Più che dal pertugio olandese valorizzato insieme dal Corriere della Sera e da Repubblica –che hanno
titolato sugli exit pol sfavorevoli ai populisti, o favorevoli ai laburisti, raccolti dai sondaggisti in attesa degli scrutini di domenica comuni a tutti i paesi europei in cui si sarà finito di votare- sono
incuriosito dalla “sfogliatella” offerta da Riccardo Marassi ai lettori del nuovo Quotidiano del Sud diretto da Roberto Napoletano. Che ha richiamato l’attenzione sul peso che finiranno per avere sui
risultati elettorali dagli indecisi. Molti dei quali credo che siano destinati a disertare le urne aumentando il bacino dell’assenteismo, d’altronde in crescita costante da anni, come si rileva da un grafico pubblicato su Repubblica.
Non so, francamente, quanti potranno essere in Italia gli indecisi sottratti all’astensionismo dalle ultime, odierne battute di una campagna elettorale condotta come peggio non si poteva in tutte le parti dello schieramento politico: nell’area della maggioranza, diciamo così, gialloverde di governo, dove i due partiti se le sono date e dette di tutti i colori, sino alle “stronzate” appena addebitate dal vice presidente pentastellato Luigi Di Maio all’omologo leghista Matteo Salvini, e in quella delle opposizioni. Che peraltro, tutte insieme, potrebbero fare un esposto, per quanto metaforico, all’autorità della concorrenza per denunciare l’accordo di cartello realizzato contro di loro da grillini e leghisti facendo insieme maggioranza e opposizione. Per cui chi volesse fare il peggiore dispetto ai grillini potrebbe accontentarsi di votare per i leghisti e viceversa. Roba da matti, penso che sia venuta voglia di dire anche al presidente della Repubblica, che naturalmente non potrebbe mai esternare un simile giudizio per non rischiare di essere preso per matto anche lui.
Sbaglierò ma, leggendo il piacevole servizio- intervista dedicato ad Antonio Di Pietro dalla nuova edizione del supplemento 7 del Corriere della Sera, che lo ha un po’ inseguito fra le residenze
di Montenero di Bisaccia, di Roma e di Bergamo nelle vesti di avvocato non so se più deluso o stanco dell’attività politica seguita a quella di magistrato di punta della Procura di Milano negli anni di “Mani pulite”; sbaglierò, dicevo, ma credo che anche “Tonino”, ex ministro di Romano Prodi e leader di quella che fu “L’Italia dei valori”, bollati e non, sia fra gli indecisi tentati dall’astensione.
I “figliocci” grillini, come lui li chiama, appaiono infatti a Di Pietro troppo “supponenti” e troppo poco “concreti” per guadagnarsene la fiducia nelle urne. Neppure Beppe Grillo in persona, col quale Di Pietro ha rivelato di conservare un buon rapporto personale, mi sembra in grado di recuperare all’ultimo momento il voto dell’ex magistrato, che ha raccontato di lui: “Ci messaggiamo ma parliamo di stupidaggini, non di politica”. A meno che Di Pietro non decida di declassare a stupidaggine il suo voto di domenica.
Potrebbe forse sperare qualcosa da Di Pietro il nuovo segretario del Pd Nicola Zingaretti. Che “Tonino” ha confessato di essere “andato a salutare”, ma con quale esito o prospettiva non si può proprio prevedere o scommettere visto che il rottamatore della cosiddetta prima
Repubblica ha confermato di avere “lasciato da cinque anni la politica”, deluso di non essere più l’uomo cui “tutti si attaccavano come mosche” ma al tempo stesso privo di “invidie, gelosie e rancori”. Che -ahimè- sembrano invece diventate, nell’imbarbarimento politico ed anche culturale in cui viviamo, le condizioni necessarie per partecipare alla lotta politica o solo interessarsene come elettori.
Generale della Corte d’Appello di Palermo Roberto Scarpinato. Che, alla vigilia della cerimonia organizzata per Falcone in un clima di polemiche scatenatesi per la partecipazione del ministro dell’Interno Matteo Salvini, ha voluto motivare l’”imbarazzo” col quale partecipa alle celebrazioni di quegli eventi drammatici, generalmente caratterizzate più dalla “retorica” che dalla consapevolezza della verità ancora incompiuta, per quanti processi si siano svolti e condanne siano state emesse dai tribunali.
intervista sempre al Fatto Quotidiano- di una qualche utilità trovata o addirittura cercata, fra le pieghe delle stragi, da Silvio Berlusconi. Che nel 1991, francamente, non immaginava neppure di scendere in politica, essendo sopraggiunta solo l’anno dopo la tempesta di Tangentopoli destinata a spazzare via la cosiddetta prima Repubblica.
di domenica prossima, è inciampato nella riservatezza dei rapporti con il capo dello Stato. Che non ha gradito, per unanime versione dei giornali, nei titoli e nelle cronache, fra le quali si distingue per precisione
e acutezza quella di Marzio Breda sul Corriere della Sera, la disinvoltura politica con la quale in una riunione a dir poco tormentata del Consiglio dei Ministri il professore si sia fatto scudo di Sergio Mattarella per fronteggiare le sollecitazioni di Matteo Salvini a varare il nuovo decreto legge su sicurezza e immigrazione. Che è stato approntato in 18 articoli dai suoi uffici, e già corretto proprio per andare incontro ai dubbi espressi dagli uffici del Quirinale nelle consultazioni che di solito precedono, e non seguono il passaggio per la sede collegiale del governo.
ulteriormente i tempi del Consiglio dei Ministri. E li facesse slittare oltre le elezioni per completare l’esame interrotto del decreto legge cui il vice presidente leghista e ministro dell’Interno tiene tanto. Salvini vuole solo che, possibilmente con cortesia, gli vengano spiegate le ragioni.
Giorgetti, il “capitano” del Carroccio ha sparso ottimismo a piene mani. Tranquilli, si fa per dire, “il governo -ha assicurato Salvini- non cadrà”, ha ancora molto da fare e “andrà avanti per quattro anni”: quanti ne devono ancora trascorrere per la conclusione ordinaria della legislatura. E, quindi, anche per l’elezione, da parte di questo Parlamento, del nuovo presidente della Repubblica, alla scadenza del mandato di Mattarella, anche se questo particolare Salvini ha evitato di ricordarlo, o precisarlo.
stagione: il mio amico
Stefano Folli. Che non più tardi di ieri, martedì 21 maggio, scrivendo su Repubblica “in morte di un governo” -titolo dell’editoriale di giornata- ha osservato: “Che la campagna governativa dell’avvocato Conte sia giunta al suo epilogo è evidente a chiunque voglia scorrere in modo distratto le cronache politiche”. Ma, appunto, “in modo distratto”, perché a scorrerle poi con attenzione, con più scrupolo, si potrebbe arrivare a tutt’altra conclusione: che cioè né Conte né i suoi due vice siano arrivati o stiano arrivando all’epilogo, e non invece a una “fase 2” del governo, come ha appena annunciato Di Maio, affiancato dai ministri a cinque stelle, dopo avere espresso peraltro la preoccupazione, già accennata, che i leghisti vogliano la crisi. Eppure gli annunci di “nuove fasi” non hanno mai portato fortuna ai governi che vi hanno fatto ricorso in passato, di ogni tendenza e colore. Può darsi che Di Maio riesca a sfatare anche questa leggenda.
anche quelli della ministra leghista della funzione pubblica Giulia Bongiorno. Che già si è rivelata utile al vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno in occasione del tentativo del cosiddetto tribunale dei ministri di Catania di mandarlo sotto processo per sequestro aggravato di persone sulla nave “Diciotti”, ancorata nell’estate scorsa nel porto etneo.
Francesco Saverio Borrelli. Che pure non aveva adottato provvedimenti, ma “solo” anticipato in una intervista al Corriere della Sera possibili sviluppi a carico di “politici molto in alto” nelle indagini in corso su Telepiù. Il magistrato aveva inoltre dato dell’”imprudente” al Guardasigilli Alfredo Biondi, che per protesta aveva presentato le dimissioni, respinte immediatamente dal Consiglio dei Ministri con espressioni di solidarietà.
dall’intervista di Borrelli nell’esercizio delle sue funzioni, richiamandosi all’articolo del codice 289 del codice penale, che punisce sino a 24 anni di carcere l’attentato agli organi costituzionali.
autentica della sua iniziativa, declassata da “denuncia”, irricevibile secondo Scalfaro, ad “esposto”. Che, come tale, fu esaminato e discusso dall’organo di autogoverno delle toghe, giunto alla fine del mese con 25 voti contro 4 e due astensioni a un verdetto favorevole a Borrelli. Che non riuscì tuttavia ad evitare poi un’ispezione ministeriale al tribunale di Milano, ma uscendone indenne, insieme con tutti gli altri magistrati interessati all’iniziativa del Guardasigilli.
Che però ci rimise il posto, sfiduciato al Senato dalla stessa maggioranza del governo di cui faceva parte, presieduto da Lamberto Dini dopo la caduta di Berlusconi per mano della Lega di Umberto Bossi. Che anche in riferimento alla denuncia e poi esposto del Cavaliere al Consiglio Superiore per l’intervista di Borrelli aveva preso posizione contraria. Era evidentemente una Lega di altri tempi e orientamenti rispetto a quelli di Salvini.
alla retromarcia anche dal suo braccio destro Gianni Letta, sottosegretario a Palazzo Chigi, peraltro contrariato dall’iniziativa presa dall’allora ministro per i rapporti col Parlamento Giuliano Ferrara di informare dettagliatamente il Corriere della Sera del documento inviato al Consiglio Superiore.
avere portato consiglio al titolare del Viminale. Contro le cui dichiarazioni erano già insorti i rappresentanti delle toghe sentitesi minacciate e, con particolare virulenza, il magistrato da poco in pensione Giuseppe Spataro, spintosi a reclamare proteste di piazza contro il ministro dell’Interno. Che già ha i suoi problemi a frequentarle per i comizi della campagna elettorale giunta per fortuna agli ultimi giorni davvero.
conquistatosi prima di lui nel Pci da Palmiro Togliatti, non è stato mosso da alcuna occasione celebrativa. Esso è arrivato troppo tardi rispetto ai 97 anni dalla nascita di Berlinguer, trascorsi il 15 maggio, e troppo presto rispetto ai 35 dalla morte, che ricorreranno l’11 giugno. Scalfari è stato mosso solo da una convenienza elettorale, d’altronde confessata con onestà per aiutare il Pd nelle urne del 26 maggio presentandone Berlinguer come “il padre o nonno”.
quello “di partito e neppure di classe”. Beh, almeno su questo, senza avventurarmi sulle vette ideologiche su cui pure si è voluto spingere Scalfari, e riconoscendo a Berlinguer l’onore indiscutibile di essere morto sul campo della politica, portando a termine il suo ultimo comizio in condizioni di salute ormai proibitive, mi permetto di dissentire perché non dico la storia, ma la cronaca non è dalla sua parte.
Agrigento Luigi Patronaggio. Che prima ha sequestrato nelle acque di Lampedusa la nave Sea Watch 3 che li aveva soccorsi e poi ha fatto sbarcare i 47 migranti bloccati dal Viminale. Lo denuncerò, ha praticamente
annunciato Salvini, collegato da Firenze allo studio televisivo di Massimo Giletti, de la 7, con immediata diagnosi più o meno sanitaria di una giornalista di Repubblica, presente e turbata dallo stato di “agitazione” del ministro, e del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. Che in un titolo di prima pagina ha dato a Salvini dell’uscito di testa.
visto che si è occupato prevalentemente di prescrizione e di altro, suona come profetico anche per la partita fra Salvini e Patrinaggio il titolo di un editoriale dell’ex magistrato Carlo Nordio sui giornali del gruppo Caltagirone: “La giustizia deciderà del destino dei giallo-verdi”.
nella maggioranza, anche alla luce di una intervista del sottosegretario leghista a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti alla Stampa –assai critico sui
rapporti con i grillini, compreso il presidente del Consiglio Conte, troppo condizionato da loro secondo l’esponente del Carroccio- e di una reazione di Luigi Di Maio a favore praticamente di Salvini sul fronte aperto contro il ministro dell’Interno dall’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani.
ormai destinata a consumarsi sul terreno più caro e utile al “capitano” leghista, per i consensi che ha potuto raccogliere prima e dopo le elezioni politiche del 4 marzo dell’anno scorso: il terreno della sicurezza e dell’immigrazione. Altro che l’allarme di Repubblica per il “governo a mare” lanciato senza distinzione fra i partiti che lo compongono.
parodia del “sabato del villaggio” di Giacomo Leopardi, è stato un po’ rovinato al leader del Carroccio, vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno da eventi esterni e anche interni al sovranismo.
La prova audioovisiva del suo incontro con la seducente parente di un oligarca russo risale, a dire la verità, a prima che Heinz-Christian Strache diventasse vice cancelliere, ma questa circostanza non cambia la natura dell’uomo e del partito emersa dalle immagini e dalle parole. Che sono del resto bastate e avanzate al cancelliere di Vienna per troncare la collaborazione col troppo ingombrante alleato e prenotare le elezioni anticipate.
il Papa per il sostegno all’immigrazione, e un po’ col braccio teso dalla tribuna che può aver fatto venire i brividi a qualcuno, a vederlo in televisione. E poco consola il fatto che, a ben guardarlo, il braccio di Salvini è rimasto un po’ al di sotto di quello che soleva stendere
Benito Mussolini e un po’ al di sopra di quello che allungava Hitler. A certe pose “il capitano”, come Salvini viene chiamato orgogliosamente e militarmente dai suoi tifosi ed elettori, dovrebbe stare più attento nelle esibizioni in piazza, anche se quella del Duomo a Milano -si sono consolati alla Repubblica, non si è riempita come l’uovo immaginato dai promotori del raduno.
dicono e se le danno di tutti i colori e ragioni- è contro il nuovo decreto legge sulla sicurezza predisposto al Viminale. Che l’organismo dell’Onu, mandando naturalmente in brodo di giuggiole il Fatto Quotidiano con un titolo anticipatore dei suoi effetti, considera xenofobo e diffida praticamente il Consiglio dei Ministri dall’approvare e il capo dello Stato dall’emanare controfirmandolo.
italiano pur sapendo, o dovendo sapere, che questi -Enzo Moavero Milanesi- si è espresso pubblicamente nei giorni scorsi a favore dell’iniziativa presa da Salvini. Al cui Ministero, in particolare, il diplomatico titolare della Farnesina ha riconosciuto una competenza primaria nella gestione del fenomeno dell’immigrazione, contestando la tesi secondo cui Salvini vorrebbe scippare, rapinare e quant’altro le competenze dello stesso Ministero degli Esteri, della Difesa, delle Infrastrutture e persino dell’Economia.
sempre meno interessato e disponibile a portare la questione, almeno prima del passaggio elettorale del 26 maggio per il rinnovo del Parlamento europeo, del Consiglio regionale del Piemonte e di 3800 e rotti Consigli comunali. In molti dei quali potrà esserci il ballottaggio dopo quindici giorni, con conseguente allungamento di una campagna che ha già prodotto tante tensioni e tanta confusione a livello di governo, e pure di piazze, più o meno affollate che siano state o apparse.
mobilitazione sovranista a Milano, dove ha dato appuntamento al popolo leghista e ai leader stranieri con i quali sogna di rivoltare l’Europa come un calzino -conciliando chissà come gli interessi nazionali italiani con quelli non meno nazionali degli altri, a cominciare dalla francese Marina Le Pen- il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini l’ha sparata più grossa del solito.
avendolo coperto nella vicenda estiva della nave “Diciotti”, aiutandolo peraltro ad evitare il processo addirittura per sequestro di persone chiesto dal cosiddetto tribunale dei ministri di Catania, mostra sempre più di frequente di sentirsi a disagio con la pratica della chiusura dei porti. Che è stata appena ribadita da Salvini, nei comizi e negli ordini telefonici ai suoi uffici al Viminale, di fronte all’ennesima nave avvicinatasi alle acque italiane con i soliti migranti soccorsi in quello che lui ritiene soltanto un traffico di clandestini.
egli ha già mostrato nelle elezioni locali successive a quelle politiche dell’anno scorso di portare via voti direttamente da posizioni comunemente definite o considerate di destra. Ma Di Maio è forse preso dalla voglia di fermare a sinistra, appunto, il ritorno dei voti sottratti l’anno passato al Pd ancora di Renzi ma ora guidato da Nicola Zingaretti.
fra le piante e le aiuole e sotto gli stucchi del palazzo sul colle più alto di Roma, come stanno facendo nelle piazze e sui giornali nella campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, del Consiglio regionale piemontese e di qualche migliaio di amministrazioni comunali: un test cresciuto via via di virulenza e di veleni.