Le illusioni grilline, di governisti e antigovernisti, sulla guardasigilli Cartabia

            Ridotti come ormai sono alla frutta, trattati persino sul Fatto Quotidiano come stalinisti adusi alla pratica delle epurazioni, evocate in particolare dal vignettista Vauro Senesi in difesa dei pentastellati dissidenti sotto procedimento di espulsione, i cosiddetti governisti grillini si consolano arroccandosi nella difesa della prescrizione breve introdotta dall’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Che dall’anno scorso smette di essere conteggiata, cioè finisce, con qualsiasi sentenza di primo grado, anche di assoluzione, per cui la pubblica accusa ricorrente avrebbe un tipo infinito a disposizione per continuare a tenere sotto processo l’imputato.

            In questo arroccamento i governisti -sempre loro, ma stavolta con la condivisione a sorpresa degli antigovernisti del già citato Fatto Quotidiano con titoletti e commenti del suo direttore in persona, Marco Travaglio- manipolano la nuova ministra della Giustizia Marta Cartabia, ex presidente della Corte Costituzionale, attribuendole la difesa e il salvataggio della riforma Bonafede, chiamiamola così.

            Il salvataggio sarebbe avvenuto, in particolare, con un ordine del giorno concordato in mezz’ora fra la Cartabia e gli esperti di tutti i partiti della nuova maggioranza che, rinviando il problema alla riforma del processo penale, farà ritirare gli emendamenti al decreto legge sulle cosiddette mille proroghe, all’esame del Parlamento per la conversione, su cui renziani e forzisti puntavano prima della crisi dell’ultimo governo Conte per modificare subito la prescrizione breve in vigore -ripeto- da più di un anno.

            Peccato per i governisti, ma anche per gli antigovernisti del Fatto che hanno deciso di coprirne bugie o illusioni, che la notizia diffusa sull’iniziativa della nuova guardasigilli sia semplicemente falsa nella sua parzialità. La faccia nascosta, diciamo così, dell’accordo strappato dalla Cartabia con quell’ordine del giorno che toglie la prescrizione dal convoglio delle mille proroghe è lo sblocco della riforma del processo penale ferma in commissione alla Camera da mesi per il rallentatore, chiamiamolo così, imposto formalmente dai problemi più urgenti imposti dalla lotta alla pandemia.

            Ebbene, quella riforma adesso dovrà procedere, concedendo al massimo un altro mese, da marzo ad aprile, per la presentazione degli emendamenti, perché finalmente si traduca in termini precisi e vincolanti di legge la generica “durata ragionevole dei processi” stabilita nel 1999 da una modifica all’articolo 111 della Costituzione. A quel punto l’imputato avrà davvero una garanzia perché i processi decadranno col mancato rispetto della loro durata massima. E i magistrati che ne risulteranno responsabili dovranno ragionevolmente risponderne, se qualcuno non vorrà soccorrerli come in passato è accaduto, di fatto, con la loro responsabilità civile. Che fu sancita a larghissima maggioranza nel referendum del 1987 e poi disattesa dalla legge ordinaria di disciplina del vuoto creatosi nel codice col risultato referendario.

            L’epoca degli espedienti, dei trucchi, degli imbrogli, comunque li si vogliano chiamare, potrebbe finire davvero con l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi e di Marta Cartabia al Ministero della Giustizia. E’ almeno augurabile. 

 

 

 

 

 

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Fondatore, garante, elevato e ora anche epuratore: il destino di Beppe Grillo

            Più che di espulsioni, annunciate peraltro in un contesto di tale confusione statutaria che dovranno probabilmente occuparsene i tribunali, è tempo ormai di epurazioni sotto le 5 Stelle. Ai 15 senatori ribelli, che hanno negato la fiducia al governo di Mario Draghi e sono finiti con le loro foto su qualche giornale come ricercati, si sono aggiunti i 31 deputati grillini che li hanno imitati a Montecitorio. E sono 46, se sappiamo ancora fare di conto.

            Il povero Marco Travaglio sul suo Fatto Quotidiano non si dà pace. Eppure dovrà darsela perché ho la sensazione che Beppe Grillo da epuratore non si lascerà fermare dalle sue proteste e dalla sua urticante ironia. Che ha già fatto un’altra vittima della mania di storpiare i nomi a persone e cose non gradite. Il Movimento 5 Stelle, per esempio, è diventato sul giornale una volta adorante Movimento 5 Sedie. Che non è male, bisogna ammetterlo, dal punto di vista naturalmente dell’arrabbiatissimo censore, sorpreso da tanto attaccamento “incoerente”, in rosso, alle poltrone del governo e del sottogoverno.

            Da spettatore divertito dei suoi spettacoli, al termine dei quali spesso il comico lo intratteneva a cena e gli anticipava notizie, non osando sospettare che gli desse direttive, Travaglio è ora diventato uno storico di Grillo, scrivendone al passato, ma conservandone comunque una memoria non all’altezza delle sue abitudini di archivista, capace in ogni momento della giornata di citare anche a memoria il casellario giudiziario del malcapitato di turno e una raccolta accuratissima delle sue frasi più celebri, significative, inchiodanti e quant’altro.

            Questa volta il direttore del Fatto Quotidiano è stato surclassato sulla Stampa, nella felice rubrica del Buongiorno, da Mattia Feltri. Che ha restituito a Grillo queste perle degli anni neppure tanto lontani in cui non potevi nominare un partito diverso dal suo MoVimento senza procurargli il voltastomaco. Sentite: “Povero paese dove si discute di alleanze…Noi non ci alleiamo con nessuno…..La demolizione è cominciata, li mandiamo tutti a casa…..Sono io il garante contro la scilipolitizzazione della politica…..alleanze è una parola terribile….non faremo mai alleanze, né a destra né a sinistra….è un principio inderogabile….pensare che faremo alleanze è come pensare che un panda mangi carne cruda, è contro natura….non ci alleiamo, sarà la rete a controllare”. E giù a questo punto un lunghissimo e pur incompleto elenco, temo, dei partiti, partitini, cespugli, movimenti con i quali i grillini si sono alleati in questa legislatura fantasmagorica: un elenco da “pagine gialle”, secondo il titolo felicemente dato al Buongiorno  di questo venerdì 19 febbraio 2021.

            La “sicilipolitizzazione” della politica lamentata a suo tempo da Grillo deriva naturalmente dall’ex parlamentare dipietrista Domenico Scilipoti, Mimmo per gli amici, che conquistò le prime pagine dei giornali nel 2010 contribuendo a salvare l’ultimo governo di Silvio Berlusconi dall’assalto alla baionetta degli amici e seguaci dell’allora presidente della Camera Gianfranco Fini. Che nei mesi precedenti aveva sfidato il Cavaliere a “cacciarlo” dal partito che insieme avevano improvvisato, ma dove l’ambizioso leader della destra aveva preso l’abitudine di condurgli una lotta sordida, sino a cinguettare contro di lui con qualche magistrato in pubblici incontri. In questi giorni Scilipoti è stato visto e sentito nei corridoi del Senato felice di Draghi come Grillo.

 

 

 

 

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Da De Gasperi a Draghi, ma anche dai qualunquisti ai grillini

Anche Mario Draghi, come altri che lo hanno preceduto a sorpresa alla guida del governo senza alcuna provenienza partitica, ha dovuto assistere in educato silenzio alle solerti ricerche dei suoi antenati, o soli padri, nonni e bisnonni. Il più gettonato in questo tutto nel passato è stato Alcide De Gasperi, il cui compito di “ricostruzione” dell’Italia uscita a pezzi dalla seconda guerra mondiale è stato indicato come precedente o modello della ricostruzione del Paese devastato questa volta dalla pandemia. Ma anche dalla crisi dei partiti subentrata alla caduta delle ideologie e al sopravvento della magistratura -e che magistratura, viste le testimonianze e le denunce in corso di Luca Palamara- sulla politica.

Purtroppo non sono abbastanza anziano per vantarmi di avere visto e sentito De Gasperi in Parlamento e a Piazza del Gesù, la sede della sua Democrazia Cristiana, e di tentare quindi un paragone anche visivo e fonico fra lui e Draghi. Posso solo condividere la coincidenza fra le ricostruzioni spettate all’uno e all’altro e la loro comune e lodevole ripugnanza, avendo letto il primo e ascoltato il secondo, alla retorica e alla prolissità.

Fra i due, a dispetto di certe apparenze che potrebbero far pensare il contrario, ritengo che De Gasperi abbia raccolto una eredità migliore di quella  ricevuta da Draghi accettando il compito assegnatogli dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Pur tra le rovine della guerra De Gasperi fu in grado di contare, avendoli sia come alleati sia come avversari, secondo gli sviluppi anche della situazione internazionale, su partiti organizzati e su politici non improvvisati in qualche salotto televisivo ma spesso formatisi nella clandestinità e in prigione per il loro antifascismo. L’antipolitica con la quale egli dovette fare i conti fu quella del commediografo Guglielmo Giannini, che col suo fronte dell’Uomo Qualunque non voleva dalla politica “rottura di scatole”, secondo un famoso slogan, e si fermò nelle elezioni politiche del 1946  al 5,3 per cento dei voti, portando 30 deputati all’Assemblea Costituente. Nelle elezioni successive del 1948 era già sceso al 3,8 per cento. In quelle ancora successive del 1953, dopo avere tentato un aggancio con Palmiro Togliatti, che pure aveva sino al giorno prima definito “verme, farabutto e falsario”, Giannini finì candidato indipendente nelle liste della Dc nella sua Napoli, mancando il seggio E così avvenne nel 1958, sempre nella sua Napoli, ma nelle liste monarchiche di Achille Lauro.

A Draghi invece è capitato di dover fare i conti col comico Beppe Grillo e col suo MoVimento 5 Stelle, cresciuto come un fungo fra il 2013 e il 2018, sino a diventare il partito di maggioranza relativa, come la Democrazia Cristiana nella cosiddetta prima Repubblica e Forza Italia di Silvio Berlusconi o il Partito Democratico di Walter Veltroni e poi di Matteo Renzi nella seconda Repubblica, o forse anche terza, secondo i conti di alcuni politologi che si sentono già sulla soglia della quarta.

Del movimento grillino disinvoltamente passato in meno di due anni e mezzo da destra a sinistra come L’Uomo Qualunque della buonanima di Guglielmo Giannini, l’ex presidente della Banca Centrale Europea ha dovuto ereditare nel suo governo un certo numero di ministri che Giannini non ebbe mai. Ed ha dovuto anche prestarsi ai loro spettacoli, a cominciare dalle secchiate di vernice verde rovesciategli addosso da Grillo in persona per coprire il colore nero precedentemente applicato all’uomo delle banche usuraie, dei poteri “forti” e affamatori del popolo e altre diavolerie del genere.

Comprensivo dei problemi identitari e d’altro tipo ancora dei grillini, Draghi non solo ne ha salvato un po’ di ministri, ma ha dovuto cortesemente elogiare il predecessore a Palazzo Chigi Giuseppe Conte e proporsi per certi versi come un suo continuatore, scommettendo sulla disattenzione delle ritrovate o nuove componenti della maggioranza costituite dall’Italia Viva di Matteo Renzi, dalla Lega di Matteo Salvini, da Forza Italia di Berlusconi e dalla Più Europa di Emma Bonino.

Neppure questo tuttavia è bastato a contenere più di tanto i dissidenti pentastellati che hanno negato la fiducia a Draghi, o gliel’anno accordata in lacrime di sofferenza. E da cui il presidente del Consiglio non è minacciato proprio grazie alle dimensioni della nuova maggioranza che ha potuto raccogliere attorno al suo governo. Il guaio però è che i cosiddetti governisti del MoVimento di Grillo sono così condizionati dalla dissidenza interna da avere infarcito di aggettivi a dir poco equivoci la loro fiducia, sino all’eplosione goliardica del capogruppo al Senato Ettore Licheri. Che ha gridato nell’aula di Palazzo Madama, rivolto direttamente al presidente del Consiglio, che deve aspettarsi da tutto intero il movimento grillino “rotture di scatole”, in un sussulto qualunquistico che non è stato proprio il migliore viatico del governo pur entrato per fortuna nella pienezza dei poteri con la fiducia anche della Camera.

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it del 20-2-2021

I grillini promettono a Draghi di “rompergli le scatole”, parola del capogruppo al Senato

              Per competere a suo modo con i colleghi del  MoVimento che dopo di lui avrebbero parlato o votato come dissidenti contro Mario Draghi -15 su 92 eletti, secondo i calcoli del compiaciuto Fatto Quotidiano–  il capogruppo dei grillini al Senato Ettore Licheri ha definito “vigile”, “attento” e non ricordo come altro ancora l’appoggio della sua parte politica al nuovo governo, come se quella ai due governi precedenti di Giuseppe Conte fosse stata distratta o incauta. Ma, preso dalla foga del discorso, come un avvocato -quale lui è davvero- in un tribunale per difendere il cliente o un pubblico ministero per accusare l’imputato, Licheri ad un certo punto ha buttato il cuore e la parola oltre l’ostacolo e ammonito il presidente del Consiglio che tutto il gruppo 5 Stelle gli avrebbe “rotto le scatole”, testuale.

            Draghi dai banchi del governo, spesosi così bene nel discorso programmatico e nella replica di tono apparso degasperiano a qualche suo estimatore, ha sorriso ma non troppo, spero non cominciando a pentirsi di avere risposto all’appello drammatico del presidente della Repubblica accettando di formare il governo delle emergenze sanitaria, sociale ed economica, svincolato da ogni formula politica giù sperimentata in questa stranissima legislatura. Svincolato sì da ogni formula politica -avrà pensato l’ex presidente della Banca Centrale Europea- ma non dal buon senso. E obiettivamente, non essendosi svolta nell’aula di Palazzo Madama una festa goliardica, ha poco senso accogliere e fiduciare un governo promettendogli di rompergli le scatole. O votandogli una fiducia così sofferta da piangerci sopra, come la pentastellata Cinzia Leone.

            Un uomo come Draghi e un governo come quello così accoratamente chiestogli dal capo dello Stato al termine di una crisi fra le più attorcigliate della storia della Repubblica, che pure ne ha viste di serie e anche drammatiche, come quella dell’estate del 1964 che procurò un ictus all’allora presidente Antonio Segni e aveva indotto il capo dimissionario del governo Aldo Moro ed altri politici di primo piano a dormire per qualche notte fuori casa temendo un colpo di Stato; un uomo come Draghi, dicevo, e un governo come quello che gli è toccato di guidare meritavano un esordio parlamentare migliore. A dispetto delle distanze formali fra i 262 sì, i soli 40 no  e i 2 astenuti proclamati dalla presidente dell’assemblea, occorreva un esordio, diciamolo pure, più serio nel comportamento della forza politica che è la maggiore di quelle rappresentate in Parlamento.

            Con questa forza che perde continuamente pezzi per strada e che per non perderne ancora grida ai quattro venti di essere decisa a rendere dura la vita al governo, rompendogli appunto “le scatole”, il Pd di Nicola Zingaretti, orgogliosamente convinto di essere il vero perno del sistema, ingiustamente penalizzato nei numeri parlamentari, ha appena costituito un “coordinamento” o “intergruppo” a garanzia non si capisce bene, a questo punto, di che cosa.

            E’ vero, come si osservava già alla vigilia della presentazione del nuovo governo alle Camere, che siamo da ieri in Quaresima. E la Quaresima è tempo di penitenza dopo i bagordi del Carnevale, pur penalizzato anch’esso dalla pandemia. Ma la Quaresima è successiva, appunto, al Carnevale. E l’unica appendice, di qualche giorno, consentita dalla liturgia è quella di rito ambrosiano, non romano. Ed è Roma la Capitale d’Italia, coi suoi palazzi istituzionali, non Milano. Dove si può ancora ridere.

 

 

 

 

 

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Sgambetto di Zingaretti e compagni al governo Draghi prima della fiducia

            Curioso, strano, incredibile, come preferite, ma vero: tre degli almeno sette gruppi che costituiscono la maggioranza al Senato, e proprio oggi accordano la fiducia al governo di Mario Draghi, hanno allestito un “coordinamento” o “intergruppo”. Che ha  mandato in brodo di giuggiole i nostalgici di Giuseppe Conte e si è proposto come il nucleo essenziale, pilota e quant’altro dell’esecutivo di “alto profilo”, di emergenza, di unità nazionale, svincolato da ogni formula politica precedentemente sperimentata in questa legislatura e indicato non da un passante davanti al Quirinale ma dal presidente della Repubblica in persona.

            I tre partiti coordinatisi nell’intergruppo sono -in ordine di consistenza parlamentare- il Movimento 5 Stelle, il Pd e Leu, sigla dei liberi e uguali rappresentati nel governo addirittura dal ministro della prima emergenza, la Salute, che è Roberto Speranza. Ebbene, nessuno di questi tre partiti è al suo interno unito, per cui già si capisce poco come possano unirsi fra di loro. Del Movimento 5 Stelle cronisti e retroscenisti stanno contando da giorni quanti rifiuteranno la fiducia al nuovo governo e quanto potrà mancare ad una scissione, dopo tutte le uscite più o meno solitarie già verificatesi da quelle parti. Del Pd lo stesso capogruppo al Senato Andrea Marcucci, che ha firmato il documento di annuncio del coordinamento, ha recentemente esposto l’opportunità o la necessità di un congresso per chiarirsi le idee. Egli  è inoltre sospettato di giorno e di notte di connivenza con l’odiato Matteo Renzi, che dovrebbe essere, ad occhio e croce, il principale avversario dell’intergruppo: quello che “irresponsabilmente” avrebbe interrotto la  “magnifica” esperienza di Conte a Palazzo Chigi. Dei liberi e uguali, infine, basterà ricordare che Nicola Fratoianni, il segretario della componente “Sinistra italiana”, ha già annunciato il voto contrario al governo Draghi.

            Come possa un coordinamento siffatto funzionare da colla e stimolo al tempo stesso per il governo non si riesce francamente a capire. E non sarà certamente Nicola Zingaretti, che più di tutti ha voluto questo curioso passaggio, a poterlo spiegare, se mai lo avesse capito almeno lui. Non sarà un “governo ombra”, come ha spiegato ottimisticamente Federico Geremicca sulla Stampa, ricordando la partecipazione dei coordinati al governo in carica, ma poco gli mancherà. Sarà quanto meno un’occasione continua di distinzione e di divisione dal resto della maggioranza. Sarà di fatto un boicottaggio al governo rispetto alle finalità assegnategli dal capo dello Stato. O sarà, secondo la funerea immagine del Foglio, il modo per “prendere le misure a Draghi”, come si fa col morto per allestirgli la bara.

            A godere davvero rimane e rimarrà il solito Fatto Quotidiano, felice che ci sia “vita nei giallorosa” e che Conte abbia “una sponda”, in attesa del ritorno per trasformare in realtà il quartetto del fotomontaggio pubblicato sulla prima pagina del giornale di Marco Travaglio, cioè il mancato Conte 3. Che cosa non farei per essere una mosca e ascoltare e vedere le reazioni di Mattarella, costretto almeno in questa fase al silenzio in pubblico, avendo appena chiuso, per quel che lo riguardava, una crisi arrivata sul suo tavolo, peraltro, con un ritardo inaudito. Che gli ha quanto meno complicato il lavoro.  

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Il nuovo governo rimane senza scii sulla neve della Quaresima

              Certo, sarebbe di una gravità inaudita se fosse vero il sostanziale boicottaggio al governo appena nato che Fabrizio Roncone ha attribuito sulla prima pagina del Corriere della Sera a Walter Ricciardi, consulente ormai celebre del ministro della Salute. Che, deluso per la mancata nomina al posto del confermato Roberto Speranza, avrebbe indotto in errore, o a qualcosa che gli assomiglia molto, il titolare del dicastero facendogli ribloccare gli impianti sciistici, col consenso del presidente del Consiglio, come misura di sicurezza sanitaria nell’emergenza pandemica, mentre stavano per riaprirsi. E provocando a Draghi e alla sua “squadra” appena insediata “il grande freddo” su cui ha titolato il manifesto, o quella rovinosa caduta di Super Mario sugli scii immaginata da Makkox sul Foglio, per non parlare della “rissa dei migliori” con la quale il solito Fatto Quotidiano si è affrettato a sfottere il governo di “alto profilo” voluto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

            Per carità di Patria, con la maiuscola, e non solo dell’ex presidente della Banca Centrale Europea appena approdato a Palazzo Chigi dopo due anni e mezzo di governi di Giuseppe Conte, voglio sperare che una volta tanto Roncone abbia raccolto e rilanciato un refolo fasullo nei palazzi romani del potere: palazzi anche delle chiacchiere, delle maldicenze, degli sgambetti e di una specie di Carnevale continuo, anche se quello vero, da calendario, è ormai agli sgoccioli davvero. E proprio per un capriccio di calendario a Draghi sta per capitare di presentarsi al Parlamento per la fiducia nel giorno di mercoledì delle ceneri, dopo l’odierno martedì grasso.

           Sarà Quaresima anche per il governo appena insediato quella che sta per cominciare, e di cui non basta consolarsi dicendo evangelicamente, come faceva la buonanima di Amintore Fanfani con gli amici che metteva in castigo o con gli avversari che piegava, che “dopo arriverà la Resurrezione”?  Disse così, per esempio, al suo ancora “delfino” Arnaldo Forlani detronizzandolo personalmente dalla segreteria della Democrazia Cristiana nel 1973, dopo avere svuotato il congresso alle porte in una riunione di capicorrente del partito disinvoltamente convocata nella sua residenza istituzionale di presidente del Senato, a Palazzo Giustiniani. La Quaresima di Forlani, pur intramezzata da incarichi di governo di prestigio, compreso un breve passaggio a Palazzo Chigi come presidente del Consiglio e uno più lungo come vice presidente con Bettino Craxi, durò ben 16 anni. Forlani infatti “risorse” come segretario del partito, ormai in rotta con Fanfani, solo nel 1989.

            Chi scommette sulla Quaresima di Draghi, nel senso che gliela augura piena di difficoltà insormontabili e rovinose, e gioca al lotto i numeri che possono rappresentare le polemiche scoppiate sull’affare delle nevi tra leghisti e Ministero della Salute, e dintorni, scherza comunque col fuoco nelle condizioni di emergenza in cui si trova il Paese. E si illude, a dir poco, di potere accorciare un’altra Quaresima: quella di Giuseppe Conte, che è alle prese anche in veste di “federatore” e non so cos’altro col problema ormai cronico dei suoi amici o referenti grillini. E’ il problema della loro identità perduta, se mai ne hanno avuta una davvero.

Tutti i colori usati per verniciare il Mario Draghi di comodo

Ma di quanti colori deve lasciarsi dipingere Mario Draghi per piacere o dispiacere, secondo i gusti e le circostanze, a chi l’osserva nella sua nuova veste di presidente del Consiglio e ha fretta di giudicarlo?

Il verde è notoriamente il colore che gli ha rovesciato addosso a secchiate Beppe Grillo per farlo piacere agli ormai eternamente divisi e inquieti militanti, portavoce e quant’altro del MoVimento 5 Stelle. A molti dei quali il “garante” ed “elevato” fondatore non riesce a far dimenticare gli insulti da lui stesso rovesciatigli addosso negli anni scorsi, quando forse l’allora presidente della Banca Centrale Europea era secondo, nella scala del disprezzo grillino, solo a quei giornalisti di cui il comico diceva che voleva mangiarli per provare poi “il gusto di vomitarli”.

Il bianco è il colore applicatogli sul Fatto Quotidiano da Fabrizio D’Esposito evocando la quasi premonitrice partecipazione all’ultima edizione del meeting di Comunione e Liberazione: quella in cui Draghi scaldò il cuore dei giovani proteggendoli dalla rovina cui sarebbero stati destinati con la pratica del debito “cattivo”. Cui si era sino ad allora abbondantemente ricorsi per impiegarlo in mance ed assistenza, anziché in investimenti produttivi.

Il bianco è anche il colore della tonaca di Papa Francesco, il più lesto nel cogliere l’occasione della temporanea disoccupazione, diciamo così, di Draghi chiamandolo a far parte della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

Ma non dimentichiamo che sotto o prima della tonaca pontificia di Jorge Mario Bergoglio c’è stata, e metaforicamente c’è ancora, la tonaca nera del gesuita. Che qualcuno si è affrettato a immaginare decisiva anche per la formazione di Draghi, che ha studiato appunto dai gesuiti. Glielo ha appena ricordato il debenedettiano Domani dandogli del “tecnocrate ignaziano” -naturalmente da Ignazio de Loyola, non da Piero Ignazi, il politologo cui il giornale di Carlo De Benedetti ha affidato l’analisi di Draghi- e spiegando in un titolo tutto nero di prima pagina che il nuovo presidente del Consiglio “dai gesuiti e dalla Dc ha imparato che un vero leader orienta la storia senza la pretesa di guidarla”.

La prosa di Domani è tuttavia arte pura di fronte a quella del già citato Fatto Quotidiano, dove Massimo Fini si è improvvisato teologo ed ha arruolato Draghi fra i “cattolici” alla Matteo Renzi, mobilitatisi dopo la destinazione all’Italia dei 209 miliardi di euro dei fondi comunitari della ripresa per toglierli dalla disponibilità di Giuseppe Conte e passarli all’ex presidente della Banca Centrale Europea. “Quei miliardi -ha scritto Fini- facevano gola” sin dal primo momento “a molti, banchieri, finanzieri, persone irreprensibili perché vestono in giacca e cravatta e pranzano all’ora di pranzo e cenano all’ora di cena”: mica quel disordinato ma “non moralmente corruttibile” Conte, abituato all’ora di cena non a mangiare ma a diffondere conferenze stampa e altri messaggi al popolo pendente dalle sue labbra.

Ma dove il “teologo” Fini ha dato il massimo, al minuscolo, di sé è il passaggio dell’articolo in cui, prendendosela anche con la fede dichiarata e praticata dal suo amico e direttore Marco Travaglio, pur con la premessa che sono letteralmente “cazzi tuoi”, ha scritto che “il cattolicesimo” nella “potenza assunta negli ultimi decenni in Italia non ha nulla a che vedere col cristianesimo, cioè coll’affascinante borderline di Nazareth”. E così Draghi è stato avvisato di continuare pure ad andare a messa nei giorni comandati, ma di togliersi dalla testa di essere perciò un buon cristiano.

Con queste premesse teologiche e di costume il corsivista del Fatto Quotidiano è riuscito a spiegarsi addirittura “la storia -sentite- di quel golpe di Stato mascherato che ha portato al governo Draghi”. Di cui -sentite anche questo- si capisce a questo punto come “pantografi sostanzialmente quello precedente e tenga insieme tutti, il diavolo e l’acqua santa, però con la decisiva esclusione di Conte (oltre che, per ovvi interessi berlusconiani, di Bonafede)”. Nessuna parola di comprensione o condivisione è stata spesa purtroppo per le lacrime sfuggite all’uscita da Palazzo Chigi al portavoce Rocco Casalino.

Per giustificare il suo processo a un Draghi in fondo anche golpista, o comunque “fruitore finale” di un colpo di Stato, come di Silvio Berlusconi un suo difensore disse a proposito delle escort, vere o presunte, che riceveva a casa, Fini si è richiamato alla famosa convinzione della buonanima di Giulio Andreotti che “a pensar male si faccia peccato, ma ci si azzecchi quasi sempre”. Eppure del “divo Giulio” il pur esigente Fini ha dovuto riconoscere, testualmente, che “per competenza, conoscenza dell’Italia, sia in senso storico che amministrativo, intelligenza, arguzia e stile sta cinque spanne sopra i nani di oggi e in qualsiasi altro paese europeo sarebbe stato un grande uomo di Stato, ma in Italia ha dovuto essere una sorta di ircocervo, metà uomo di Stato e metà, forse, delinquente”.

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Anche Mario Draghi finisce sulla giostra continua dei golpisti

              Se il golpismo, come si legge sui dizionari della lingua italiana, è “la tendenza a risolvere con un colpo di Stato contraddizioni e controversie politiche”, la golpemania – termine ignorato dai dizionari- può essere intesa come la tendenza, anch’essa, a immaginare e denunciare un golpe, appunto, dietro a qualsiasi evento politico sgradito o soltanto non condiviso. E’ una giostra sempre in azione nella politica italiana, dove scende e sale anche in corsa, come in un circo, la gente più disparata.

            Non appena se n’è delineata la sagoma nella lunga crisi appena chiusa con la formazione del governo di Mario Draghi, e aperta solo formalmente il mese scorso, essendo di fatto strisciante già dall’autunno del 2020, sono cominciati i mormorii sui soliti “poteri forti” smaniosi di impadronirsi dei fondi comunitari della ripresa. Che sarebbero stati destinati all’Italia non da una Unione Europea finalmente tornata, sotto la spinta della tragedia pandemica, all’originario spirito solidaristico dei suoi fondatori, ma dall’abilità negoziatrice e altre virtù ancora di Conte. Cui anche per questo, e non solo per i premi e gli aumenti ricevuti, il personale avrebbe rivolto applausi di ammirazione e di ringraziamento all’uscita da Palazzo Chigi.

            E’ dall’emissione di quel metaforico assegno di 209 miliardi di euro firmato o garantito dalla cancelliera tedesca Angela Merkel che “il catto boyscout Matteo Renzi -ha scritto Massimo Fini sul Fatto Quotidiano, e dove sennò? – comincia a tirare la corda e fare il suo sordido lavorio per abbattere Conte”, facendo “gola quei miliardi a molti banchieri, finanzieri, persone irreprensibili perché vestono in giacca e cravatta, pranzano all’ora di pranzo e cenano all’ora di cena”. E vanno spesso a messa da buoni cattolici, come fa pure il direttore del Fatto Marco Travaglio, al quale l’irriverente collaboratore ha rimproverato di non avere mai avuto dubbi sulla sua “fede”, di non avere mai riflettuto “sulla potenza” assunta “negli ultimi decenni in Italia” da un “cattolicesimo che non ha nulla a che vedere col cristianesimo, cioè coll’affascinante borderline di Nazareth”. “Adesso -ha concluso Fini- abbiamo uno Stato prigioniero dell’ipocrisia cattolica, dei catto-boy scout, dei catto-banchieri, l’unica vera e sola Santissima trinità”. Gli sono subito andati dietro sullo stesso Fatto il buon Fabrizio d’Esposito dando a Draghi del “chierico vagante” e il giornale debenedettiano Domani del “gesuita” e del “tecnico ignaziano”, da Ignazio di Loyola, naturalmente.

            Eppure, all’inizio del suo articolo, volendosi richiamare alla famosa convinzione di Giulio Andreotti che “a pensare male si fa peccato, ma ci si azzecca quasi sempre”, Fini aveva scritto del compianto esponente del cattolicesimo italiano come dell’uomo “che per competenza, conoscenza dell’Italia, sia in senso storico che amministrativo, intelligenza, arguzia e stile sta cinque spanne sopra i nani di oggi e in qualsiasi altro Paese sarebbe stato un grande uomo di Stato, ma in Italia ha dovuto essere una sorta di ircocervo, metà uomo di Stato e metà, forse, delinquente”.

            Ma, oltre che con la buonanima di Andreotti, il povero Fini si è inconsapevolmente ritrovato nel suo ragionamento, o nella sua golpemania, come dicevo all’inizio, col super-odiato Silvio Berlusconi, convinto di essere stato defenestrato da Palazzo Chigi nel 2011, pure lui come Conte in questo 2021, con un colpo di Stato.

 

 

 

 

 

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Dietro la campanella d’argento di Palazzo Chigi passata da Conte a Draghi

            Abituati almeno nell’ultimo decennio al festoso Silvio Berlusconi, che nel 2011 passò la campanella del Consiglio dei Ministri a Mario Monti come se fosse un giocattolo, o all’imbronciato Enrico Letta, che gliela passò frettolosamente a Matteo Renzi volendo manifestare il più chiaramente possibile il fastidio, quanto meno, procuratogli da quel canzonatorio invito alla “serenità” formulatogli nei giorni precedenti da chi stava lavorando per succedergli, è stato un po’ di conforto il ritorno alla normalità col passaggio emblematico delle consegne a Palazzo Chigi fra l’ormai ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il nuovo, Mario Draghi.

            Normale, come segno di buona educazione e anche di riconoscenza per molti di essi, che avranno magari ricevuto dall’interessato promozioni, aumenti di stipendio e altre umanissime cortesie, mi è sembrato pure l’applauso di commiato dei dipendenti di Palazzo Chigi, dalle finestre delle loro stanze o corridoi, al Conte in uscita con la fidanzata Olivia, rigorosamente ed elegantemente avvolta in un cappotto nero.

            Come al solito, a macchiare metaforicamente l’abito dell’ex presidente del Consiglio sono stati i suoi sostenitori più solerti o accaniti come quelli del Fatto Quotidiano. Che gli hanno dedicato un titolo…napoleonico, rappresentandolo già impegnato a “preparare il ritorno”, come Napoleone dall’isola d’Elba, ma si spera -per Conte- con esito diverso dalla lontanissima e fatale isola di Sant’Elena. La solerzia gioca sempre brutti scherzi. Infatti Marco Travaglio in persona ha sognato il governo Draghi- ribattezzato Draganella non so se fargli fare rima più con la maschera goldoniana dell’astuto Brighella o con la mafiosità dei Bagarella siciliani- come quello post-napoleonico della “restaurazione” a Vienna, con tanto di indumenti e maschere d’epoca.

            Il vignettista Riccardo Mannelli, sempre sul Fatto Quotidiano, in una gara di spiritosaggine col suo direttore, ha scherzato sulle dimensioni fisiche del ministro forzista Renato Brunetta, cui Draghi ha restituito la riforma della pubblica amministrazione nella speranza che questa volta riesca a farla davvero. Ne è venuto fuori un quadro in bianco così titolato: “Aveva un così alto profilo che nessuno riusciva a inquadrarlo”. Ma va detto che, una volta tanto smarronando pure lui, cioè facendo prevalere il dileggio sulla satira o sullo scherzo, Emilio Giannelli sul Corriere della Sera è stato ancora più pesante e specifico sistemando nella sua vignetta il ministro veneziano in prima fila e facendolo sfottere, sempre sul tasto dell’”alto profilo”, personalmente da un Draghi a colloquio col presidente della Repubblica.

            Anche questa ormai è diventata la serietà del dibattito politico in Italia, del resto all’altezza solo della comicità, vera o presunta, del “garante”, “responsabile”, “elevato” e non so cos’altro del quasi partito ancora più rappresentato nel Parlamento eletto quasi tre anni fa, e che ha prodotto altrettanti governi. Dall’ultimo dei quali naturalmente, al contrario dei “ribelli” grillini, ma forse anche di  quelli che più realisticamente hanno preferito il potere all’opposizione, abbiamo il diritto -stavo per dire il dovere- di aspettarci qualcosa di assai diverso. E ciò a cominciare dall’esordio parlamentare per la fiducia, fra qualche giorno.

 

 

 

 

 

 

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Il governo Draghi finalmente è fatto. E pazienza per chi è rimasto deluso

            “Tutto qui?”, si sono chiesti al Fatto Quotidiano di fronte alla lista dei ministri del governo di Mario Draghi facendone un titolo in prima pagina che equivale naturalmente ad una bocciatura. Sì, tutto qui, cari signori del Fatto, che avevate puntato sin dai primi tuoni della crisi su un modesto rimpasto del secondo governo di Giuseppe Conte, e infine su un terzo governo Conte in cui le due ministre renziane che avevano osato dimettersi dal precedente fossero sostituite da due transfughi o transfughe dell’opposizione in rappresentanza dei mitici “volenterosi”. Che il presidente dimissionario del Consiglio si era proposto di arruolare nella maggioranza per “rompere le reni” a Matteo Renzi, come lo sventurato Benito Mussolini si propose di fare con la Grecia.

            Al posto di quello striminzito terzo governo Conte, che avrebbe dovuto continuare a barcamenarsi al Senato con numeri ballerini, e rimanere appeso alle bizze e alle risse interne del MoVimento 5 Stelle, è nato dalla crisi -credo- più lunga e tortuosa della storia della Repubblica, più ancora di quella dell’estate del 1964, quando l’allora vice presidente del Consiglio Pietro Nenni annotò sui suoi diari “rumori di sciabole”, un governo di ampia maggioranza e sostanziale unità nazionale. Dalla quale si è autoesclusa solo Giorgia Meloni con i suoi “fratelli d’Italia”. E’ nato grazie alla lungimiranza del capo dello Stato Sergio Mattarella e del presidente del Consiglio Mario Draghi. Che solo Conte aveva scambiato e rappresentato al pubblico come un uomo “stanco” degli otto anni trascorsi alla presidenza della Banca Centrale Europea, e magari ulteriormente sfinito dall’incarico nella Pontificia Accademia delle Scienze Sociali datogli da Papa Francesco.

            Marzio Breda, il quirinalista del Corriere della Sera, ha raccontato che, accomiatandolo dopo l’udienza di chiusura della crisi, Mattarella ha fatto gli auguri a Draghi scusandosi per “l’impegno molto gravoso” chiestogli con l’incarico e la nomina a presidente del Consiglio. E ciò, ricordiamolo, nel pieno di tre emergenze -sanitaria, sociale ed economica- che non potevano certo essere gestite da un governo paralizzato come si era ridotto il secondo di Conte, o da una lunga e rischiosa campagna elettorale in tempi di pandemia. “Grazie, di auguri ho bisogno”, ha risposto Draghi. “Crepi il lupo”, ha poi detto lo stesso Draghi ai fotografi che, sotto la pioggia, gli avevano gridato: “In bocca al lupo, presidente”. Per fortuna al Fatto Quotidiano non li hanno subissati di insulti per il loro presunto “lecchismo”. Né avevano più il tempo di inchiodarli a qualche corsivo.

            Può darsi, per carità, che Tullio Altan su Repubblica abbia esagerato nel mettere ai piedi di Draghi gli scii, peraltro in questi giorni di Olimpiadi invernali a Cortina d’Ampezzo, e a immaginarlo tutto in discesa, sia pure con i brividi. Sulla stessa Repubblica, d’altronde, pur con spirito opposto allo stupore critico del Fatto Quotidiano, di equilibrio e non di dileggio, Stefano Folli ha dedotto dalla lista dei ministri mista di tecnici e politici, ma di prevalenza politici sul piano numerico, che quello formato da Draghi “non è un governo esplosivo e rivoluzionario. Non è un governo che abbaglia. O che soddisfa -ha scritto sempre Folli- tutte le attese, davvero troppe, che si erano create” col “desiderio diffuso di assistere a un totale rivolgimento di persone e di attitudini, come se stessimo per entrare in una nuova era”. Ma qualcosa, via, è cambiato. E davvero.

 

 

 

 

 

 

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