da oggi niente lavoro se non hai il green pass”.

Sì, è vero, Draghi rischia grosso in questo che potrebbe essere per lui anche il giorno più lungo, dal titolo dello storico film del 1962 sull’ancora più storico sbarco in Normandia degli americani e alleati, il 4 giugno 1944, per accelerare la sconfitta di Hitler e la fine della carneficina della seconda guerra mondiale. Ma, ancor più grosso di Draghi e del suo governo, rischiano sulla strada del suicidio-omicidio il già citato “popolo no vax” e chi in qualsiasi modo lo coccola, lo giustifica, lo comprende, come preferite, magari solo per togliersi la ben magra soddisfazione di vedere l’odiato Draghi in difficoltà, e addirittura di vedere vendicato il predecessore Giuseppe Conte.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano di ieri
Travaglio sul Fatto Quotidiano

Sentite cosa non più tardi di ieri sul Fatto Quotidiano ha scritto nel suo editoriale, o direttoriale, il solito Marco Travaglio: “Sarebbe assurdo uscire dalla pandemia in assetto di guerra dopo esserci entrati e averla affrontata tutti insieme con la calma e la persuasione di Conte”. E ancora, risalendo sino a Mosè attraverso la rivoluzione francese del 1789, giusto per non farsi mancare niente: “Ora abbiamo SuperMario che, con quell’arietta da Maria Antonietta, si crede ancora alla Bce e detta le tavole della legge dal Sinai senza degnarsi di spiegarle alla plebe né preoccuparsi delle conseguenze, anche quando sono note a tutti”.  Le famose brioches di Maria Antonietta, finita notoriamente sul patibolo, come gli sconti sui tamponi o gli incontri del presidente del Consiglio con i sindacati…

La trattativa di piazza praticata a Roma e Milano, ma non ditelo a Palermo

Il magistrato di Milano Alberto Nobili
La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese

Prima ancora che la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, mandando su tutte le furie la già agitata di suo Giorgia Meloni, spiegasse alla Camera perché avesse praticamente lasciato indisturbato il pur abusivo, dappato e quant’altro forzanovista spintosi sabato scorso ad annunciare e poi guidare una spedizione punitiva contro la sede della Cgil, cioè per evitare il surriscaldamento della piazza romana, avevo letto qualcosa di analogo sulla piazza milanese detto da un magistrato che ne occupa per ragioni di ufficio. E’ Alberto Nobili, intervistato dalla Stampa il giorno prima proprio per la sua competenza in materia di teste calde che danno filo da torcere alle forze dell’ordine con disordini nei quali può capitare che esca fuori anche il morto, mancato per fortuna stavolta sia a Milano che a Roma.

Nobili alla Stampa

            “Queste manifestazioni -ha detto testualmente Nobili nell’intervista pubblicata proprio la mattina in cui la ministra si preparava ad andare alla Camera, magari influendo involontariamente sulla titolare del Viminale- distruggono uno dei cardini della nostra civiltà che è il contraddittorio, sedersi intorno a un tavolo e discutere per cercare una soluzione. L’infiltrazione di persone violente che non sono portate alla dialettica ma alla prevaricazione è un problema per qualsiasi forma di democrazia. Mi auguro che si riesca a recuperare il dialogo con queste persone. Che, tra i cinquemila manifestanti milanesi venga selezionato un gruppo di delegati con cui le istituzioni possano parlare e cercare delle soluzioni”.

            Fra i cinquemila manifestanti milanesi come fra i diecimila manifestanti romani di sabato in Piazza del Popolo e dintorni, mi era subito venuto spontaneo di pensare leggendo l’intervista di Nobili  e sovrapponendole il ricordo dell’accaduto nella Capitale con l’aggravante del Masaniello di turno lasciato libero di programmare la spedizione contro la Cgil. Intanto qualche funzionario del Viminale, o simile, allungava forse lo sguardo sulla folla per individuare i componenti di una delegazione  di cui raccogliere malumori e richieste. E vedere di convincere i dimostranti a raggiungere i loro obiettivi senza fare tanto casino, diciamo così.

Nobili alla Stampa

            “Il loro lavoro -ha detto ancora Nobili parlando degli uomini della Polizia e della Digos impegnatisi a Milano a fronteggiare problemi di piazza, e ricorsi tuttavia alla fine anche a un po’ di arresti- è fondamentale. Non è facile gestire cortei non autorizzati per dodici settimane di fila. L’obiettivo diventa quello di ridurre al minimo qualsiasi forma di violenza. Il principio è che quando non puoi riportare l’ordine che è stato violato da cinquemila persone devi saper gestire il disordine, E questo è stato fatto con saggezza e intelligenza”.

            La fortuna di Nobili è di lavorare a Milano. Dove tutto si può dire e pensare della magistratura di cosiddetta prima linea- sperimentata, per esempio, ai tempi di Tangentopoli e “Mani pulite”  con arresti gestiti in modo scriteriati come quello del povero Gabriele Cagliari, uccisosi pur di uscirne- ma non che abbia la tendenza, diciamo così, a scambiare la “gestione del disordine”, come l’ha chiamata appunto Nobili,  per collusione o trattativa.

            Ecco la parola magica: trattativa. Che è quella necessaria, secondo il valente magistrato milanese, a individuare nei disordini di piazza le motivazioni della protesta per riassorbirla e non farla degenerare in reati. Ma che una trentina d’anni fa tra Palermo e Roma, quando un nugolo di onorati e validi servitori dello Stato finsero di ricorrervi per interrompere qualcosa un tantino più grave, diciamo così, come la stagione delle stragi mafiose e catturarne i responsabili, furono prima sospettati, poi accusati con l’aiuto dei soliti pentiti, processati e condannati in prima istanza per complicità con la mafia nel reato di violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato.  E quando in appello sono stati assolti, e condannati solo i mafiosi che avevano provato davvero a inginocchiare lo Stato insanguinando il Paese, quei magistrati che avevano preso lucciole per lanterne non si sono per niente dati pace.

L’ex magistrato Antonio Ingroia

            Essi, compreso l’ormai ex Antonio Ingroia, mancato presidente del Consiglio per bocciatura elettorale, hanno continuato e continuano a gridare contro la trattativa, pronti con spirito a dir poco suicida a ricorrere alla Cassazione: la stessa che li ha già smentiti confermando l’assoluzione di un altro imputato -l’ex ministro Calogero Mannino- lasciatosi giudicare per sua fortuna col rito abbreviato, sia pure per modo di dire. Egli infatti ha potuto uscirne pulito come meritava otto anni dopo la richiesta di rinvio a giudizio, per non parlare di tutti gli altri processi, sempre di mafia, ugualmente risoltisi a suo favore.

            Mi rendo conto del salto compiuto nel mio ragionamento dalla banale -si potrebbe dire a questo punto- vicenda della dimostrazione no-vax del 9 ottobre a Roma, pur con l’assalto alla sede della Cgil e tutte le complicazioni politiche che ne sono seguite, all’affare addirittura della stagione stragista della mafia di una trentina d’anni fa. Ma non dimentichiamo che la cornice giudiziaria nella quale scorrono i piccoli e grandi drammi del Paese è sempre la stessa perché questo continua ad essere il sistema della giustizia italiana. In cui alla ministra Lamorgese potrebbe accadere di essere accusata di “strategia della tensione” non solo da una furente Giorgia Meloni nell’aula di Montecitorio, com’è avvenuto, ma anche da un inquirente fantasioso seduto alla propria scrivania.

Pubblicato sul Dubbio 

Quei brividi procurati più dalla politica che dalla pandemia

Titolo della Stampa
Giuliano Castellino sabato a Piazza del Popolo

Non so se attribuire i brividi che sto avvertendo più a quell’”Italia a rischio paralisi” realisticamente gridata sulla prima pagina della Stampa –alla vigilia dell’applicazione delle norme sul green-pass obbligatorio nei posti di lavoro, contestate da portuali, camionisti e quant’altri in grado davvero di paralizzare col mancato trasporto delle merci quella stessa economia che il governo vorrebbe liberare- o allo spettacolo offerto alla Camera dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Che ha troppo candidamente motivato con la paura delle reazioni dei “sodali” la rinuncia all’arresto, fermo e quant’altro di uno che in piazza aveva appena indicato sabato scorso la sede della Cgil come un obiettivo della manifestazione di protesta. Ciò significa che in una piazza, appunto, si può dire e ordinare qualsiasi cosa, poi eseguita con tanto di assalto e devastazione, nella certezza di essere al sicuro.

Castellino alla guida del corteo diretto alla Cgil

Ma non solo in piazza quel Giuliano Castellino metaforicamente travestito da Masaniello ha potuto fare il suo comodo. Lo ha fatto anche per strada, guidando personalmente il corteo diretto anche verso la sede della Cgil, persino scortato da uomini della Polizia coi quali ogni tanto qualcuno trattava deviazioni e simili. Anche lì, per strada,  si è quindi avuto paura di fermarlo, quando i rischi -chiamiamoli così- erano inferiori che in una piazza romana affollata come quella del Popolo.

Giorgia Meloni ieri alla Camera

Giorgia Meloni, alla quale non dev’essere parso vero liberarsi dall’assedio mediatico e politico scattato per i suoi rapporti con l’estrema destra di Castellino e camerati, si è buttata a pesce sull’imprudenza -altro che prudenza- della ministra per denunciare il ritorno a qualcosa che si è già visto, anche con le bombe e i morti: “la strategia della tensione”, finalizzata a mettere nell’angolo, di volta in volta, la destra o la sinistra. E a depistare indagini e magistrati per raggiungere l’effetto o i bersagli di turno.

Può darsi, per carità, che la Meloni abbia esagerato col tono e con le parole. Può darsi che la ministra abbia solo subìto, non promosso quella strategia sfociata nell’assalto alla Cgil e nella reazione di certa politica. Secondo cui la responsabilità dei disordini era alla fine riconducibile  alla destra politica della Meloni incapace di prendere dalla estrema destra di piazza tutte le distanze dovute dalla Costituzione antifascista e via comiziando o discorrendo. Ma nei panni di un ministro dell’Interno -e ciò vale naturalmente anche per quelli che hanno preceduto Luciana Lamorgese al Viminale- subire la strategia della tensione è grave quanto promuoverla. Ecco perché vengono i brividi solo a pensarlo.

L’ex presidente del Senato Marcello Pera
Titolo del giornale Domani

L’ex presidente del Senato Marcello Pera, collegato con un salotto televisivo, ha ieri sera esortato giustamente a non chiedere troppo al presidente del Consiglio Mario Draghi, che già di suo fa anche il ministro dell’Economia, degli Esteri, della Salute eccetera per una presunta o reale insufficienza dei titolari di quei dicasteri. E non può ora mettersi a fare anche il ministro dell’Interno nel momento in cui, peraltro, gli viene chiesta “la pacificazione”, nella maggioranza, contemporaneamente e paradossalmente sia da Beppe Grillo sia da Matteo Salvini, appena ricevuto daccapo a Palazzo Chigi. Certo è che non è esagerato il titolo del giornale Domani che dice, dopo averla a lungo difesa dagli attacchi di Salvini: “La ministra Lamorgese adesso è un problema per il governo Draghi”. Spero che non lo rimanga per molto.

Ripreso da www,startmag.it e http://www.policymakermag.it

Mario Draghi alle prese con i talebani di Kabul e…di casa nostra

Nell’agenda politica e persino personale di Mario Draghi c’è qualcosa di ancora più complicato della situazione creatasi in Afghanistan dopo il ritorno dei talebani al potere. Con i quali, pur senza concedere il riconoscimento del loro governo, il presidente del Consiglio in una sessione straordinaria del G20 da lui promossa ha appena cercato di mettere a punto un sistema di relazioni internazionali, magari garantite dalle Nazioni Unite, capace di condizionarne in qualche modo l’azione per garantire sia chi vuole lasciare l’Afghanistan sia chi vuole rimanervi ma non come in una prigione.

L’assalto alla sede della Cgil il 9 ottobre

I talebani, sia pure senza le loro barbe, o almeno non così folte, e ancora -per fortuna- senza i kalashnikov appesi al collo e imbracciati senza sicura, il povero Draghi ce li ha anche in casa: non dico proprio a Palazzo Chigi ma nei dintorni, fuori e persino dentro la sua composita maggioranza. Dove ci sono forze e persino leader, veri o presunti che siano, messisi a disquisire sulle modalità, sui tempi, sulle circostanze in cui dovere o potere sciogliere un movimento di estrema destra –Forza Nuova- colto con le mani nel sacco dell’assalto e della devastazione della sede nazionale del maggiore sindacato italiano. E altrettanto avrebbe probabilmente fatto, o lasciato fare, a Palazzo Chigi e a Montecitorio se i dimostranti non avessero trovato sulla loro strada in assetto di guerra, o guerriglia, le forze dell’ordine colpevolmente mancate -si spera di scoprire per responsabilità particolare di chi- attorno alla sede della Cgil, pur già indicata in piazza come un obiettivo da colpire.

Al netto delle “riflessioni” che Draghi si è limitato ad annunciare sulle modalità d’intervento su Forza Nuova, va detto che il governo di emergenza così fortemente e felicemente voluto dal capo dello Stato, e regolarmente fiduciato dalle Camere, non si meritava di trovarsi nelle condizioni in cui hanno quanto meno contribuito a metterlo anche i leghisti di Matteo Salvini e i forzisti di Silvio Berlusconi. Che hanno praticamente condiviso le contraddizioni, a dir poco, della loro alleata elettorale ma oppositrice del governo Giorgia Meloni nei rapporti con un’area limitrofa alla sua destra. Che cavalca più della stessa Meloni i “disagi”, come vengono eufemisticamente definiti, derivanti dalla necessità delle vaccinazioni antipandemiche e del green-pass obbligatorio da venerdì per accedere ai posti di lavoro.

L’editoriale di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

Nella confusione che anche le componenti di governo e di maggioranza del centrodestra -ripeto- hanno contribuito a creare in questo passaggio peraltro cruciale dell’azione di contrasto alla pandemia, e di soccorso alla salute fisica ed economica di tutta la comunità nazionale,  mi tocca condividere la conclusione dell’editoriale di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Che dice, pur prendendosela alla fine, e come al solito, prevalentemente col governo vittima più che colpevole della situazione: “Finora gli italiani avevano accettato pacificamente le restrizioni e, in gran parte, le vaccinazioni e ora vengono improvvisamente precipitati in una parodia di guerra civile tra fascisti e antifascisti: una strategia della tensione fuori tempo massimo che puzza tanto di giochetto elettorale”. Sullo sfondo in effetti ci sono i ballottaggi comunali di domenica, specie di quello a Roma: la famosa “madre di tutte le battaglie” evocata come in un’autorete dal “guru” dell’alleanza fra Pd e 5 Stelle. Che è il piddino Goffredo Bettini.

Da mani nei capelli gli errori del centrodestra su Forza Nuova

Titolo del Dubbio

Rido -scusatemi la franchezza- alla sola idea che il trentaduenne vice segretario del Pd Giuseppe Provenzano, Peppe per gli amici, già sperimentato coraggiosamente da Giuseppe Conte come ministro, possa essere solo immaginato sulle tracce di Ciriaco De Mita per avere invocato contro Giorgia Meloni un “arco democratico e repubblicano” dal quale tenerla fuori.

De Mita ai suoi tempi d’oro s’inventò nella Democrazia Cristiana l’”arco costituzionale” per tenere fuori dai giochi politici Giorgio Almirante, che guidava il Movimento Sociale. E riusciva a infilarsi ogni tanto nelle partite politiche con i voti segreti in Parlamento, ma persino con quelli pubblici fuori dalle Camere. Fu proprio con i missini, per esempio, che la Dc guidata da Amintore Fanfani si ritrovò nel referendum del 1974 contro il divorzio, perdendolo rovinosamente.

Craxi e De Mita ai tempi dell'”arco costituzionale”

Dell’”arco costituzionale” invocato da De Mita per isolare la destra missina e giocare solo con la sinistra va detto che nel 1985 Bettino Craxi da presidente del Consiglio si dissociò clamorosamente incontrando di persona, e con tanto di comunicato ufficiale, Almirante per verificarne la disponibilità ad appoggiare l’allora vice presidente del Consiglio e presidente della Dc Arnaldo Forlani al Quirinale, alla fine del mandato di Sandro Pertini. E avrebbe continuato su quella strada se lo stesso Forlani non si fosse spontaneamente sfilato dalla partita lasciando che De Mita, segretario della Dc, trattasse con i comunisti per eleggere al primo scrutinio il comune amico e collega di partito Francesco Cossiga, già presidente del Consiglio e in quel momento presidente del Senato.

Poi con Forlani il povero Craxi avrebbe ritentato nel 1992, alla scadenza del mandato di Cossiga, ma di nuovo il leader democristiano, nel frattempo diventato segretario della Dc, dopo due soli tentativi si ritirò sino a spiazzare l’alleato. La situazione politica era peraltro già deteriorata per i primi temporali di Tangentopoli e sarebbe precipitata con l’attentato di Capaci al mitico magistrato antimafia Giovanni Falcone.

L’”arco costituzionale” fu dunque una invenzione di De Mita dagli effetti più tattici che strategici, consentiti dalle presunte vittime, come fu appunto Forlani fortemente osteggiato dal Pci e poi dal Pds sulla strada del Quirinale, ma mai davvero deciso, sino all’ostinazione, a scalare il Colle.

Va inoltre detto che l’arco di De Mita mirava solo ad escludere dal gioco la destra missina, non ad eliminarla dal Parlamento mettendola fuori legge. L’allora leader democristiano non ci provò neppure, come penso non volesse provarci l’altro ieri il giovane Provenzano parlando dell’’”arco democratico e repubblicano” e sapendo che Giorgia Meloni con i suoi fratelli d’Italia ha ormai una consistenza elettorale neppure paragonabile a quella degli anni migliori di Almirante. E’ addirittura ai vertici della classifica dei partiti

Eppure la Meloni ha voluto drammatizzare l’uscita del vice segretario del Pd accusandolo di volere mettere fuori legge la destra da lei guidata, e costringendo Enrico Letta a precisare che il suo partito vuole sciogliere e mettere fuori legge solo -e per me giustamente- l’estrema destra chiamata “Forza Nuova”, colta con le mani praticamente nel sacco nell’assalto alla sede nazionale della Cgil e negli altri disordini di sabato scorso a Roma. Dove soltanto una più accorta dislocazione delle forze dell’ordine ha evitato che fosse assaltato anche Palazzo Chigi.

Draghi da Landini alla Cgil

Perché la Meloni abbia voluto esasperare la sortita del vice segretario del Pd, spingendolo ben oltre il De Mita degli anni d’oro, mi riesce francamente difficile capire, e tanto meno condividere. Ma ancor meno capisco, mettendomi le mani nei capelli, come e perché abbiano deciso più o meno di seguirla le due componenti del centrodestra che fanno parte del governo e della maggioranza, cioè leghisti e forzisti di Silvio Berlusconi, per nulla trattenuti dall’esposizione del presidente del Consiglio Mario Draghi. Che ha voluto solidarizzare come più chiaramente non si poteva con la Cgil e il suo segretario generale Maurizio Landini condividendone la richiesta dello scioglimento di “Forza Nuova”. Cui invece tutto il centrodestra praticamente resiste mescolando questioni di procedura con questioni di principio. E di fatto condividendo il sospetto della Meloni, e di Ignazio La Russa, che quella formazione di energumeni dell’estrema destra sia stata lasciata vivere e forse persino crescere negli anni passati, magari anche quando La Russa era ministro, apposta per strumentalizzarne le imprese.

Una manifestazione di Forza Nuova

Non capisco, e tanto meno condivido, neppure la decisione del centrodestra di non partecipare, pur avendo solidarizzato pubblicamente anch’esso con la Cgil, prima ancora della visita di Draghi a Landini, alla manifestazione di sabato promossa dai sindacati. Essa ha l’inconveniente -d’accordo- di coincidere col silenzio elettorale dei ballottaggi comunali del giorno dopo. Ma per evitare che essa si traducesse o rischiasse di tradursi in una violazione, peraltro ormai abituale per tanti versi, del silenzio elettorale bastava e avanzava l’annuncio dell’adesione anche del centrodestra, almeno di quello che partecipa -ripeto- alla maggioranza e al governo di Draghi. Dai cui organi non mi risulta sia arrivato un divieto a quella manifestazione né per ragioni elettorali né per ragioni di ordine pubblico.

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