Aiutato da un assedio giudiziario su cui ha avuto da ridire persino Antonio Di Pietro, l’ex campione di “Mani pulite” che ha accusato i magistrati di Taranto e di Milano di stare giocando una partita quanto meno scorretta contro i gestori indiani dell’ex Ilva di Taranto, dove si avvicendano le
forze dell’ordine mobilitate dalle Procure per raccogliere prove di un sabotaggio industriale non ancora commesso, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato di persona di avere strappato ai Mittal “una mutata disponibilità” a non ritirarsi dall’Italia. Non sarebbero quindi trascorse invano le ore di incontro fra le parti a Palazzo Chigi.
Il capo del governo ha tuttavia avvertito che la pur “grande apertura” reciproca degli indiani e del governo a sostenerne l’ingente sforzo finanziario -anche col ripristino, lasciato però solo alla fantasia giornalistica, del cosiddetto scudo penale prima concesso e poi ritirato dalle maggioranze parlamentari di turno dello stesso Conte- rimane per ora “senza risultato”. Ripeto: “senza risultato”.
Ci sarà da fare i conti con quello che il presidente del Consiglio, misurando le parole come l’avvocato che era prima di prestarsi alla politica, ha definito “una negoziazione lunga, complicata, con tanti risvolti tecnici, economici, giuridici”, cioè giudiziari. Non un cenno, quindi, ai risvolti politici, che pure ci sono ma che il presidente del Consiglio ha voluto esorcizzare ignorandoli: primi, fra tutti, i no espliciti, le minacce, i mal di pancia e altro ancora nel principale partito di governo -il Movimento delle 5 Stelle- al ripristino dello scudo penale, necessario a chiunque voglia davvero cimentarsi nell’opera di bonifica degli impianti siderurgici senza rispondere delle responsabilità dei predecessori. E’ lo scudo la cui rimozione è stata addebitata tutta e personalmente da Di Pietro, che ora fa l’avvocato dopo le esperienze giudiziarie e politiche, a Luigi Di Maio. “Non puoi cambiare le regole in corso come caspita di pare”, ha detto il “Tonino” forse più famoso d’Italia.
In pratica, dopo l’incontro con i Mittal il presidente Conte ha adottato la formula dei suoi Consigli dei Ministri quando approvano i provvedimenti all’ordine del giorno “con riserva d’intesa”, cioè senza intesa. Diversamente, d’altronde, egli non poteva fare per lo stato quanto meno confusionale in cui si trova il già ricordato e principale partito di governo. Il cui capo formale -Luigi Di Maio- è appena uscito con le ossa rotte dal referendum digitale sull’aiutino promesso al Pd con la sostanziale desistenza pentastellata nelle prossime elezioni regionali, bocciata col 70 per cento dei no. Il capo vero, o fondatore, “elevato” e quant’altro, cioè Beppe Grillo, approdato a Roma per verificare di persona lo stato delle cose e decidere se continuare a sostenere Di Maio o decidersi a scaricarlo, ha esordito nella sua missione prendendosela con i giornalisti.
A questi ultimi, con la professionalità guadagnatasi per tanti anni con i suoi spettacoli nei teatri
e nelle piazze, Grillo ha dato dei “comici” sentendone le domande sulla crisi esistente nel suo movimento. Egli ha fatto un po’ come il bue che dice cornuto all’asino, secondo un vecchio e popolarissimo proverbio applicabile -tutto sommato, a pensarci bene- anche al pur ruspante e ormai simpatico Di Pietro, che ha criticato i suoi ex colleghi magistrati alle prese con l’acciaio di Taranto e dintorni.
piattaforma Rousseau, amici e familiari di Luigi Di Maio non possono contestare gli
schiaffi che il capo ancòra del Movimento delle 5 Stelle ha rimediato sulle prime pagine di tutti i giornali per la bocciatura della “pausa elettorale” da lui proposta o sostenuta per dare un aiutino, diciamo così, al pur scomodo alleato piddino nelle elezioni regionali del 26 gennaio in Emilia Romagna e in Calabria. Dove pertanto
la sola partecipazione del Movimento pentastellato con proprie liste, scartata la strada
dell’accordo percorsa in modo fallimentare in Umbria, costituisce per il Pd di Nicola Zingaretti un pericolo serissimo di sconfitta. E ciò a vantaggio naturalmente del centrodestra a trazione leghista, per quanto possano riempirsi le piazze di “sardine” anti-Salvini durante la campagna elettorale, peraltro già avviata, specie in Emilia.
fiducioso Giuseppe Conte. I timori dei ministri sono quasi certezza a Palazzo Chigi e nella sede ancora nazarena del Pd, secondo la cronaca della cena e dintorni fatta sul Corriere della Sera da Monica Guerzoni. In effetti, è ben difficile credere che la segreteria Zingaretti e annessi e connessi, compreso il governo, potrebbero sopravvivere ad una perdita della storica regione rossa Emilia Romagna.
dedicato al giovane ministro
campano degli Esteri, e la non meno impietosa “Polvere di 5Stelle” di Repubblica, il più obiettivo e severo è stato Il Fatto Quotidiano. Che senza risparmiare nessuno, neppure Beppe Grillo, il quale ogni tanto gli affida le sue
riflessioni direttamente o indirettamente, ha
tradotto il 70 e rotti per cento del no alla “tregua” contro il 29 e rotti del sì, in un gigantesco e rosso “Vaffa della base ai capi”, anche quelli quindi che non si sono esposti come Di Maio e, peraltro, dietro le quinte non gli hanno mai dato un grande aiuto.
con un “suicidio assistito” dell’intero e pur caro Movimento 5 Stelle. Ma “assistito” poi da chi, più di preciso? Da Di Maio è difficile crederlo; da Grillo pure, per quanto col mestiere di comico che pratica da sempre si potrebbe pure sospettarlo, e immaginarne anche una smorfia di compiacimento; da Davide Casaleggio sembra impossibile per i danni economici che subirebbe la “piattaforma” da lui gestita. Non è che, sotto sotto, senza rendersene neppure conto per la non molta pratica che ha della politica, essendovi approdato solo l’anno scorso, l’assistenza possa o debba essere attribuita al presidente del Consiglio? Egli rimarrebbe davvero e finalmente senza un partito di riferimento, come con scrupolo tiene sempre a presentarsi e descriversi, sentendosi soltanto “umanista”, neppure più “l’avvocato del popolo” d’inizio della sua avventura a Palazzo Chigi.
cui ha partecipato qualche volta anche Salvini in persona. Il quale ha reagito immediatamente a mezzo stampa dandogli del “bugiardo” e dello “smemorato” perché in nessuna di quelle riunioni il presidente del Consiglio sarebbe stato autorizzato alla versione dell’intesa europea in via di definizione, e neppure nella risoluzione parlamentare approvata dopo una relazione fatta il 19 giugno da Conte. In soccorso del quale è tuttavia intervenuto l’allora ministro dell’Economia Giovanni Tria vantandosi di avere personalmente condotto le trattative dopo quella data, riferendone poi alle commissioni competenti delle Camere, col proposito riuscitogli di non far passare la linea del rigorismo oltranzista sostenuta dagli olandesi.
dell’omonimo giornale di Torino che attribuisce a Di Maio questa dichiarazione, nelle conversazioni fuori e dentro il Movimento delle 5 Stelle, di cui avrebbe tutto il diritto di essere compiaciuto l’ex alleato Salvini: “Il futuro è il sovranismo”, senza il sarcastico e ittico -da sardine-richiamo di Conte all’”operetta”.
scrivere su Repubblica che “come spesso accade, siamo precipitati nello psicodramma”, in cui “tutti recitano la loro parte sul palcoscenico romano ma pochi lo fanno con lealtà”. Ciò vale anche per la vicenda dell’ex Ilva e simili, compresa l’Alitalia, le cui sorti sono tornate in alto mare.
di Luigi Di Maio di preferire un tour politico in Sicilia alla riunione dei ministri degli Esteri del G20 in Giappone, ad Aichi-Nagoya, aiuta a capire lo stato di salute, e purtroppo anche di credibilità internazionale, del governo italiano e della sua maggioranza. “Chissà chi si accorgerà a Nagoya” dell’assenza del titolare della Farnesina “ma se l’Italia non è abbastanza interessata, pazienza. Il mondo va avanti lo stesso”, ha scritto Stefano Stefanini sul giornale torinese molto sensibile, per tradizione, alla politica internazionale.
possibile dal quadro politico del nuovo governo- in quella che lo stesso giornale fondato da Eugenio Scalfari ha definito in un vistoso titolo di prima pagina una “trappola per Conte”. O, se preferite fermarvi al cosiddetto occhiello di questo titolo, la “fine di un amore”, se davvero c’è stato amore fra Di Maio e il presidente del Consiglio, specie da quando l’uno è entrato in crisi nel proprio movimento, schiacciato dalle perdite elettorali, e l’altro è apparso, a torto o a ragione, in grado di contendergli il ruolo di guida con l’aiuto, dietro i cancelli delle sue ville, del fondatore, “elevato” e quant’altro. Che è naturalmente Beppe Grillo.
sul “richiamo del Colle al premier” sottinteso nell’iniziativa del capo dello Stato, in qualche modo emulo -aggiungerei- del clamoroso intervento dell’allora presidente della
Repubblica Sandro Pertini nella vertenza dei controllori di volo nel 1979, ai tempi del governo di Francesco Cossiga, al manifesto hanno preferito valorizzare il raduno delle “sardine” a Modena, dopo quello di Bologna, per gridare “fuori dalle scatole” a Matteo Salvini. Che osa ambire alla vittoria del centrodestra a trazione leghista nelle elezioni del 26 gennaio nella più storica delle regioni rosse: l’Emilia Romagna.
occhiello, sia pure rosso, come si chiama nel nostro gergo professionale, apposto al titolo sulla notizia del “rallentamento” delle procedure annunciate dall’azienda per lo spegnimento di un altoforno sorvegliato, diciamo così, dalla magistratura tarantina.
di centrodestra eleggano alla Presidenza della Repubblica nel 2022 un successore di Mattarella a lui -Renzi stesso- non gradito. E’ un argomento che presumo, per ragioni di galateo personale e istituzionale, metta in imbarazzo per primo il presidente in carica. Ma Renzi è così: testardo e politicamente sfacciato- ripeto- sino all’autolesionismo, come già gli accadde col referendum del 2016 perduto sulla riforma costituzionale varata dal suo governo, e pur apprezzabile sotto molti aspetti, tanto da averla votata anch’io.
movimento grillino, col quale egli ha deciso improvvisamente due mesi fa di allearsi al governo rinunciando al preventivo passaggio elettorale pubblicamente promesso, Zingaretti si è alla fine trovato a Bologna nella singolare situazione di guadagnarsi quasi a conclusione della conferenza programmatica, o come altro la si voglia definire, l’amichevole e caloroso “caro Nicola” del presidente della Confindustria Vincenzo Boccia. Che, dal canto suo, fra i due maggiori partiti dell’attuale coalizione di governo, non poteva non sentirsi a suo agio più fra i piddini che fra i grillini della infausta “decrescita felice”, mitigata
dal vantato ma un po’ troppo confuso “umanesimo” del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Al quale solo il ruspante Antonio Di Pietro, intervistato dal quotidiano La Verità mentre raccoglieva le olive nella sua campagna molisana, ha appena avuto il coraggio di contestare una “faccia di bronzo” e di chiedergli “figlio mio, quando diventi maggiorenne politicamente!”.
diffondere le “cosefatte” -tutta una parola, come è d’obbligo elettronico- in Campidoglio e dintorni dalla sua elezione e far
capire finalmente agli ignorantoni e disinformati romani “l’enorme lavoro” di questa incompresa eroina. Che per misteriose circostanze, tutte estranee evidentemente alla sua volontà, deve girare pure lei col fazzoletto al naso per il fetore della monnezza non raccolta, e indossare tute d’amianto prima di salire sugli autobus, più facili a prendere fuoco che ad arrivare prima o poi a destinazione, con ritardi variabili da quindici minuti a quindici ore, o quasi.
panettone in questa stagione prenatalizia, Grillo potrà tentare nella prossima, 88.ma edizione settimanale del suo blog personale di difendere la fedelissima ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta dalla non esaltante rappresentazione appena fattane dal Corriere
della Sera per l’appartamento di servizio fattosi assegnare al momento della nomina governativa, l’anno scorso, e non restituito al momento della cessazione dall’incarico, con la formazione del nuovo Gabinetto Conte, perché nel frattempo affidato al marito maggiore, nel senso di ufficiale dell’Esercito, di grado non elevato abbastanza per disporre di quel tipo di alloggio, e pur avendo la coppia un appartamento di proprietà a Roma. Sarebbe, se confermata dalle indagini della magistratura penale e di quella contabile annunciate dal quotidiano milanese, una storiaccia più da casta -per usare un termine molto adoperato sotto le cinque stelle quando si parla degli avversari- che altro.
del buon Giorgetti è stata riesumata a pagina 13, ancora più avanti della pagina 10, da Francesco Verderami ma questa volta con l’onore, la dignità e quant’altro di un richiamo in prima composto e titolato senza spirito liquidatorio, tradotto in una “mossa per non governare sulle macerie”, chiunque dovesse riuscire a vincere le elezioni, quando riusciremo a tornarvi, ottenere dal capo dello Stato le chiavi di Palazzo Chigi e strappare la fiducia delle Camere.
politico ma un frate, per giunta frappista. Continuo pertanto a ritenere ch’egli abbia lanciato la sua proposta, o fatto la sua prima “mossa”, prevedendo un ulteriore peggioramento della situazione politica e la crisi anche del secondo governo Conte, cui solo una quantità industriale di ottimismo o ingenuità potrebbe permettere di prevedere un terzo governo del professore, avvolto questa volta nella bandiera piuttosto bagnata della solidarietà nazionale, o dell’emergenza, o di qualcosa di simile.
esperienza, fornito di ottime antenne, in un passaggio non certo casuale o distratto del suo articolo ricognitivo ha scritto di Giorgetti come dell’uomo “che parla con Draghi”: Mario Draghi naturalmente. Che, finalmente libero dopo il lungo mandato di presidente della Banca Centrale Europea, sarebbe appunto adattissimo a quel governo di garanzia delle riforme di cui l’Italia ha bisogno per uscire da una transizione che si trascina almeno dal 1992, l’anno della cosiddetta, molto cosiddetta, epopea di “Mani pulite”, e successive scuse chieste dall’insospettabile buonanima di Francesco Saverio Borrelli, anche se il suo ex sostituto Antonio Di Pietro ha appena detto in una intervista che rifarebbe tutto daccapo. Ma egli non è più un magistrato, e neppure un politico.