Ciò che non si vuole ma si deve assolutamente sapere sul covid

Riporto un breve passo dal libro “Spillover” di David Quammen, Adelphi, 2014. L’autore è un giornalista scientifico che ha lavorato sul campo assieme ad epidemiologici, virologi e medici in occasione di diverse endemie, virali e batteriche,  che si sono succedute dal 1994 in varie parti del mondo. Il testo si riferisce all’endemia da corona virus SARS-CoV-1, verificatasi nel 2003 in Asia ed altre parti del mondo:

“I sintomi della malattia respiratoria, indotta dal virus SARS-1, diffondendosi per via aerogena, compaiono prima che il contagio raggiunga il massimo dell’infettività, e non dopo. Questo permise la diagnosi precoce di molti casi che furono isolati. o ricoverati prima che grandi quantità di virus venissero disperse. Tale comportamento ebbe enorme importanza nell’epidemia. Gli infettati in genere stavano troppo male per andarsene in giro, vi fu un alto tasso di infezione secondaria nel personale sanitario. L’influenza ed altre malattie si comportano in modo opposto: il picco di infettività precede l’insorgere dei sintomi di qualche giorno. Solo per questo motivo potemmo congratularci per l’efficacia delle contromisure. La storia avrebbe altrimenti avuto esiti più tragici. E’ ipotizzabile che la prossima grande epidemia, il cosiddetto big-one, si conformerà al modello perverso dell’influenza e potrà spostarsi da una città all’altra sulle ali degli aerei, come un angelo della morte.”

Ora, noi tutti siamo in un  “big-one” da SARS-CoV-2. Io ritengo che il sistema sanitario, di cui ho fatto parte, si è fatto trovare impreparato ad inizio anno, nonostante la conoscenza particolareggiata dell’epidemia in Cina. Adesso continua a farsi trovare impreparata. La campagna vaccinale anti influenzale è in condizioni critiche. Pure la  campagna capillare di tamponi (individuare gli infettati asintomatici e sintomatici) è in condizioni critiche.

Abbiamo un esercito dotato di professionalità e strutture sanitarie. Si possono affidare  ad un generale i mezzi e l’autorità di perseguire questo scopo in breve termine ? Questo non è un problema di privacy e libertà negate. Questo è un problema di salute pubblica. Ogni singolo cittadino deve avere tutelata la propria salute.

Bisogna sapere:

1) La mascherina chirurgica serve per bloccare l’emissione da bocca e naso del virus di cui potremmo essere portatori inconsapevoli. Non è una protezione significativa  nei confronti del materiale emesso oppure aerosolizzato dalle fonti di contagio. Questa ulteriore protezione è necessaria per coloro che lavorano nelle strutture sanitarie. Portare tutti la mascherina chirurgica vuol dire collaborare a bloccare il contagio, quindi a vantaggio di tutti e nello stesso tempo. Voglio dire che fumare, cantare, ballare, mangiare, all’aperto e/o senza distanza e necessariamente senza mascherina, sono attività utili per diffondere il contagio. Se vogliamo una misura di protezione individuale dalla fonte di infezione, dobbiamo isolarci o essere perennemente distanziati.

2) I test per gli anticorpi contro il SARS-2 non sono affidabili  perché la risposta immunitaria al virus è variabile da soggetto a soggetto e compare a settimane di distanza dal contagio e/o malattia (Infectious Diseases Society of America – https://bit.ly/33qSjK2 Clinical Infectious Diseases, online September 12, 2020).  Questi test servono solo per studio diagnostico in casi clinici complessi e per valutazioni statistiche da parte degli istituti per l’igiene pubblica.

3)  I tamponi sono test che cercano direttamente il materiale virale. Pur non essendo molto sensibili (Fang Y et al. Sensitivity of chest CT for COVID-19: comparison to RT-PCR. Radiology 2020; 200432. In Press.), consentono di individuare, in misura ancora significativa,  le persone contagiate per isolarle/curarle.

                                                                                 Salvatore Damato*

 

*professore associato di malattie respiratorie. salva.damato@libero.it

 

A teatro, in ultima fila, per assistere allo spettacolo dell’emergenza

            Francesco Tullio Altan non poteva rappresentare meglio sulla prima pagina di Repubblica la situazione, non so se più comica o drammatica, con quel Cipputi in pantaloni e maglione che esulta, a braccia sollevate e pugni chiusi, non per una certezza ma per una domanda di fronte a ciò che accade attorno a noi, tra emergenza sanitaria e politica: “Ce la faremo ??”.

            Il governatore della Campania Vincenzo De Luca, in versione autentica e non imitato da Maurizio Crozza, dispone di fronte all’esplosione virale nella sua regione, fra l’altro, la chiusura momentanea delle scuole e la ministra grillina del settore, Lucia Azzolina, sostenuta da tutto intero -una volta tanto- il suo movimento, protesta reclamando riunioni, sconfessioni e quant’altro. E ancora di più si dimena quando la informano che il segretario del Pd Nicola Zingaretti non critica ma “comprende” la scelta del suo collega di partito e omologo della Campania, essendo lo stesso Zingaretti anche governatore della regione Lazio, peraltro limitrofa.  Ebbene, c’è voluto un vignettista -Stefano Rolli sul Secolo XIX- per spiegare alla signora ministra inviperita che se “il virus non si prende a scuola”, come lei grida appendendosi a dati e quant’altro, “non è un buon motivo per portarcelo”.

            A Montecitorio è scoppiato un putiferio politico raccontato dal manifesto magistralmente in prima pagina in  sole 185 battute:  “Italia Viva fa saltare alla Camera la riforma sul voto ai 18enni per il Senato. Il Pd a Conte: ora un chiarimento di maggioranza ai massimi livelli. Palazzo Chigi teme l’implosione M5S”. Che non è l’acronimo sbagliato dell’estinto Movimento Sociale Italiano ma quello vero del MoVimento 5 Stelle di Beppe Grillo fondatore, garante, “elevato” e non so cos’altro ancora, nato per essere liquidamente di protesta e refrattario a diventare solido come un partito normale, e per giunta di governo.

            Ma perché Conte teme “l’implosione” dei grillini in un vertice di chiarimento, di “verifica” o comunque lo si voglia chiamare: anche “tavolo”, come dice Matteo Renzi pensando anche al cosiddetto rimpasto che potrebbe o dovrebbe seguire spostando ministri, scaricandone qualcuno e nominandone altri di nuovi? Perché tra i piedi della verifica o simile c’è, fra l’altro, un problema che si chiama Mes, acronimo del Meccanismo europeo di stabilità, o fondo-salva Stati. Da cui potremmo prendere in prestito decennale più di 35 miliardi di euro a tasso vicino allo zero per potenziare il sistema sanitario e indotto messi a durissima prova da un’epidemia che sta per farci importare dalla Francia il coprifuoco, e ci obbligherà forse a chiuderci a chiave in casa a Natale: davvero, non per qualche scherzo del vignettista Sergio Staino sulla Stampa.

Ebbene, di fronte all’uso sollecitatone dal Pd nella maggioranza, leggete qui la linea grillina sul Mes esposta o dettata oggi sul Fatto Quotidiano da Marco Travaglio nel dispositivo, diciamo così, della sua sentenza: “Il Mes, oltre a non servire a una mazza, non ha più neppure alcuna convenienza”. Questo Travaglio rischiamo di trovarcelo governatore della Banca d’Italia, cacciando a calci nel sedere quello in carica che ha recentemente sollecitato pure lui l’uso di quella linea europea di credito.

            A tutto questo spettacolo è raccomandabile assistere in ultima fila, in modo da poter cercare di scappare dal teatro in tempo per non essere travolti dal suo crollo. Ma ce la faremo, con i due punti interrogativi di Altan ??

La politica si riscatta davanti alla morte improvvisa di Jole Santelli

            Per una volta, a sorpresa, dopo decenni di barbarie, di parole e gesti fuori senno, la politica è stata all’altezza dell’umanità che dovrebbe invece ispirarla e caratterizzarla sempre. La costernazione è stata davvero tanta, e di ogni parte politica, per la morte improvvisa, a 52 anni neppure compiuti, di Jole Santelli. Che meno di dieci mesi fa era stata eletta presidente della sua regione, la Calabria, vincendo la penultima battaglia della sua vita, breve ma intensa, e da anni segnata da una malattia che lei aveva saputo affrontare con la solita energia, e fiducia. Se n’è andata una politica e persona davvero perbene, leale e generosa.

            Di origini socialiste, sempre partecipe di tutte le occasioni e iniziative di ricordo e celebrazione di Giacomo Mancini, poco più che ventenne vide nella Forza Italia fondata da Silvio Berlusconi il rifugio politico ed elettorale migliore per gli orfani del partito del cuore travolto dalla tempesta giudiziaria e politica del 1992/93: il Psi. E rimase fedele a Berlusconi nella buona e nella cattiva sorte politica, negli anni del governo e in quelli di opposizione, nei successi e nelle sconfitte, nelle iniziative felici e negli errori, che non sono certamente mancati riducendo Forza Italia alle attuali dimensioni. Che non impedirono tuttavia a Jole Santelli il successo nelle elezioni regionali dello scorso mese di gennaio, in una regione -la sua- dove  il partito di Berlusconi riuscì direttamente o indirettamente, con liste collegate, ad avvicinarsi al 30 per cento dei voti.

            Più volte parlamentare e sottosegretaria nei governi dello stesso Berlusconi e di Enrico Letta, la Santelli conquistò nelle elezioni regionali calabresi a capo della coalizione di centrodestra quasi 450 mila voti, pari al 55,29 per cento, distanziando di 25 punti il più diretto concorrente: Filippo Callipo, del centrosinistra. 

Il governo Conte si è salvato al Senato per il rotto della cuffia

            Si può comprendere e persino condividere, viste le condizioni di emergenza virale in cui ci troviamo, col rischio del coprifuoco da importare dalla Francia e del confinamento natalizio, il sospiro di sollievo del governo e della maggioranza per la scampata sconfitta al Senato nella votazione sul cosiddetto scostamento di bilancio per via di ulteriori 22 miliardi di euro di deficit. Occorrevano almeno 161 voti, equivalenti alla maggioranza assoluta dell’assemblea, e il governo ne ha ottenuti 165: “addirittura” quattro in più. Giustamente il ministro (grillino) dei rapporti col Parlamento Federico d’Incà al banco del governo, al posto del presidente del Consiglio Giuseppe Conte impegnato a Capri, ha applaudito alla proclamazione del risultato.

            Poi Conte, tornato da Capri, e altri ministri hanno potuto serenamente partecipare all’ormai tradizionale incontro conviviale al Quirinale con un rinfrancato -pure lui- presidente della Repubblica in vista del Consiglio Europeo. Cui il presidente del Consiglio è in grado di partecipare senza l’inconveniente, diciamo così, di una sconfitta parlamentare dimostrativa della crisi latente in cui da tempo vive una maggioranza assai composita. Il cui principale partito o movimento, quello delle 5 Stelle, è diviso tra governisti e antigovernisti, sull’orlo di una scissione.

            Se è comprensibile e -ripeto- persino condivisibile il sollievo, non lo è per nulla il tono enfatico del presidente del Consiglio. Che da Capri e poi anche a Roma ha parlato persino di “ampio riscontro della tenuta della maggioranza”, pur nell’abituale, cronica ristrettezza dei numeri del Senato. Quell’”ampio” stona di fronte ai quattro voti in più ottenuti rispetto al minimo necessario. Dei quali due provenienti dai senatori a vita Mario Monti ed Elena Cattaneo. Che hanno per carità, tutti i diritti degli altri regolarmente eletti e non nominati dal presidente della Repubblica per avere “illustrato la Patria”, come dice l’articolo 59 della Costituzione. Ma di solito anche in altissimo loco, cioè al Quirinale, quando vengono formati i governi e se ne valuta la maggioranza autosufficiente non si tiene conto né dei senatori di diritto, in quanto ex capi dello Stato, com’è in questa legislatura Giorgio Napolitano, né dei senatori di nomina presidenziale.  Altri tre voti, mancando i quali il governo si sarebbe salvato solo per due, fermandosi a quota 162, sono arrivati da ex forzisti del gruppo misto che si considerano ancora all’opposizione, o quanto meno estranei alla maggioranza: Sandra Lonardo Mastella, Raffaele Fantetti e Gaetano Quagliariello.

            Quest’ultimo, già “presidente vicario” dei senatori di Forza Italia, come si legge su Wikipedia, ha tenuto a precisare, in una intervista al Dubbio, il carattere di “eccezione” del “nostro sì al governo”, accordato per supplire alle assenze di colleghi della maggioranza impediti dal virus. E per i quali bisognerebbe decidersi  a ricorrere al “voto a distanza”, cioè telematico, ha detto il senatore, peraltro costretto a votare ieri “in uno sgabuzzino” collegato al sistema elettronico per le condizioni in cui si lavora a Palazzo Madama,  rispettando le distanze imposte dal rischio di contagio.

            Sul merito dell’azione di governo Quagliariello ha denunciato l’assenza di “una strategia in questa contingenza” e “un ritardo pazzesco”, perché “il problema non è soltanto quello di fare la caccia al miliardo, ma avere progetti concreti e credibili”. Senza i quali -ha avvertito il senatore e professore- rischiamo di “perdere soldi o farli arrivare in ritardo” dall’Europa.

 

 

 

 

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Marcello Pera rilancia il progetto di una Lega liberale e scommette su Salvini

Temevo di avere forzato il pensiero non se più a Matteo Salvini o a Marcello Pera traducendo la settimana scorsa in “Partito liberale di massa” la “rivoluzione liberale” che il leader leghista, compiaciuto in una intervista al Corriere della Sera, aveva raccontato di essersi sentito indicare e raccomandare come obiettivo dal professore Marcello Pera: l’ex presidente del Senato tra i fondatori e/o ispiratori di Forza Italia, da tempo deluso dai risultati dell’azione politica di Silvio Berlusconi. Cui, pur continuando a stimarlo e volergli anche bene, e concedendogli tutte le attenuanti del caso, a capo di una coalizione composita e in un sistema istituzionale ingessato da decenni di abusi, ritardi e quant’altro, rimprovera di essersi fatto prendere anche lui la mano da pratiche non proprio o non interamente liberali.

Ho visto con piacere, leggendo una bella intervista strappata a Pera con un caffè da Antonio Polito, sempre per il Corriere della Sera, che non gli avevo forzato il pensiero per niente. La formula della “rivoluzione liberale” è considerata da lui, filosofo finissimo, “assai ambigua, un po’ leninista, come ambiguo era il pensiero di Gobetti”. “La mia formula -ha detto-  è partito liberale di massa”, al minuscolo, almeno come glielo ha attribuito l’intervistatore. E’ una formula uguale a “vent’anni fa”, quando “noi avevamo un’agenda per il governo dell’Italia” – ha detto Pera alludendo anche agli altri professori dei quali Berlusconi si circondò per “scendere in politica”. Così annunciò con linguaggio sportivo mentre i vecchi partiti di governo della cosiddetta prima Repubblica venivano decimati dalle Procure e il principale dell’opposizione usciva solo con qualche ammaccatura dalla tempesta giudiziaria chiamata “Mani pulite”.

Fra quei professori, con Antonio Martino, Carlo Scognamiglio e poi Giorgio Rebuffa, Lucio Colletti e Piero Melograni, c’era anche Giuliano Urbani, il primo anzi a correre ad Arcore a dare consigli e spinte ad un Berlusconi tentato ma non ancora deciso a sposare la politica, trattenuto da familiari, amici e dipendenti che temevano contraccolpi sulle sue aziende, a cominciare da quelle televisive. E ciò per via dei suoi notissimi rapporti con la preda maggiormente inseguita dalle Procure e dai loro coristi: Bettino Craxi. Di cui addirittura si favoleggiava che si fosse fatto portare una fontana di Milano, strappata al panorama del Castello Sforzesco, nella sua villa di Hammamet, in Tunisia. Erano gli anni terribili in cui sfilavano cortei a Milano e altrove inneggianti ad Antonio Di Pietro e ad altri magistrati. Ai quali si chiedeva di realizzare “il sogno” di arrestare tanti politici da doverli portare in qualche stadio, non bastando le patrie galere.

Oltre ad essere il primo a correre ad Arcore, mandatovi -come vi ho già raccontato la settimana scorsa- da Gianni Agnelli, il professore Urbani fu anche il primo ad auspicare, almeno, che Forza Italia diventasse un “Partito liberale di massa”, con la maiuscola. E i numeri elettorali per un bel po’ sembrarono dargli anche ragione, se solo si pensa ai quasi dieci punti che il movimento del Cavaliere guadagnò nelle urne in pochi mesi nel 1994, passando dal 21 per cento dei voti nelle elezioni politiche italiane al 30,6 nelle elezioni, sempre italiane, per il rinnovo del Parlamento Europeo, tra marzo e giugno.

“Ho detto a Salvini -ha raccontato Pera a Polito- che quella eredità”, cioè l’agenda per il governo dell’Italia con un partito liberale di massa, sempre al minuscolo, “è lì e va ripresa. Tanto, le cose in Italia stanno sempre come allora”, nonostante alla cosiddetta prima Repubblica ne siano seguite altre due, almeno nell’immaginario collettivo, tra poche modifiche apportate alla Costituzione, giusto per aumentare i poteri della magistratura con la drastica riduzione delle immunità parlamentari, e con la bocciatura referendaria invece delle riforme organiche tentate sia dal centrodestra sia dal centrosinistra. Della seconda, intestata a Matteo Renzi, l’ex presidente del Senato è ancora contento di essere stato un sostenitore, per quanto sconfitto, dispiaciuto di non avere convinto Berlusconi a seguirlo neppure quella volta.

Invitato da Polito ad una realistica riflessione sulla capacità del “liberalismo di portare voti” in quantità tale da poter parlare di massa e non di nicchie, Pera ha onestamente risposto: “Purtroppo l’Italia ha un retaggio storico per cui tra assistenza/sicurezza e libertà tende a scegliere sempre la prima opzione”. Ma, a dire il vero, nel referendum del lontano 1985 sui tagli alla scala mobile dei salari fatti da Craxi in chiave anti-inflazionistica gli italiani si rivelarono in massa liberali.

“Il liberalismo -ha spiegato Pera come da una cattedra- vuol dire prendere rischi”, cioè correrne, “e da noi nessuno vuol prenderli, neanche gli imprenditori. Ma resta una profonda domanda insoddisfatta. Possiamo interpretarla. Penso che la Confindustria di Bonomi sia un’importante novità. Salvini dovrebbe diventarne l’interlocutore politico”, tra una visita e l’altra alle capitali europee appena annunciate in un tour di riassetto o ricollocazione, diciamo così, della Lega. E con i tempi di cui ha bisogno perché -ha spiegato ancora Pera a un Polito un po’ insofferente o scettico- non si può chiedere a Salvini una inversione a U in pochi mesi”, ridefinendo peraltro il cosiddetto sovranismo. Che -gli ha insegnato il professore- “non è autarchia o, peggio ancora, nazionalismo, non deve basarsi sul rifiuto di cedere sovranità all’Europa (anche la Costituzione lo prevede), ma deve accettare di cederla solo a istituzioni democratiche”, per cui “l’Europa di  oggi va cambiata”.

Essa appunto “sta cambiando”, ha appena detto Salvini agli eurodeputati leghisti che ha voluto incontrare a Roma prima di andare al Senato ad astenersi, con tutto il centrodestra, sulla risoluzione della maggioranza per l’uso dei fondi europei della ripresa. La Lega insomma si muove, salvo sorprese che deluderebbero Pera quanto e forse più ancora di Forza Italia, visto che il professore vi ha così tanto e clamorosamente “scommesso” dicendo a Polito che Salvini “sa ascoltare, è intelligente, consapevole del problema che ha davanti il centrodestra” per “costruire una nuova cultura di governo”.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Salvini si astiene sui fondi della ripresa e annuncia un tour europeo

            Anche se è tornato a dire davanti ai deputati della Lega eletti a Strasburgo, chiamati a Roma non certamente in gita turistica, che è l’Europa a “cambiare come volevamo noi”, cioè in senso solidaristico e più rispettoso delle diversità dei paesi che compongono l’Unione, Matteo Salvini si è mosso pure lui annunciando un tour nelle capitali del vecchio continente, neppure quello per turismo. E non si può dire che dopo quel giro, e tutti gli incontri che avrà, rimarrà dell’idea che non è ancora il momento di schierare diversamente nel Parlamento Europeo i suoi deputati. Alcuni dei quali non nascondono il disagio dell’isolamento e/o dell’irrilevanza cui sono condannati dalla permanenza nel gruppo dell’estrema destra. Dove non ha fatto confluire i suoi deputati neppure Giorgia Meloni, appena eletta al vertice dei conservatori e riformisti.

            D’altronde, proprio oggi sul Corriere della Sera, intervistato da Antonio Polito, l’ex presidente del Senato Marcello Pera nel confermare la sua scommessa sulla Lega, appena votata nelle elezioni regionali nella sua Toscana, ha avvertito che “non si può chiedere a Salvini una inversione a U in pochi mesi”. Ed ha assicurato che come “allievo”, secondo l’ironica definizione dell’intervistatore, il leader leghista “sa ascoltare, è intelligente, consapevole del problema che ha davanti il centrodestra”.

            Quasi a conferma della fiducia di Pera, al di là e al di fuori dell’incontro con gli eurodeputati del Carroccio, Salvini ha smentito come più visibilmente non  poteva un dossier uscito dal loro gruppo il 7 ottobre scorso contro i fondi europei per la ripresa. Che sarebbero una mezza trappola per l’Italia condizionandone questo e i governi futuri, fossero pure di centrodestra. Egli ha fatto astenere i leghisti del Parlamento italiano, insieme con le altre componenti del centrodestra, sulla risoluzione d’indirizzo per l’uso dei fondi europei della ripresa destinati al nostro Paese, “completamente diversi” secondo lui dalla “logica del fondo salva-Stati” noto con l’acronimo del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes). Di cui il leader diffida, al pari di quasi tutti i grillini, pur consentendoci di accedere subito a più di 35 miliardi di euro ad un tasso d’interesse vicino allo zero per il potenziamento del servizio sanitario e del suo indotto, messi a dura prova dalla pandemia virale. Ma anche su questo l’ex ministro dell’Interno potrebbe cambiare idea se qualcuno -magari Giancarlo Giorgetti e lo stesso Pera-  riuscisse a spiegargli meglio che il Mes  è cambiato rispetto a quello applicato ai tempi sciagurati della crisi del debito greco.

            Nell’annunciare e motivare al Senato l’astensione, a nome non solo dei leghisti ma dell’intero centrodestra, sulla risoluzione della maggioranza per l’utilizzo dei fondi europei della ripresa destinati all’Italia Salvini  ha detto, rivolto direttamente al presidente del Consiglio, che “tutti gli italiani ci chiedono di lavorare insieme”. E ha augurato a Conte “buon lavoro” dichiarandosi “in attesa di una telefonata”. Sottraendosi alla quale il presidente del Consiglio, già gravato dei problemi da pandemia, e costretto a garantire che non manderà la polizia a controllare le nostre feste e simili a casa, si darebbe la zappa sui piedi, con tutti i guai che i grillini gli procurano nella maggioranza. E manderebbe su tutte le furie il presidente della Repubblica, da troppo tempo in attesa di un rapporto davvero più costruttivo del governo con le opposizioni, non solo a parole.

 

 

 

 

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Dopo un cinguettio con Conte il forzista Brunetta lascia …il trespolo

            Ha quanto meno del curioso, se non del clamoroso, la generosa e compiaciuta ospitalità concessa al presidente del Consiglio Giuseppe Conte dal deputato  e responsabile della politica economica di Forza Italia Renato Brunetta in qualità di direttore della edizione del lunedì del Riformista: incarico che però ha lasciato subito dopo chiudendo per lamentato ingorgo di lavoro, diciamo così, una “bellissima ancorchè breve, avventura”, durata in effetti quattro numeri soltanto, “costati tanta fatica e tanta intelligenza”, ha scritto l’interessato definendo orgogliosamente “piccolo gioiello” la sua creatura.

            Conte aveva “onorato” Brunetta -parola dello stesso Brunetta- mostrando di raccogliere in qualche modo le sue sollecitazioni a una svolta. “Le forze politiche -aveva scritto, difendendo però tutte le decisioni adottate dal suo governo, recentemente contestate in una intervista al Corriere della Sera dalla presidente del Senato- non dovrebbero oggi indugiare a lavorare insieme, con spirito costruttivo, favorendo un franco e sincero dialogo. E’ fondamentale il contributo di tutti, maggioranza e opposizione, così come è centrale il ruolo del Parlamento per disegnare le grandi riforme e i grandi cambiamenti che l’Italia non può rimandare”. Ma con o senza il permesso dei grillini ?, viene voglia di chiedere al presidente del Consiglio, che si trova a Palazzo Chigi grazie a loro e deve subirne ogni giorno, direi anzi ogni ora, i condizionamenti derivanti dalle loro divisioni, a dir poco. Il MoVimento 5 Stelle, tra governisti e antigovernisti, tra Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista e Davide Casaleggio, tutti comunque d’accordo nel rifiuto dei crediti europei per il potenziamento del servizio sanitario e indotto, è arrivato sull’orlo della scissione.

            Ancora nell’articolo scritto per il Riformista Economia Conte aveva concesso ai grillini, ritrovandosi anche con la parte più sovranista della Lega, il rifiuto di un “europeismo fideistico”, preferendogli “un approccio critico”.

            In questa oggettiva confusione di parole e di idee a convergere erano apparse solo manovre trasversali all’interno degli schieramenti di maggioranza e di opposizione, forse non estranee all’improvvisa rinuncia di Brunetta alla direzione.

             Conte ha chiaramente voglia di un aiuto forzista, visti anche i numeri assai traballanti al Senato. E una parte almeno dei forzisti ha voglia di darglielo anche a costo di spiazzare l’alleato Salvini. Al quale Brunetta, sostituendosi un po’ a Mattarella, aveva scritto esplicitamente che in caso di crisi non si andrà alle elezioni anticipate reclamate dall’ex ministro dell’Interno ma ad un governo “del Presidente”, tecnico o simil tecnico, destinato a portare comunque al termine ordinario la legislatura.

            Consapevole dei carboni ardenti del dialogo aperto con Conte -ardenti anche dentro il suo partito- Brunetta aveva cercato di cautelarsi aprendo il suo “editoriale”  con una “piena” condivisione dell’intervista ipercritica verso lo stesso Conte  della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, notoriamente forzista: un’intervista sgarbatamente liquidata dal presidente del Consiglio dicendo ai giornalisti di non averla letta.

           Vorrei essere una mosca per sentire la presidente del Senato commentare tutta questa vicenda quanto meno curiosa, ripeto.

Toti chiede a Salvini di replicare il predellino di Berlusconi

Non so, vista l’impazienza che traspare dalla sua sortita, se più’ incoraggiato o deluso, al contrario, dall’incontro conviviale a Roma con Mara Carfagna ed altri amici forzisti e dal tempo che si è preso Matteo Salvini per tentare la “rivoluzione liberale” mancata a Silvio Berlusconi negli anni dei suoi governi, il governatore ligure Giovanni Toti ha chiesto al capo leghista di raccogliere dal Cavaliere anche la staffetta, diciamo così, del predellino. Su cui Berlusconi saltò la sera del 18 novembre 2007 nella piazza milanese di San Babila  per lanciare il progetto della confluenza delle componenti più affini del centrodestra in un solo partito: il Popolo delle Libertà. Il cui acronimo -Pdl- divenne l’alternativa al Partito Democratico -Pd- allestito nello schieramento opposto da Piero Fassino e Francesco Rutelli, d’accordo con Romano Prodi, per unificare i resti del Pci e della sinistra democristiana, più cespugli di provenienza liberale, ambientalista e radicale.

Il Pd, condotto per primo da Walter Veltroni sventolando la bandiera della “vocazione maggioritaria” poi compromessa dall’imprevista irruzione dei grillini nel mercato elettorale, è bene o male sopravvissuto a tutte le crisi e persino scissioni in qualche vaticinate dall’”amalgama mal riuscito” lamentato in qualche modo da Massimo D’Alema. In tredici anni si sono succeduti sei fra segretari e reggenti, ma il Pd è ancora in campo pur zigzagando, fra l’altro, tra opposizione ai grillini e alleanza, prima di carattere quasi occasionale ed emergenziale, in funzione anti-sovranista, e poi di tendenza addirittura strutturale, estesa in periferia. Che, fallita alquanto miseramente a livello regionale, viene ora tentata a livello comunale, votandosi l’anno prossimo nelle maggiori città. Vi si sono impegnati direttamente il segretario del Pd Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio, l’ex capo forse rientrante del MoVimento 5 Stelle, o di quel che ne rimarrà in caso di scissione.

Il Pdl invece, già nato zoppicante per il rifiuto di aderirvi da parte della Lega ancora bossiana e di alcune frange della destra, è bello che finito, diranno ormai gli storici per colpa esclusiva o maggiore di chi. Di Berlusconi, insofferente al dissenso oltre un certo, minimo livello, e refrattario ai delfini, o di Gianfranco Fini, erede impaziente sino al suicidio politico.  L’ex pupillo di Giorgio Almirante, secondo la ricostruzione mai smentita di un suo incontro con un emissario di Berlusconi, arrivò a paragonarsi minacciosamente a un terrorista imbottito di esplosivo alla cintura, capace quindi di saltare in aria e far morire chiunque avesse cercato di fermarlo.

L’esperienza si concluse come era inevitabile, cioè nel peggiore dei modi. Alla rottura con o di Fini seguì quella con o di Angelino Alfano, e via via scendendo di grado o livello, sino al ritorno non so se più orgoglioso o obbligato di Berlusconi alla sua Forza Italia, ma di dimensioni e prospettive ben diverse da quelle originarie del 1994: quando fior di professori e intellettuali incoraggiarono il Cavaliere di Arcore a coltivare il sogno addirittura di un partito liberale di massa, come lo chiamò, in particolare, Giuliano Urbani. E ciò pur in un’epoca di de-ideologizzazione derivata dal crollo del comunismo, che si era portato appresso il pur incolpevole socialismo: la prima vittima del comunismo al potere, liquidata come una componente “traditrice” della sinistra necessariamente rivoluzionaria, non riformatrice.

Ora, tornando al Pdl, con tutta quella storia ormai non alle ma sulle spalle, avendovi personalmente partecipato prima come giornalista simpatizzante e poi come attore, promosso sul campo da Berlusconi in persona, Toti ha avuto il coraggio o l’imprudenza, secondo i gusti, le speranze o le paure dei suoi veri o potenziali interlocutori, di proporre a Salvini un nuovo “predellino”, essendo il suo partito diventato il maggiore della coalizione di centrodestra. Che però – va precisato anche questo- è da qualche tempo in fase discendente, e non più ascendente, inseguito dalla destra di Giorgia Meloni.

Mi chiedo se sia ancora il predellino, con quell’inconveniente dell’annessione che esso si porta dentro per esperienza, il percorso, lo strumento, il metodo migliore per concretizzare l’aspirazione di Salvini alla “rivoluzione liberale” fallita nelle mani o redini di Berlusconi. E soprattutto prima di avere ben chiarito e concretamente avviato il riposizionamento in Europa. Che dopo la svolta o il ritorno all’originario spirito solidaristico imposto da quel surrogato di una guerra mondiale che può ben essere considerata la pandemia virale, non può essere più scambiata per quella specie di imboscata o prigione ancòra descritta in un recentissimo dossier del gruppo leghista del Parlamento di Strasburgo, poco in sintonia, quanto meno, col nuovo corso che sta maturando Salvini frequentando i professori stanchi o delusi da Berlusconi.

Forse proprio dopo o a causa di quel dossier di vecchio stampo sovranista  gli europarlamentari del Carroccio sono stati convocati per oggi, martedì, a Roma da Salvini e dal suo vice, nonché responsabile delle relazioni internazionali, Giancarlo Giorgetti. Che rischiano tuttavia di trovarsi spiazzati da un Giuseppe Conte che, ospite del Riformista economico del lunedì diretto dal forzista Renato Brunetta, pur di coprire in qualche modo ambiguità, ritardi e quant’altro dei grillini, fra Mes e dintorni, ha scritto di preferire “all’europeismo fideistico” di altre componenti della maggioranza giallorossa  di governo “un approccio critico che abbia a cuore le sorti del continente”.

 

 

Pubblicato sul Dubbio

L’Italia purtroppo carente di tamponi sanitari, ma anche politici…

            E’ imperdibile quel Mattarella immaginato da Emilio Giannelli nella vignetta di prima pagina del Corriere della Sera a fare il tampone all’Italia in questi giorni di giustificata apprensione per l’andamento della pandemia virale.

            Mi chiedo tuttavia, senza volere minimizzare l’emergenza sanitaria, chi potrà o vorrà fare un altro tampone -quello politico- di cui si ha bisogno in Italia. E del quale il presidente della Repubblica non può farsi carico prima che la situazione esploda in una crisi di governo, nonostante gli appelli alla concretezza, concordia e quant’altro lanciati dal capo dello Stato quasi ogni giorno in ogni direzione, sfruttando tutte le occasioni che gli offrono i suoi appuntamenti istituzionali o cerimoniali.

            Precarietà e confusione degli equilibri politici realizzatisi nella scorsa estate con la formazione del secondo governo di Giuseppe Conte nascono notoriamente dalla crisi d’identità, ma anche d’altro, che attanaglia il principale movimento della maggioranza: quello “algoritmico” delle 5 Stelle, come lo ha felicemente definito in un editoriale su Repubblica l’ex direttore Ezio Mauro.

             Le vicende interne grilline, con la divisione -all’ingrosso- fra i governisti di Luigi Di Maio e gli antigovernisti di Alessandro Di Battista e Davide Casaleggio, per fortuna hanno inciso poco, o per niente, almeno sinora, sulla pur controversa gestione dell’emergenza virale da parte del governo, in un intreccio di competenze nazionali e locali pasticciato dal testo riformato del titolo quinto della Costituzione. Ma cominciano quanto meno  a lambirla, dopo tutti i guasti procurati ad altri aspetti della politica e dell’azione governativa, con quel persistente rifiuto di ricorrere ai crediti europei disponibili con l’acronimo del Mes per il potenziamento del servizio sanitario e derivati, messi a dura prova dalla pandemia.

            L’ultimo pasticcio grillino, in ordine cronologico, è esploso all’interno della maggioranza giallorossa sulle prospettive dell’alleanza in sede locale, e conseguenti, inevitabili riflessi nazionali, in previsione delle elezioni comunali dell’anno prossimo, riguardanti città importanti come Roma e Milano. Dove si vorrebbe rimediare ai fallimenti regionali del  20 e 21 settembre scorso.

            Una disponibilità annunciata da Di Maio a “non fossilizzarsi” sulla ricandidatura, indigesta al Pd, di Virginia Raggi al Campidoglio ha fatto tirare un sospiro di sollievo al pur silente Zingaretti, ma anche a Paolo Mieli in un editoriale sul Corriere della Sera, per lo spazio temporale di poche ore. E’ infatti scoppiato fra i grillini, dietro e sotto le quinte, un putiferio tale che Di Maio ha dovuto precisare, sostanzialmente smentendosi, di non voler fare mancare il suo sostegno alla sindaca uscente e decisa a tentare la conferma, a dispetto di tutto e di tutti, anche dei colleghi o compagni di movimento consapevoli dei suoi limiti, o almeno della improbabilità di un suo successo.

            Che i problemi della Raggi stiano dentro, e non solo fuori casa l’ha confermato il non sospettabile Fatto Quotidiano riferendo di una riunione promossa per il 17 ottobre da alcuni consiglieri comunali uscenti del movimento 5 Stelle “ribelli”, presidenti ed ex presidenti di commissione, contrari alla “estrema personalizzazione della contesa elettorale”, insita nella ricandidatura della Raggi, e favorevoli invece ad un “percorso allargato e diffuso”, da imboccare e portare avanti naturalmente col Pd anche o soprattutto per consolidare l’alleanza di governo a livello nazionale. 

 

 

 

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Conte e Scalfari alla ricerca del successore di Mattarella al Quirinale

            Encomiabilmente irriducibile anche a 96 anni di età nella voglia o abitudine di scommettere sul futuro, Eugenio Scalfari ci ha appena informati dalle colonne di Repubblica di avere “puntato le mie fishes sulla presidenza politica di Conte e su quella religiosa di Francesco”.

            Del Papa il fondatore di Repubblica è notoriamente ammiratore e amico da tempo, forse anche raccogliendo direttamente o indirettamente da lui le notizie di prima mano che il suo giornale pubblica spesso sulle scosse vaticane in corso, di natura per fortuna non fisiche ma solo cardinalizie, finanziarie e giudiziarie. Di Conte -Giuseppe Conte, presidente del Consiglio- il veterano del giornalismo politico italiano ha appena cominciato una frequentazione diretta con un lungo incontro sui massimi sistemi, anche quello solare, prenotandone un altro in cui parlare pure del Pontefice.

            Dobbiamo all’incontro con Conte e al rapporto fattone ai lettori da Scalfari la conferma dell’impressione personalmente, e modestamente, ricavata di una sponsorizzazione a termine, non piena, della rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale recentemente auspicata dal presidente del Consiglio. “Conte vorrebbe -ha riferito testualmente Scalfari- che Mattarella prolungasse di almeno un anno la sua funzione, come fece a suo tempo Giorgio Napolitano”. Non sarebbe una cattiva soluzione della corsa al Quirinale già cominciata dietro le quinte col solito, largo anticipo rispetto alla scadenza dei primi mesi del 2022, quanto terminerà il mandato del presidente in carica. A Camere invariate ma destinate dopo un anno ad essere rinnovate a ranghi ridotti di un terzo dei seggi, sarebbe logico e persino onesto che alle nuove, con piena e nuova legittimazione, fosse lasciato il compito di una soluzione organica della successione al vertice dello Stato, proiettata verso il 2030.

            Ma se Mattarella non ne volesse sapere, come Scalfari ha anticipato o confermato per informazioni -credo- dirette, considerando i buoni rapporti che ha con l’interessato, che cosa si potrà fare o potrà accadere? Ne parleranno lo stesso Scalfari e Conte, si presume: alla faccia, alle spalle e quant’altro di tanti altri che si ritengono protagonisti, azionisti e chissà cos’altro del mercato politico e istituzionale italiano, a cominciare naturalmente dai poveri, sprovveduti elettori. Che, d’altronde, nella scelta del capo dello Stato non possono mettere bocca, come si dice, perché l’elezione non è diretta, come molti vorrebbero che finalmente e giustamente diventasse, visto il ruolo crescente dell’inquilino del Quirinale nella fluidità, a dir poco, degli equilibri politici prodotti da partiti, movimenti e schieramenti di sempre più incerto indirizzo.

 

 

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