Mattarella riflette da 22 giorni sulla legge che di fatto abolisce la prescrizione

Il presidente della Repubblica non ha ancora firmato, per la promulgazione, la legge cosiddetta “spazzacorrotti” faticosamente approvata dalle Camere, in particolare a Montecitorio in via definitiva il 18 dicembre scorso. E’ quella che contiene come  una supposta, nel primo dei 15 articoli che la compongono, la norma che modifica l’articolo 159 del codice penale  e dispone che “il corso della prescrizione rimane sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado”. E’ la fine, contestatissima pure all’interno della maggioranza, della prescrizione: la fine anche per l’imputato che venisse assolto e vedesse appellato il verdetto dall’accusa, senz’altro limite al processo se non quello purtroppo generico dell’articolo 111 della Costituzione. Che parla solo di “ragionevole durata”.

Quanto poi ragionevole possa o debba essere la durata di un processo, non si sa. E francamente non si sa neppure chi possa stabilirlo: forse la Corte Costituzionale, se le dovesse capitare di occuparsi del problema, al primo ricorso ricevuto tramite la magistratura per qualche vertenza giudiziaria aperta da un cittadino non disposto ad accettare la sua condizione di imputato a vita.

Il presidente della Repubblica, che è anche un fine giurista ed è stato giudice costituzionale prima di essere eletto al vertice dello Stato, sta riflettendo evidentemente su questo e forse anche altri aspetti della legge così fortemente voluta dai grillini: una bandiera, per loro, quasi come quella del cosiddetto reddito di cittadinanza. Una bandiera contrastata, all’interno della maggioranza gialloverde, dai leghisti. I quali definirono per bocca del ministro della pubblica amministrazione e celebre avvocato Giulia Bongiorno “una bomba atomica” la supposta della fine della prescrizione, riuscendo solo a strappare agli alleati di governo l’impegno -che, in verità, si ha difficoltà a trovare nel testo della legge approvata dalle Camere- a rendere operativa la sospensione senza limite della prescrizione dall’anno prossimo, in modo da tentare, quanto meno, una riforma generale e rasserenante del processo.

Non solo da presidente della Repubblica e da giurista Sergio Mattarella merita tutta la comprensione dell’osservatore politico per il tempo di riflessione che si è dato. E che scadrà  costituzionalmente il 18 gennaio, al compimento cioè del trentesimo giorno dall’approvazione della legge. La riflessione di Mattarella merita tutta la comprensione possibile pure per via della sua doppia funzione, voluta anch’essa dalla Costituzione, di presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura. Il quale ultimo, richiesto di un parere dal ministro della Giustizia durante il percorso della legge, ha espresso il suo dissenso, anche su aspetti diversi dal più clamoroso costituito dalla sospensione all’infinito, cioè della soppressione, della prescrizione con l’arrivo della prima delle tre sentenze consentite dal nostro sistema giudiziario e istituzionale.

Il parere negativo, e per certi versi dirompente, del Consiglio Superiore della Magistratura fu formulato all’unanimità nella competente commissione. E a maggioranza dal plenum, che se ne occupò, votando, solo il 19 dicembre, cioè il giorno dopo l’approvazione definitiva della legge alla Camera: con un calendario, diciamo così, sfortunato per chi avrebbe voluto fare ancora qualcosa in Parlamento per porre rimedio alla incresciosa situazione, ma fortunato per il ministro grillino della Giustizia  Alfonso Bonafede. Che però  adesso attende forse con ansia non inferiore, se pure di segno contrario a quella degli avvocati, dei leghisti nella maggioranza e delle opposizioni parlamentari, le conclusioni della lunga, e per ciò stesso significativa riflessione che ha voluto concedersi, o imporsi, il presidente della Repubblica.

Sergio Mattarella ha dimostrato nei suoi quasi quattro anni del mandato presidenziale, dei setti affidatigli dalla Costituzione, di essere ben disposto a firmare in fretta le carte che gli arrivano sulla scrivania quando ne condivide o comunque accetta il contenuto, o l’urgenza che qualche volta l’accompagna. E’ accaduto non più tardi della fine dell’anno scorso, quando per evitare il ricorso al cosiddetto esercizio provvisorio ha firmato la legge di bilancio limitandosi poi a lamentare, nel messaggio televisivo di San Silvestro, la “grave compressione” subita dall’esame parlamentare. “Grave” per Mattarella, “dolorosa” per il presidente grillino della Camera Roberto Fico in una lettera di buon anno affidata al giornale della Confindustria Sole 24 Ore.

 

 

 

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Il benvenuto, si fa per dire, ai grillini nel mondo rischioso delle banche

            Ancora una volta una vignetta fulminante riesce a battere ogni commento e a rappresentare una situazione meglio di una fotografia. E’ il caso del disegno pubblicato in prima pagina dal giornale storico di Genova –Il Secolo XIX- sulla vicenda della Carige, che è la Cassa di Risparmio di Genova, appunto, clamorosamente esplosa politicamente fra le mani dei grillini. I quali sono intervenuti, al governo, con un decreto legge per salvare la banca  dal rischio del fallimento e predisporla ad un progetto di nazionalizzazione, con tutto ciò che ne deriverebbe per nomine e altro, sfuggito alla bocca del vice presidente del Consiglio a 5 stelle Luigi Di Maio.

            In questo incidente il capo del movimento di Grillo è caduto fra un’intervista e l’altra, anche al fidato Fatto Quotidiano, a favore dei rivoltosi francesi in gilet giallo: si è visto con quali e quante rovinose reazioni, per l’Italia, daFatto su Di Maio.jpg parte dell’Eliseo. Dove il presidente Emmanuel Macron, pur negando a parole ogni carattere ritorsivo della sua iniziativa, ha fatto scattare in 48 ore a Bruxelles, con l’appoggio  dei tedeschi, una procedura quanto meno di disturbo contro la pur concordata acquisizione dei Cantieri francesi dell’Atlantico da parte della Fincantieri italiana. Un genio, questo Di Maio, per quanto alla rovescia.

           E’ appunto a Di Maio che il vignettista Stefano Rolli sul quotidiano genovese fa chiedere al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, reduce dal fulmineo intervento sulla Cassa di Risparmio della città peraltro cara a Beppe Grillo, non foss’altro per ragioni di campanile: “Allora abbiamo una banca?”. La stessa cosa chiese per telefono nel 2005, rovinosamente intercettato a sua insaputa, l’allora segretario dei Democratici di Sinistra Piero Fassino a Giovanni Consorte. Che per conto delle cooperative rosse stava conducendo la scalata alla Banca Nazionale del Lavoro, poi saltata per un sacco di complicazioni economiche, giudiziarie e politiche, esterne ma anche interne allo stesso partito di Fassino.

           Ora molti grillini, come certi diessini di 13 e 14 anni fa, pur dietro le quinte della disciplina di un partito dove si rischia l’espulsione anche per uno starnuto, si stanno interrogando sulla compatibilità fra Conte in banca.jpgle loro abitudini contro i salvataggi delle banche compiute dai governi degli odiati Matteo Renzi e Paolo Gentiloni e l’operazione appena eseguita dal loro partito. E per giunta adottando, da parte dell’illustre professore di diritto e avvocato civilista Conte, pizzicato anche per questo da un titolo sarcastico del manifesto, un decreto legge copiato da quello usato dagli avversari, e bistrattato, per salvare a suo tempo il Monte dei Paschi di Siena.

           Potrebbero seguire addirittura problemi di conflitti d’interesse, a sentire i più maliziosi, immancabili in queste occasioni, che stanno rovistando fra le conoscenze e le frequentazioni professionali del presidente del Consiglio, giunto a Palazzo Chigi nella primavera scorsa non certo da un Monastero di clausura, o dalla luna, per stare nel firmamento evocato dal nome stesso del movimento grillino.

           Per un governo come quello gialloverde in carica, nato all’insegna del “cambiamento”, non debbono essere ore e giorni comodi, come dimostra peraltro anche lo scontro esploso fra lo Salvini.jpgstesso Conte e il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini sull’ennesima vicenda dei profughi bloccati in mare e, più in generale, su sicurezza e immigrazione. Alla cui disciplina si è voluto procedere con una nuova legge che doveva servire a stringere le maglie ma è stata fatta così poco avvedutamente da finire sui binari allestiti da un bel po’ di regioni per un viaggio diretto, senza fermate, alla Corte Costituzionale.

 

 

 

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Concorrenza postuma e velenosa nelle celebrazioni di Mattarella e Andreotti

            Non ci sono, o non ci sono soltanto casualità e desiderio di compiacere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dietro l’enfasi inusuale della celebrazione di un anniversario non tondo -il trentanovesimo- dell’assassinio del fratello Piersanti. Che, presidente del governo Piersanti Mattarella.jpgregionale siciliano, la mattina della Befana del 1980 fu ucciso sotto casa a Palermo, crivellato di colpi di pistola dentro la macchina con cui, sprovvisto volontariamente di scorta in quel giorno di festa, stava recandosi a messa con la famiglia. A sparargli fu un sicario probabilmente di destra assoldato dalla mafia e aiutato da complici.

           Quest’anno ricorre anche il centesimo anniversario della nascita di Giulio Andreotti, morto a 94 anni il 6 maggio del 2013: un Andfreotti.jpganniversario per il quale sono state allestite due mostre celebrative nella Biblioteca del Senato intestata a Giovanni Spadolini e, sempre a Roma, nel complesso monumentale della Chiesa di San Salvatore in Lauro.

           Ebbene, e non a caso, di Andreotti i suoi irrinunciabili avversari hanno voluto denunciare in qualche modo presunte e indirette responsabilità o coperture anche in riferimento all’assassinio di Piersanti Mattarella.

           Il magistrato oggi in pensione Gian Carlo Caselli -che ancora si vanta di avere indagato e fatto processare a Palermo l’ex presidente del Consiglio, assolto in via definitiva nel 2004 Belzebùpg.jpgdall’accusa di concorso  esterno in associazione mafiosa ma prescritto per l’accusa di associazione a delinquere in relazione a fatti accaduti sino al 1980, proprio l’anno dell’assassinio di Piersanti Mattarella- ha voluto partecipare sul Fatto Quotidiano al ricordo di Belzebù, il più celebre e demoniaco dei soprannomi di Andreotti, con un articolo che sembra una requisitoria in morte.

          In particolare, sentendosi confortato da passaggi della sentenza d’appello relativi alle accuse prescritte, Caselli ha rinfacciato ad Andreotti “due incontri con il capo dei capi di allora della mafia Stefano Bontade per discutere il caso Pier Santi Mattarella, integerrimo capo della Dc siciliana, che pagò con la vita il coraggio di essersi opposto a Cosa Nostra”. Dopo quegli incontri Andreotti “omise di denunciare -haCaselli.jpg scritto Caselli, sempre in riferimento alla sentenza d’appello per la parte prescritta degli addebiti- elementi utili a far luce sull’omicidio di cui era venuto a conoscenza in dipendenza dei suoi diretti contatti con i mafiosi”. Ne derivò un contributo “al rafforzamento dell’organizzazione criminale inducendo negli affiliati anche per la sua autorevolezza politica -ha sempre scritto Caselli- il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale”.

          E’ quindi avvertito chi, avendo onorato nel trentanovesimo anniversario della morte Piersanti Mattarella rinnovando le condoglianze al fratello Sergio oggi al Quirinale, fosse tentato di onorare anche Andreotti nel centesimo anniversario della sua nascita. In chi fosse stato già tentato da questa doppia partecipazione, ma più in particolare in chi fosse tentato più dall’anniversario tondo, e secolare, di Andreotti che da quello dispari del povero Piersanti Mattarella l’ex magistrato Caselli ha indicato addirittura un “truffatore del popolo italiano in nome del quale si pronunciano le sentenze”: qualcuno che  “teme il giudizio storico su come in una certa fase, almeno parzialmente, si è formato il consenso nel nostro Paese. Ma in questo modo -ha concluso l’ex magistrato- si rende un pessimo servizio alla qualità della democrazia perché si finisce per legittimare (ieri, oggi e domani) la politica che ha rapporti con la mafia”.

          Stupisce a questo punto che Caselli, viste le convinzioni maturate con indagini e sentenze, o le letture che ne ha fatte, non abbia mai reclamato quando Andreotti era ancora in vita la pur non contemplata revoca  della nomina dell’allora presidente del Consiglio, nel 1991, da parte del capo dello Stato Cossiga.jpgFrancesco Cossiga a senatore a vita avendo “illustrato la Patria -dice l’articolo 59 della Costituzione- nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Stupisce davvero questa omissione di Caselli ancor più di quanto possa stupire la sua ostinazione di accusatore di un uomo che pure viene voglia francamente di rimpiangere davanti alle prove date dai suoi successori al governo del Paese, o semplicemente nelle aule parlamentari.

 

 

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Giulio Andreotti a un secolo dalla nascita e sei anni dalla morte

Morto il 6 maggio del 2013 alla già bella età di 94 anni, Giulio Andreotti ne avrebbe compiuto 100 Il Dubbiojpg.jpgil 14 gennaio prossimo. E ce l’avrebbe fatta a tagliare vivo il traguardo del secolo se non gli fosse toccato di vivere l’ultimo tratto della sua lunga esistenza e carriera politica nell’amarezza di un “prescritto”. Così ne parlano ancora i suoi avversari a causa della conclusione ibrida, diciamo così, del processo per mafia subìto  fra il 1993 e il 2004: undici anni durante i quali egli si divise, con la puntualità che lo distingueva, fra gli impegni parlamentari  e quelli di imputato.

La conclusione processuale fu davvero anomala, diversamente dalla chiara assoluzione dall’accusa di avere fatto addirittura uccidere nel 1979 Mino Pecorelli, un giornalista molto introdotto nei servizi segreti che lo attaccava da tempo, e lo aveva per primo chiamato con tono sarcastico “divo Giulio”: un antipasto del “Belzebù” affibbiatogli poi da altri.

Fu una conclusione ibrida, quella del processo di mafia, perché, dopo l’assoluzione in primo grado una sentenza d’appello, confermata dalla Cassazione, ribadì la bocciatura dell’accusa di concorso esterno ma estinse per prescrizione quella di associazione a delinquere, derubricatagli per fatti accertati, almeno agli atti giudiziari, ma avvenuti prima del 1980. E guai a fermarsi al grido trionfante della sua avvocata Giulia Bongiorno –“Assolto! Assolto!- senza ricordare la coda della prescrizione. Minimo minimo, si riceve una lettera puntigliosa di Gian Carlo Caselli: l’allora capo della Procura palermitana, ora in pensione dopo avere diretto la ProcuraCaselli.jpg di Torino, che ancora si vanta di avere indagato e fatto processare il politico fra i più famosi d’Italia. E non certo colpito da una  damnatio memoriae neroniana, visto che nel centenario della sua nascita, quasi coincidente con quello appena celebrato dell’aula di Montecitorio realizzata da Ernesto Basile, gli sono dedicate due mostre: una nella Biblioteca Spadolini del Senato e un’altra nel complesso monumentale di San Salvatore in Lauro. Più che dimenticarlo, molti rimpiangono Andreotti, viste anche le prove date da molti dei suoi successori politici.

Non fu un capriccio o un abuso indagarlo e processarlo, scrive e dice Caselli contestando al “suo” imputato, anche da morto, di non avere rinunciato alla prescrizione, e di avere quindi accettato un verdetto che lo avrebbe inchiodato alle sue cattive frequentazioni in Sicilia. Dove la corrente andreottiana della Democrazia Cristiana era spesso un porto di mare, subentrando per consistenza a quella di Amintore Fanfani.

Ma Andreotti era diventato quello che era – senatore a vita, 7 volte presidente del Consiglio e 27 volte ministro, di cui 8 alla Difesa, 5 agli Esteri, 3 alle Partecipazioni Statali, 2 alle Finanze e una al Tesoro e all’Interno-  senza bisogno della spinta delle tessere del partito raccolte dal suo luogotenente nell’isola Salvo Lima. Che fu peraltro assassinato proprio dalla mafia per ritorsione contro la conferma in Cassazione delle condanne del maxi-processo che aveva segnato davvero una svolta nella lotta a Cosa Nostra. Esso porta il nome di Giovanni Falcone, poi ucciso pure lui dalla mafia nella strage di Capaci.

Andreotti aveva creato le sue fortune politiche a Roma, la sua Roma, facendo la gavetta come sottosegretario e braccio destro di Alcide De Gasperi: ripeto, Alcide De Gasperi. Per la cui successione egli assistette, in disparte, alla lotta fra Amintore Fanfani e Attilio Piccioni, piegato quest’ultimo dalla disavventura giudiziaria del figlio Piero per la vicenda di Wilma Montesi, trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica dopo un festino, vicino alla tenuta presidenziale di Castel Porziano. L’assoluzione, al solito, arrivò a danni collaterali irreparabilmente compiuti.

La forza politica di Andreotti crebbe man mano non per le tessere – ripeto- della sua corrente, chiamata Primavera e poi confluita in altre più grandi, ma  per le sue capacità di relazione, per il grande e sistematico seguito elettorale che raccoglieva, per la dimestichezza con la grande e piccola burocrazia, civile e militare, incontrata nella lunga attività ministeriale, per la fiducia di cui godeva in Vaticano, sotto tutti i Papi, ma soprattutto per la sua inconfondibile capacità di muoversi in Parlamento. Della cui vera “centralità” egli era un cultore: altro che quella quasi toponomastica -nel senso delle sedi della Camera e del Senato nel centro di Roma- alla quale si è ora ridotta, specie con l’approvazione forzata del bilancio del 2019 e l’inseguimento grillino della democrazia digitale.

La dimestichezza totale, fisica e politica, di Andreotti con la Camera la scoprì a sue spese nel 1955 l’allora segretario della Dc Fanfani. Che aveva candidato al Quirinale, per la successione a Luigi Einaudi, il dichiaratamente ateo presidente del Senato Cesare Merzagora, eletto al Parlamento in Lombardia come indipendente nelle liste democristiane.

Alle obbiezioni di Mario Scelba, presidente del Consiglio in carica, e dell’ex sottosegretario di De Gasperi il segretario dello scudo crociato reagì a suo modo, irrigidendosi. Quando le votazioni a scrutinio segreto dimostrarono che la dissidenza democristiana era molto più numerosa e forte delle sue previsioni Fanfani si accorse che il più attivo e astuto nelle operazioni di contrasto dietro le quinte era proprio Andreotti. Che pur di sbarrare la strada, a quel punto, a Merzagora non tanto come ateo ma come candidato inamovibile Gronchi.jpgdel segretario democristiano, si adoperò con destrezza e successo per l’elezione al Quirinale di un collega di partito di sinistra come il presidente della Camera Giovanni Gronchi, definito dal leader socialdemocratico Giuseppe Saragat “il Peron di Pontedera”, la città toscana dove Gronchi appunto era nato.

L’elezione di Gronchi a Camere naturalmente riunite avvenne alla quarta votazione -la prima nella quale sarebbe bastata la maggioranza assoluta, e non più quella dei due terzi- con ben 658 voti su 833 parlamentari presenti: “quasi all’unanimità”, commentò l’interessato con Indro Montanelli compiacendosi del fatto che quel risultato lo rendeva “indipendente da ogni partito e fazione”. Alla fine, quindi, Fanfani aveva dovuto non arrendersi ma capitolare. E ad Andreotti non gliela perdonò mai.

Uno scontro fra i due, e sempre sulla strada del Quirinale, si consumò anche alla fine del 1971, quando l’allora presidente del Senato Fanfani volle essere candidato alla Presidenza della Repubblica dalla Dc guidata da Arnaldo Forlani, cresciuto peraltro nella sua scuderia.   I cosiddetti franchi tiratori contro il “nano maledetto”, come qualcuno scrisse sulla scheda annullata nello scrutinio, si sprecarono a tal punto che per disarmarli si dovette Fanfani.jpgimporre ai parlamentari democristiani la pubblica astensione: essi dovettero sfilare più volte davanti alle urne di Montecitorio senza deporvi alcuna sceda, mentre dietro le quinte si trattava per un cosiddetto “cambio di cavallo”. L’unico a sottrarsi a quel rito umiliante fu l’ormai ex presidente della Repubblica Giovanni Gronchi votando dichiaratamente per Aldo Moro.

Furente, Fanfani affrontò alla buvette non solo il giornalista Vittorio Gorresio, della Stampa, avvertendo la mano e gli interessi della Fiat contro la propria candidatura, ma anche il braccio destro di Andreotti. Che era Franco Evangelisti: un uomo franco di nome e di fatto.

Peraltro in occasione della sconfitta di Fanfani nella corsa al Quirinale, chiusasi con l’elezione invece di Giovanni Leone, il capogruppo democristiano della Camera era proprio Andreotti, approdato a quella carica nel 1968 defilandosi dalle lotte scatenatesi nel partito dopo quasi un decennio di leadership morotea.

Da capogruppo democristiano a Montecitorio Andreotti seppe instaurare col maggiore partito di opposizione, il Pci, un rapporto di grande sintonia personale e parlamentare, sopravvissuto non a caso anche alla  breve fase politica in cui egli guidò, fra il 1972 e il 1973, un governo con i liberali di Giovanni Malagodi al posto dei socialisti di Giacomo Mancini.

Fu proprio negli anni di Andreotti alla testa del gruppo democristiano che maturò e fu varata una significativa riforma del regolamento della Camera sostanzialmente a quattro mani: le altre due furono quelle del capogruppo comunista Pietro Ingrao. Si deve anche o soprattutto a quei rapporti Ingrao.jpgpolitici e alla sua padronanza dei meccanismi parlamentari se nel 1976, dopo un turno elettorale conclusosi con due vincitori -come disse Moro parlando appunto del suo partito e del Pci- incapaci ciascuno di realizzare una maggioranza contro l’altro e condannati quindi ad accordarsi per garantire la tenuta della democrazia, la Dc propose e i comunisti accettarono il ritorno di Andreotti a Palazzo Chigi. Erano tempi anche di grave crisi economica e di ordine pubblico.

Andreotti guidò fra il 1976 e la fine dell’orribile 1978 -orribile davvero, col rapimento di Moro e il suo barbaro assassinio per mano delle brigate rosse- non uno ma due governi di cosiddetta solidarietà nazionale, entrambi monocolori democristiani: uno sostenuto dai comunisti con l’astensione e l’altro con tanto di voto di fiducia negoziato su un programma. E curiosamente, ma non troppo considerando la sua abilità, tramontata la collaborazione parlamentare col Pci vissuta con particolare sofferenza dal Psi  di Bettino Craxi, toccò proprio ad Andreotti guidareAndreotti e Craxi.jpg le ultime due edizioni del cosiddetto pentapartito condizionato dai socialisti. E prima ancora era toccato proprio ad Andreotti il ruolo di ministro degli Esteri di Craxi, dal 1983 al 1987, gestendo insieme vicende assai complesse: a cominciare dal sequestro palestinese della nave Achille Lauro nelle acque del Mediterraneo e dallo scontro con la Casa Bianca di Ronald Reagan, nella notte di Sigonella, per la cattura dei responsabili.  Tutto poi si sarebbe infranto, insieme con la prima Repubblica, contro gli scogli giudiziari di Tangentopoli, e trappole annesse.

Lo stesso Andreotti, sopravvissuto alle varie “guerre puniche” -come lui le chiamava ironicamente- attribuitegli dagli avversari di turno, passando dall’affare petroli a quello della P2 e a Sindona, solo per citarne alcune, dovette subire i già ricordati undici anni di processo per mafia. Eppure nel 1992, nella corsa al Quirinale  interrotta dalla strage mafiosa di Capaci, egli stette, o sembrò, sul punto di arrivare sul colle più alto di Roma.

L’allora suo portavoce Pio Mastrobuoni racconta ancora agli amici della tarda serata in cui, affacciatosi allo studio di Andreotti per chiedergli se fra le soluzioni “istituzionali” annunciate per il Quirinale dopo quella strage potesse essere considerata anche la sua, essendo lui presidente del Consiglio, si sentì anticipare dal suo rassegnatissimo capo l’epilogo che stava maturando dietro le quinte. Stava maturando, in particolare, la promozione del presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro, preferito dai comunisti sul Colle al presidente del Senato Giovanni Spadolini, che pure aveva già cominciato a predisporre il discorso di insediamento, perché con Scalfaro al Quirinale sarebbe stata spianata la strada di Giorgio Napolitano al vertice  di Montecitorio.

E pensare che una volta, quando gli chiesi, negli anni ancora verdi della sua carriera politica, a quale carica aspirasse di più fra quelle mai avute -segreteria del partito e Presidenza della Repubblica- Andreotti mi disse: “Presidente della Camera”.

Per un pelo, non essendo più alla Camera,  Andreotti mancò la presidenza del Senato nel 2006, due anni dopo l’epilogo pur ibrido del processo di mafia e sette prima della morte. Ne fu proposta la candidatura anche da Silvio Berlusconi a garanzia del centrodestra e del centrosinistra, che avevano quasi pareggiato elettoralmente. Ma Romano Prodi, che aveva prenotato Palazzo Chigi per il suo secondo passaggio, breve e sfortunato quanto il primo, non ne volle sapere. E alla presidenza di Palazzo Madama fu eletto Franco Marini, uno dei pochi seguaci del compianto Carlo Donat-Cattin che con Andreotti aveva saputo andare sempre d’accordoCossiga.jpg nella Dc, sino a ereditarne il ruolo di capolista a Roma nelle elezioni politiche del 1992: le ultime della prima Repubblica. Alle quali Andreotti, abitualmente supervotato, non aveva avuto bisogno di partecipare perché ormai senatore a vita, nominato nel 1991 dal capo dello Stato Francesco Cossiga avendo “illustrato la Patria per altissimi meriti”, secondo la formula solenne dell’articolo 59 della Costituzione.

 

 

 

 

 

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Paradossale mano a Salvini dal premier di Malta nello scontro sui profughi bloccati in mare

             Matteo Salvini nella sua triplice veste di leader leghista, vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno è paradossalmente aiutato dal premier laburista di Malta Joseph Muscat a distrarre l’attenzione, in Italia, dalla sempre più scomoda situazione in cui lui  si è infilato imponendo nei mesi scorsi agli alleati di governo, e di riflesso anche al perplesso presidente della Repubblica, il suo decreto legge su sicurezza e immigrazione.

             Mentre alle due navi con 49 profughi a bordo- Sea Watch e Sea Eye-  continua ad essere negato l’approdo nel vicino porto di Malta, per cui Salvini fa la voce grossa anche col Papa lasciando Salvini.jpgchiusi i porti italiani, e vanificando così la disponibilità del presidente del Consiglio Giuseppe Conte e dell’altro vice presidente Luigi Di Maio ad accogliere in Italia anche qualche nucleo familiare completo, e non solo donne e bambini originariamente proposti, cresce il numero delle regioni tentate dal ricorso alla Corte Costituzionale contro il provvedimento che il Viminale si è arroccato a difendere dalle resistenze e desistenze dei sindaci “traditori”.

             Al Piemonte, alla Toscana, all’Umbria e alla Calabria si è aggiunta l’Emilia Romagna. E qualche giornalone comincia ad avvertire il problema serio, per Salvini, costituito dalla rivolta delle regioni. Che hanno accesso diretto alla Corte Costituzionale nella difesa delle prerogative loro e dei Comuni di pertinenza territoriale. Esse quindi per mandare una legge davanti ai giudici costituzionali non hanno bisogno di attraversare il ponte giudiziario di un processo intentato da Comuni o da privati, magari fra loro o con altre amministrazioni pubbliche.

             A spiegare le ragioni e l’accesso abbreviato delle regioni al Palazzo della Consulta è stato con un editoriale sulla De Siervo.jpgStampa l’ex presidente, e perciò presidente emerito, della stessa Corte Costituzionale Ugo De Siervo. Il quale peraltro ha dubitato della costituzionalità della “vasta ed eterogenea” legge che porta il nome di Salvini anche per aspetti e contenuti diversi da quelli evocati da regioni e comuni per le loro competenze in materia di assistenza e di accoglienza.

            Finora non lo ha fatto, ma vedrete che il leader leghista prima o poi sfiderà il giurista De Siervo contestandogli la pur legittima presidenza emerita della Corte Costituzionale, conferitagli per legge, per avere esercitato quella effettiva solo dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, cioè negli ultimi quattro mesi del mandato novennale di giudice della Consulta.

            Magari, il ministro dell’Interno coglierà l’occasione per proporre agli alleati di governo, pur insofferenti ormai per il suo stile di governo e per certi temi che ripropone con forza, come la riforma della legittima difesa e il potenziamento delle autonomie regionali, di modificare prassi e norme che consentono avvicendamenti così facili al vertice della Corte Costituzionale. E la moltiplicazione quindi di preziose autorità di riferimento e partecipazione al dibattito politico, istituzionale e giuridico nel Paese.

 

 

 

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Censure e spallucce ai ricorsi regionali alla Consulta contro la legge Salvini

            E’ a dir poco curiosa la solitudine nella quale i cosiddetti giornaloni, che poi si lamentano delle copie che perdono, hanno lasciato il manifesto  -che non per questo tuttavia  farà questa volta il pieno nelle edicole- con l’annuncio vistoso, in prima pagina,  dei ricorsi regionali in arrivo alla Corte Costituzionale contro le norme della nuova legge su sicurezza e immigrazione. Che sono contestate a voce alta da un bel pò di sindaci di città importanti come Palermo, Napoli, Parma, e meno alta ma ugualmente avvertibile da sindaci ed altri amministratori locali di militanza grillina, forzista e persino leghista, del partito cioè dello stesso Salvini.

           Gli annunci dei ricorsi per consentire alla Corte Costituzionale di esaminare la legittimità delle nuove disposizioni più compiutamente di quanto non abbia potuto fare in ottobre il presidente della Repubblica  emanandole con una lettera inusuale di richiamo e di preoccupazione al presidente del Consiglio, sono arrivati dal Piemonte, dalla Toscana, dall’Umbria e dalla Calabria. Per la Sicilia, che è un po’ l’epicentro della rivolta con la forte esposizione del sindaco palermitano Leoluca Orlando, non potendosi prevedere per ragioni politiche un passo del governo regionale di centrodestra, per quanto i leghisti non vi contino niente, ha voluto parlare il presidente forzista, cioè berlusconiano, dell’assemblea Gianfranco Miccichè. Che per la prima volta -credo- in vista sua si è trovato d’accordo con Leoluca Orlando, grazie a Salvini.

            Il ministro dell’Interno e vice presidente del Consiglio ha liquidato il gran lavoro che attende nella materia che gli sta tanto a cuore i giudici del Palazzo della Consulta alla sua maniera. Ha indossato i soliti indumenti della Polizia, per quanto contestatigli fra le righe dal capo dello Stato nel Salvini.jpgmessaggio televisivo di Capodanno, ha fatto un’incursione elettorale in Abruzzo, dove si voterà  fra poco per il rinnovo dell’amministrazione regionale, si è severamente rifiutato di acquistare una mercanzia propostagli da un immigrato, ha mandato a mangiare un po’ di nutella qualcuno che protestava ed ha ringraziato i sindaci “traditori” per i voti che incautamente gli starebbero procurando con la loro disobbedienza praticata o minacciata. E se perdesse la causa, diciamo così, davanti alla Corte Costituzionale con la bocciatura delle norme che impediscono, fra l’altro, l’iscrizione alle anagrafi comunali dei migranti residenti e provvisti di un permesso di soggiorno, con tutti gli effetti relativi? Ciò accadrebbe -gli ha fatto rispondere con tanto di virgolette il Corriere della Sera- “tra diversi mesi, di certo dopo le elezioni europee”.

             Visto che si trovava, dopo avere liquidato così le competenze della Corte Costituzionale rispettosamente evocate invece dalla presidente forzista del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati in una intervista allo stesso Corriere, pur raccomandando ai sindaci di rispettare ed applicare intanto Casellati.jpgle norme contestate, Salvini è tornato a chiudere a modo suo anche la falla apertagli in mare dal vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio. Che ha offerto, per quanto inutilmente, l’accoglienza alle donne e ai bambini bloccati da più di due settimane, con i loro uomini, su una nave di profughi respinta da Malta. “In materia di migranti decido io”, ha detto Salvini. Che, tornando ai sindaci protestatari e alla decisione del presidente del Consiglio di ricevere a Palazzo Chigi una delegazione dell’associazione nazionale dei Comuni, ha avvertito: “A quella riunione io non vado”.

             Salvini non si sottrarrà invece, direttamente o rappresentato da qualcuno dei suoi, alle riunioni per la definizione del decreto legge -sembra unico- che dovrà disciplinare in concreto il cosiddetto reddito di Befanapg.jpgcittadinanza e l’accesso anticipato alla pensione, infilando alle due conquiste gialloverdi la maglia alquanto stretta dei conti negoziata con l’Unione Europea e approvata dal Parlamento con “la grave compressione d’esame” lamentata da Mattarella la sera di  San Silvestro. La Befana farà un po’ di fatica a fare scambiare il carbone per cioccolata dagli elettori grillini e leghisti.

 

 

 

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Matteo Salvini nella inedita situazione di sfidato, o assediato

            Abituato a sfidare, e spesso anche a vincere, nelle sue vesti di vice presidente del Consiglio e di ministro dell’Interno, il leader leghista Matteo Salvini sta vivendo l’esperienza per lui inedita dello sfidato, se non addirittura dell’assediato. E ciò sia all’interno del governo, sia all’esterno.

            All’interno del governo l’omologo grillino Luigi Di Maio ha spiazzato e mandato su tutte le furie Salvini proponendo l’accoglienza in Italia delle donne e dei bambini bloccati da circa due settimane in mare sulla nave Sea Watch. E lasciando il resto dei profughi a disposizione di chi vorrà prendersi a carico gli uomini. Il che provocherebbe, peraltro, la separazione di nuclei familiari destinati poi a ricomporsi, probabilmente in Italia, dove la linea dura contro gli immigrati comincia a subire colpi, forse per gli eccessi compiuti da Salvini in parole e opere.

            Si arriva così al secondo fronte dello scontro e delle sfide che per una volta il leader leghista deve ricevere e non dare: il fronte dei sindaci. Che, a dispetto di certe apparenze favorevoli al Viminale per il  numero “esiguo” -si dice da quelle parti- dei primi cittadini in sostanziale rivolta contro l’applicazione della recente legge su sicurezza e immigrati, è fluttuante e insidioso. Se i sindaci e, più in generale, gli amministratori leghisti sinora sembrano solidali con il leader del loro partito, quelli di centrodestra – che pure rimane l’area elettorale del Carroccio- vacillano. Non parliamo poi delle convergenze fra la dissidenza amministrativa e i vescovi.

            E’ accaduto anche ad altri governi e vertici di partito scontrarsi con i sindaci, una volta liquidati -per esempio- come “cacicchi” da un insofferente, al solito, Massimo D’Alema ancora forte. Ma non era mai accaduto che su una materia così delicata come la sicurezza un sindaco sfidasse il ministro in qualche modo sorvegliante, che è quello dell’Interno,  a sostituirlo per poter impugnare l’atto davanti alla magistratura e chiedere a quest’ultima, che non ne vede forse l’ora, di trasferire la vertenza alla Corte Costituzionale. E’ ciò che ha fatto in diretta televisiva, su Rai 2, da Palermo Leoluca Orlando dopo avere definito “camomilla” una circolare emessa dal Viminale per cercare di mitigare, nell’applicazione, le norme della legge di sicurezza ostative, e perciò contestate dal sindaco siciliano, in materia di iscrizione all’anagrafe, con tutti gli effetti relativi, degli immigrati persino provvisti di permesso di soggiorno.

          Leoluca Orlando, che nella sua attività amministrativa, fra le più lunghe in Italia, ha dato filo da torcere a fior post di Orlando.jpgdi politici e magistrati, da Giulio Andreotti a Giovanni Falcone, ha portato la sfida a Salvini anche all’insolito livello, diciamo così, disciplinare e interdittivo. In particolare, egli ha chiesto alla Segreteria Generale del Palazzo delle Aquile di valutare provvedimenti a carico di un giornalista dell’ufficio stampa del Comune che aveva scambiato un post su facebook col ministro dell’Interno.      

             La situazione diventa per il ministro e, più in generale, per il governo ancora più difficile alla luce dei cambiamenti intervenuti a livello politico e mediatico con il ritorno, a livello nazionale, al sistema elettorale proporzionale. Che ha restituito la formazione del governo pienamente alla democrazia, diciamo così indiretta, quella delle trattative fra i partiti dopo le elezioni, lasciando l’autorevolezza e la stabilità degli organi prodotti dalla democrazia diretta solo alle amministrazioni locali e ai loro capi, sindaci dei Comuni o governatori delle Regioni che siano. 

 

La rivolta dei sindaci separa Giuseppe Conte dai due vice su sicurezza e immigrazione

              Questa volta il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha davvero spiazzato i suoi due vice,  il grillino Luigi Di Maio e il leghista Matteo Salvini, manifesto.jpglasciandoli soli a inveire contro i sindaci “spottisti elettorali” e “traditori” -o “banditi” nella versione sarcastica ricavatane nel titolo di copertina dal manifesto– che rifiutano l’applicazione di una parte della recente legge su sicurezza e immigrazione. E’ quella che impedisce, con tutte le relative conseguenze,  l’iscrizione all’anagrafe degli stranieri residenti, anche se provvisti di un permesso di soggiorno.

             Conte, che pure aveva assecondato il decreto legge emesso il 4 ottobre scorso, ma emanato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella con una  dimenticata lettera di sostanziale ammonimento proprio a lui, e ne aveva poi festeggiato con Salvini la conversione parlamentare con tanto di cartello al collo, non se l’è sentita di liquidare sbrigativamente le proteste deiSalvini.jpg sindaci. Ed ha accolto la richiesta di un incontro e confronto avanzata dall’associazione nazionale dei Comuni, aprendo così quel “tavolo” contemporaneamente escluso dal ministro dell’Interno fra un’aranciata e l’altra ostentata davanti all’obiettivo del suo telefonino.

            La disponibilità del presidente Conte, cui Salvini ha contrapposto le proteste del quasi omonimo Mario Conte, sindaco leghista di Treviso, contro i vertici dell’associazione dei comuni mobilitatisi a favore dei sindaci “disobbedienti”, ha prodotto l’estensione del dissenso degli amministratori locali.

             Alla solidarietà del presidente forzista dell’assemblea regionale siciliana Gianfranco Miccichè al sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il capofila Pittininipg.jpgormai della rivolta, si è aggiunta quella -per esempio- dell’ex ministro forzista dell’Interno Claudio Scajola, ora sindaco di Imperia. Col quale Silvio Berlusconi ha conservato buoni rapporti anche dopo la rottura consumatasi in Liguria per la sua candidatura a sindaco, vincente ma contrastata dal governatore forzista della regione Giovanni Toti.

           Questa vicenda dei sindaci che contestano la nuova legge su sicurezza e immigrazione ha due effetti politici collaterali e significativi: estende l’area dell’opposizione di sinistra targata Pd e accentua le crepe nel centrodestra uscito dalle urne del 4 marzo scorso con la nuova leadership di Salvini. Che però ha investito la sua forza, con la paradossale autorizzazione di Berlusconi ripetutamente ricordata dallo stesso Salvini, alleandosi al governo con i grillini e lasciando all’opposizione i partiti del Cavaliere e di Giorgia Meloni. I cui parlamentari tuttavia quando possono danno una mano a Salvini, pur lamentandone il “tradimento”, come hanno fatto -per esempio- nella vicenda autunnale della conferma di Marcello Foa alla presidenza della Rai, dopo la bocciatura estiva nella commissione bicamerale di  vigilanza.  

 

 

 

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I sindaci “ribelli” alla legge Salvini sulla sicurezza hanno preso alla…lettera Mattarella

Il traffico tanto intenso quanto riservato di informazioni, consigli, chiarimenti e quant’altro svoltosi fra gli uffici del Quirinale, del Viminale e del Ministero della Giustizia non bastò evidentemente a rasserenare in autunno il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che emanò il 4 ottobre scorso il decreto legge su sicurezza e immigrazione, peraltro dopo un incontro col ministro dell’Interno e vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, spedendo una lettera di richiamo, di raccomandazione o di auspicio, come preferite, al presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

A quella lettera, poco usuale -diciamo così- in simili circostanze, il ministro Salvini decise di reagire alla sua maniera, scrollando le spalle e dicendo: “Ciapa lì e porta a casa”. Il contenuto della missiva non gli aveva procurato alcun imbarazzo politico, almeno trasparente, come è appena accaduto col messaggio di Capodanno di Mattarella nella parte in cui la sicurezza è stata coniugata con la solidarietà, il rispetto, l’accoglienza e altro.  A Salvini bastò e avanzò che il decreto da lui tanto voluto, e non condiviso da alcuni parlamentari grillini poi messi in riga dal vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio, fosse stato emanato entrando subito in vigore.

Eppure in quella lettera -che mi risulta non essere stata evocata in questi giorni di scontro col Viminale dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando solo per motivi di riguardo personale e istituzionale col concittadino Sergio Mattarella- al governo si ricordava che “restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo, e in particolare quanto disposto dall’articolo 10 della Costituzione”.

L’articolo 10 dice, fra l’altro, che “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche, garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Che in ogni caso non può ovviamente contraddire un principio generale della Costituzione.

Ebbene, è proprio ai “diritti costituzionali garantiti” che il sindaco di Palermo e gli altri che lo stanno seguendo nello scontro col Viminale si è richiamato per sostenere l’impossibilità di negare l’iscrizione nel registro dei residenti  ai migranti con regolare permesso di soggiorno”.

Pur contestata dal vice presidente grillino del Consiglio come uno “spot elettorale” e da Salvini come una inaccettabile perseveranza nella “pacchia” consentita dai precedenti governi, la vertenza esplosa fra sindaci e governo sembra destinata a tradursi prima o poi in qualche misura la cui contestazione porterà diritto il problema alla Corte Costituzionale. E lì la partita sarà un po’ meno gestibile, francamente, con i metodi e gli argomenti tutti politici di Di Maio e Salvini.

Significherà pure qualcosa la decisione dell’associazione nazionale dei Comuni di non restarsene alla finestra, ma di chiedere l’apertura di un “tavolo” col governo, anche se i sindaci leghisti per comprensibili ragioni di schieramento, non volendo sfidare il leader del loro partito, hanno finora girato la testa dall’altra parte, o quasi.

Salvini e Conte.jpg La storia della gestazione anomala del decreto Salvini -chiamiamolo così- emanato con una lettera di accompagnamento del capo dello Stato per niente formale o burocratica, pur al netto della conversione del decreto con legge approvata definitivamente dal Parlamento il primo dicembre e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica due giorni dopo, conferma il detto popolare sui nodi che prima o dopo arrivano tutti al pettine.

Arriveranno d’altronde presto al pettine, con i decreti di disciplina del cosiddetto reddito di cittadinanza e dell’accesso anticipato alla pensione, anche i nodi del bilancio appena approvato con la ormai nota e ammessa “compressione” del Parlamento, originariamente denunciata nell’aula del Senato solo dalla radicale Emma Bonino.  E’ una compressione che il presidente della Repubblica ha definito “grave” in un passaggio sia pur breve del suo messaggio televisivo di Capodanno, e il presidente grillino della Camera Roberto Fico ha preferito definire soltanto “dolorosa” in una lettera al Sole-24 Ore dedicata addirittura al tema della “centralità del Parlamento”. Una centralità mai vissuta o vista con tanta sofferenza  come in questi giorni.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

La centralità ormai soltanto fisica del Parlamento, con le sue sedi immutate

                Nel frastuono della “guerra” scoppiata fra il Viminale e i sindaci per l’applicazione delle nuove misure di sicurezza sugli immigrati, per non parlare delle perduranti reazioni al messaggio di Capodanno del capo dello Stato, fra poche critiche sincere e molti elogi farisaici, espressi a Sole 24 Ore.jpgcosto di interpretazioni opportunistiche, è passata ingiustamente inosservata una lettera del presidente grillino della Camera al Sole-24 Ore, Roberto Fico. Che, computer o penna in mano, l’ha scritta con grande coraggio o disinvoltura politica, come preferite,  visto che essa ripropone “la centralità del Parlamento” -anche nel titolo del quotidiano della Confindustria- pur dopo la “grande compressione” dell’esame parlamentare, appunto, del bilancio. Così l’ha definita il capo dello Stato in un passaggio pur fuggevole del discorso televisivo di San Silvestro a reti unificate,  e l’ha  ammessa lo stesso Fico. Il quale di suo ci ha messo soltanto l’aggettivo “dolorosa”, al posto di “grande”.

               Se non è ancora diventato un reato penale il dissenso in questi tempi di “cambiamento” gialloverde, ho qualche difficoltà, da vecchio giornalista parlamentare, ad accontentarmi  del “dolore” del presidente della Camera. E ne avrei anche per quello eventuale della presidente forzista del Senato Casellati.jpgMaria Elisabetta Alberti Casellati. Sarebbe bastato che entrambi, nell’autonomo esercizio delle loro funzioni, si fossero prodigati a sostenere davanti alle preoccupazioni espresse o attribuite all’illustrissimo signor presidente della Repubblica che sarebbe stato meglio ricorrere a qualche settimana di cosiddetto esercizio provvisorio, regolarmente previsto e disciplinato dalla Costituzione, piuttosto che approvare il bilancio in quel modo non chiesto ma imposto dal governo.

             Fra le prove indicate da Fico per sostenere la perdurante “centralità” del Parlamento e contestare la “ingenuità” di chi “vaneggia una centralità perduta”, ci sono 503 emendamenti apportati, fra Camera e Senato, sino al 20 dicembre scorso a provvedimenti del governo: emendamenti dei quali 174 proposti dalle opposizioni. Peccato però che il presidente della Camera si sia fermato al 20 dicembre, risparmiandosi così il dolore -è il caso di dire- di aggiungere all’elenco il maxi-emendamento del governo al testo originario del bilancio. Esso è arrivato nell’aula del Senato saltando praticamente il passaggio per la commissione competente, raccolto in un fascicolo di 270 pagine per chi lo ha letto nella versione a spazio uno, e di 600 pagine per chi lo ha forse letto nella versione a spazio due, come credo sia accaduto al direttore del Foglio Giuliano Ferrara. Che ne ha scritto con quel numero in un editoriale ispiratogli dai “paradossi virtuosi” di un bilancio di cui ora il governo dovrà rispondere da solo al Paese, procurandosi -credo- la delusione e le proteste degli elettori dei due partiti che lo compongono, quando sarà esaurita l’euforia verbale del presidente del Consiglio e dei suoi due vice.

              Con queste premesse ho appreso con una certa apprensione dalla lettera al Sole-24 Ore la decisione di  Fico di proporre a giorni o a settimane alla competente giunta della Camera “una serie di possibili interventi di riforma” del regolamento “che incidono su organizzazione dei lavori, procedure, qualità legislativa”. Spero bene.

              Resto convinto, dopo quelloMonteciorio.jpg che è accaduto nella ormai scorsa e cosiddetta sessione di bilancio, che la centralità del Senato.jpgParlamento sia destinata ad essere intesa solo in senso fisico, non più politico e istituzionale. Per essere nel centro di Roma, da dove tanti anni fa volevano “decentrarle” all’Eur, le sedi della Camera e del Senato  sicuramente ci sono ancora.  I palazzi, rispettivamente,  di Montecitorio e di Palazzo Madama, fanno sempre la loro bella e imponente figura.  

 

 

 

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