Il governo gialloverde promosso a pieni voti dall’ambasciatore di Trump a Roma

            La notizia politica del giorno non è, o non è più la “merde”, rigorosamente in francese, rovesciata addosso al vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini dal ministro degli Esteri del Lussemburgo Jean Asselborn. Che aveva cercato inutilmente di convincere  l’uditorio europeo di Vienna del buon affare che sarebbero anche per l’Italia gli immigrati, utili a sostituire i figli che non facciamo più e a fare i lavori che non ci piacciono. E ciò anche a costo -ha polemizzato Salvini in un impeto umanitario che deve avere molto sorpreso il suo interlocutore mandandone il linguaggio in tilt- di fare degli immigrati “i nuovi schiavi”.

            La notizia è piuttosto nell’aiuto che a stretto giro di stampa, diciamo così, l’immagine umanitaria datasi da Salvini a Vienna, paradossalmente in difesa della sua durissima gestione degli sbarchi e, più in generale, dell’immigrazione ereditata dai governi precedenti, ha ricevuto dall’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, Levis Michael Eisenberg. Che, intervistato dal Corriere della Sera, ha elogiato “il modo molto umano” in cui anche il nuovo ministro dell’Interno italiano sta affrontando il fenomeno dell’immigrazione dall’Africa. Sempre molto umano?, ha chiesto scettico l’intervistatore Maurizio Caprara. Si, “ha tentato”, ha risposto l’ambasciatore alludendo in particolar ea Salvini e sottolineando “le circostanze e le dimensioni del fenomeno”.

            L’intervista dell’ambasciatore, amico e finanziatore dichiarato del presidente americano Donald Trump al maggiore giornale italiano, e in questo passaggio un po’ agitato della politica italiana, non è un unguento solo per il ministro leghista dell’Interno. Di cui pure Eisenberg deve essere Time.jpgdiventato un amico dopo averlo conosciuto, visto che ne ha digitalmente apprezzato la copertina appena dedicatagli dal settimanale americano Time come “la nuova faccia dell’Europa”. Una faccia, secondo Eisenberg, che sarebbe stata ancora più efficace se Time avesse usato come foto quella di Salvini che mangiava un hamburger nel ricevimento del 4 luglio scorso nella residenza romana dell’ambasciatore americano.

            Dichiaratamente reduce da incontri o conversazioni avute di recente anche col presidente della Repubblica Sergio Mattarella, col presidente del Consiglio Giuseppe Conte e col vice presidente del Consiglio e capo del movimento grillino Luigi Di Maio, il rappresentante di Trump ha voluto difendere il governo italiano dall’immagine che esso stesso offre ogni giorno delle sue divisioni: le ultime, o ultimissime, sull’emergenza creatasi a Genova col crollo, un mese fa, del ponte autostradale Morandi.

            Pur riducendo al singolare il plurale attribuitogli nel titolo dell’intervista dal Corriere della Sera e nel richiamo di prima pagina, l’ambasciatore americano ha detto, testualmente: “Malgrado il governoIntervista al Corriere.jpg italiano sia di coalizione e io legga sui giornali di contrasti, a me danno tutti un messaggio unitario, anche sul versante finanziario e della sicurezza. E’ un governo nuovo. Spero che abbia successo. La sua leadership non è sopravvalutata. E’ vera”. Tutto testuale, ripeto, come anche la domanda retorica di livello addirittura mondiale che sicuramente avrà fatto felici, insieme, Conte, Di Maio e Salvini, in ordine rigorosamente alfabetico: “Di quale nazione si parla di più nei commenti se non dell’Italia?”.

            Resta ora da vedere se e chi trarrà i maggiori vantaggi da questa così vistosa sponsorizzazione del governo gialloverde arrivata alla ripresa autunnale della politica dal settantaseienne ambasciatore degli Stati Uniti di Trump a Roma. I leghisti o i grillini? A proposito dei quali non ha forse torto, anzi non ha per niente torto il mio amico Aldo Cazzullo a scrivere nell’editoriale dello stesso Corriere della Sera che “l’impronta grillina sul governo si nota meno della propaganda di Salvini ma è più profonda”. E’ l’impronta di chi alla creazione di “nuova ricchezza”, da cui possono derivare anche più posti di lavoro davvero, senza immaginarli per decreto, preferisce l’obbiettivo di “prendere i soldi a chi li ha e redistribuirli”.

 

 

 

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Come prima, peggio di prima anche col decreto “salvo intese” su Genova

            E’ inutile prendersela col commissario europeo agli affari economici, il francese Pierre Moscovici, peraltro neppure il più ostile a Bruxelles con gli italiani, per “i piccoli Mussolini” che vede a Roma quando il governo offre spettacoli come quello della presunta -a dir poco- approvazione di un decreto legge sulla cosiddetta emergenza creatasi a Genova con il crollo, esattamente un mese fa, di una parte del viadotto autostradale Morandi.

            Di questo provvedimento, annunciato più per apparire che per essere, più per rinviare che per decidere, più per infiocchettarsi che per vestirsi, i giornali hanno scritto nei titoli di prima pagina come di un decreto “vuoto”, “beffa”, “parziale”, “decretino”. Con la formula “salvo intese”, a seguire, il governo ha potuto evitare di decidere, fra l’altro, chi costruirà il ponte destinato a sostituire quello crollato e chi sarà il commissario straordinario incaricato di occuparsene. Di cui si sa solo che non sarà quello nominato per l’emergenza, cioè il governatore della regione Liguria Giovanni Toti: un berlusconiano alleato  con i leghisti ma troppo preoccupato, agli occhi del ministro grillino delle Infrastrutture Danilo Toninelli, delle complicazioni e relativi ritardi che potrebbero derivare da una pregiudiziale esclusione della società concessionaria dell’autostrada, pur obbligata alla ricostruzione dal contratto stipulato a suo tempo con lo Stato.

            D’accordo, la formula “salvo intese” per rinviare anziché fare, per fingere anziché decidere non è nuova nella storia dei governi italiani. Ma da un governo di promesso e decantato “cambiamento” si poteva e doveva aspettare altro. O no? Come con la storia della fiducia sul decreto legge ormai annuale “milleproroghe” appena votata alla Camera su richiesta degli stessi grillini e leghisti che l’avevano trovata scandalosa nella scorsa legislatura.

            Tutto si fa come prima, più di prima, peggio di prima. Il decreto su Genova uscirà da Palazzo Chigi quando quando lo vorranno i vice presidenti del Consiglio Luigi Di Maio e Matteo Salvini mettendosi d’accordo per conto, rispettivamente, dei grillini e dei leghisti. E in forza della prassi, cioè del non cambiamento, si aspetteranno la complicità del presidente della Repubblica  con la promulgazione di un decreto legge  sprovvisto della collegialità della decisione prescritta dalla Costituzione. Che affida al “Governo”, con la maiuscola, non a singoli ministri, e neppure al presidente del Consiglio, l’adozione di “provvedimenti provvisori con forza di legge in casi straordinari di necessità e urgenza”.       

Botta e risposta fra Sergio Mattarella e Matteo Salvini su magistrati e dintorni

            Quanto è stato allusivo con Matteo Salvini il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ospite alla Camera per ricordare nel centenario della nascita Oscar Luigi Scalfaro, tanto è stato diretto ed esplicito il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno nel respingerne l’invito a non considerarsi “al di sopra della legge”. Come invece Salvini ha dato a Mattarella l’impressione di aver fatto in diretta facebook dal suo ufficio al Viminale contestando il procedimento giudiziario avviato contro di lui per la gestione degli immigrati a bordo della nave Diciotti approdata nel porto di Catania il mese scorso.

              Su quella vicenda peraltro il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha appena riferito al Parlamento condividendo le decisioni assunte dal suo ministro, e attribuendo la brutta figura solo all’Unione Europea per non avere voluto condividere l’accoglienza agli sventurati soccorsi dal pattugliatore della Guardia Costiera italiana.

            “Io vado avanti”, ha detto Salvini a Mattarella, nominandolo e annunciando che all’occorrenza tornerà a fare quello che la Procura di Palermo gli ha contestato, per  fortuna con le procedure del cosiddetto tribunale dei ministri, comprensive quindi di un preventivo passaggio politico nell’aula del Senato, come sequestro plurimo e aggravato di persona. Ma la Procura di Agrigento, dove era partita l’azione, aveva preteso la contestazione anche dell’arresto illegale, dell’abuso di ufficio e altro ancora.

            Sempre per allusioni, cioè senza nominare il destinatario della sua polemica, Mattarella ha contestato a Salvini anche la distinzione fatta tra il politico che viene eletto, ed è quindi legittimato dal voto popolare, e il magistrato che invece non lo è. E non deve esserlo -ha detto il presidente della Repubblica rivendicando la scelta fatta dai costituenti, proprio per sottarlo alla tentazione di ritenere di dovere rispondere delle sue azioni agli elettori e non alla legge, soltanto alla legge.

            Ma ciò tuttavia non sottrae notoriamente il magistrato, come ha ammesso Mattarella con un monito che ricorre spesso e da tempo negli interventi del presidente di turno della Repubblica, al rischio di cadere in tentazione politica, lasciandosi cioè condizionare dalle proprie opinioni politiche, appunto, o più genericamente ma non meno invasivamente dal protagonismo. Per cui tanto varrebbe -ha lasciato capire Salvini con la sua polemica su chi è votato e chi no- eleggere anche i magistrati, specie quelli d’accusa, come avviene d’altronde negli Stati Uniti. O assegnarli ai vari uffici per sorteggio vanificando nel Consiglio Superiore della Magistratura il gioco delle correnti cui le toghe partecipano come a partiti, secondo una recente proposta di Beppe Grillo. Che da tempo non parla più solo come comico, e di successo, ma anche come capo, garante e quant’altro di un movimento politico anch’esso di successo, tanto da essere arrivato al governo dopo una sola legislatura vissuta all’opposizione.

 

 

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Il “ritorno” della mafia a Roma fra il sollievo della sindaca grillina

            Il “rovesciamento” della malavita romana avvenuto in tribunale, dove i giudici di appello hanno appena ritrovato la mafia denunciata dalla Procura e negata l’anno scorso dai giudici di primo grado, ma hanno ridotto le pene agli imputati maggiori, è la rappresentazione plastica della crisi della giustizia italiana.

           C’è fra le leggi e i giudici chiamati ad applicarle un rapporto a dir poco schizofrenico, che impedisce alla gente comune di capire le une o gli altri, o né le une né gli altri. E ciò per colpa della politica, i cui attori lasciano andare le cose come vanno perché c’è sempre qualcuno che ne può trarre vantaggio: o per restare dov’è o per arrivare dove vuole scalzando più facilmente l’avversario.

            titolo Repubblica.jpgNon ha torto Attilio Bolzoni su Repubblica a raccontare con aria stralunata lo spettacolo degli avvocati degli imputati di “Mafia Capitale” o del “Mondo di mezzo” che, sentito il dispositivo della sentenza d’appello,  si “disperavano di una condanna più mite” dopo avere esultato in primo grado “con una mezza dozzina di carcere in più”. Infatti, condannato a 20 anni per associazione a delinquere, a destra Massimo Carminati ha avuto uno sconto di pena di 5 anni e mezzo, per gli stessi fatti, con la condanna per mafia. E a sinistra il suo socio, complice e quant’altro Salvatore Buzzi si è procurato uno sconto di otto mesi.

            Verrebbe da ridere a leggere in prima pagina sul Fatto Quotidiano che a procurare gli sconti così clamorosamente in contrasto con l’aumentata gravità del reato contestato agli imputati è stato il fatto che “ora il clan non può più operare”, come se si potesse condannare non solo per quel che si è fatto ma anche per ciò che si potrebbe ancora fare, in detenzione e oltre. titolo del Fatto.jpgMa si finisce di ridere quando si legge sul Corriere della Sera il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, che spiega a Giovanni Bianconi che “forse le pene più basse” inflitte dai giudici di appello derivano appunto dal fatto che “la piccola mafia” scoperta dagli inquirenti a Roma “è stata debellata dagli arresti”.

            Piccola, grande, grandissima mafia. E chi ne valuta le dimensioni? Con quali criteri e in base a quali norme specifiche del codice penale? Sono domande credo legittime per un lettore, un cittadino dotato di buon senso. Domande che inquietano ancor più quando si legge che il capo della Procura romana è il primo ad essere convinto che i vari Carminati e Buzzi, ma anche gli Spada, i Casamonica e tutti gli altri ai quali ci hanno abituati le cronache nella Capitale “non sono paragonabili a Cosa nostra, alla ‘indrangheta o alla camorra”, e che “Roma non è Palermo, né Reggio Calabria, né Napoli”.titolo Stampa.jpg E allora se tutto questo non è, perché si invoca e si applica l’articolo 416 bis del codice penale sull’associazione di tipo mafioso? Solo perché, come spiega l’esperto di mafia Francesco La Licata sulla Stampa, quelle di Roma e dintorni sono “cosche senza lupara” e coppola? Si rimane francamente interdetti.

            Fra le dichiarazioni più soddisfatte del ritorno giudiziario della mafia nella storia recente di Roma, diciamo così, ci sono naturalmente quelle della sindaca grillina Virginia Raggi, che ha voluto gustarsi lo spettacolo della sentenza di appello andando di persona in tribunale come parte civile. E se ne può anche capire l’interesse, a dimostrazione e spiegazione, insieme, delle responsabilità che la politica -come scrivevo all’inizio- ha per le condizioni in cui versa la giustizia italiana, sulle cui contraddizioni si può sempre contare per difendersi o attaccare, secondo i casi.

            La Raggi, salvo sorprese in Cassazione, cui naturalmente spetterà l’ultima parola, può per un po’ sostenere, a difesa dei modesti risultati della sua amministrazione, e con sollievo degli amici di partito che ora governano addirittura il Paese e sono un po’ in apprensione per i guai capitolini, che avrà pure il diritto ad una certa comprensione se le è capitata la disgrazia, pur cercata, di ereditare la guida di una città corrotta, devastata e quant’altro dalla mafia, pur con tutte le precisazioni e le riduzioni del capo della Procura.

Troppa casta, vecchia e nuova, e troppo protetta in quel di Cernobbio……

            Inviato giustamente a Cernobbio, con le competenze che ha, per seguire la quarantaquattresima edizione dell’affollatissimo e prestigioso Forum Ambrosetti, il vice direttore di Repubblica Sergio Rizzo non ha voluto o saputo sottrarsi a quella che ormai non è più soltanto la sua specializzazione, ma la sua ossessione: “La Casta”. Che fu il titolo di un libro scritto a quattro mani nel 2007 con Gian Antonio Stella: entrambi allora al Corriere della Sera, dove è rimasto solo l’altro, avendo Rizzo preferito cambiare testata poco più di un anno fa.

            Di quel libro risultano sinora pubblicate almeno  22 edizioni e vendute oltre un milione e ottocentomila copie: numeri da capogiro per gli autori e per le loro tasche. Fu, anzi è un libro alla cui lettura si sono formati fior di elettori, ricavandone prevalentemente la voglia o di disertare le urne o di corrervi per tradurre in voti i “vaffanculo” -scusate- che proprio più di dieci anni fa cominciò a gridare sulle piazze italiane Beppe Grillo. Che deve aver letto e divorato il libro di Rizzo e Stella con la foga cinematografica dell’indimenticabile Alberto Sordi americanizzato alle prese con un piatto di spaghetti.

            Ebbene, a Cernobbio il vice direttore di Repubblica si è messo ad un certo punto a contare e misurare in altezza, in auto e a piedi, le scorte dei partecipanti arrivati da ogni parte d’Italia, in particolare dei ministri. Fra i quali non ne sono mancati di grillini, a cominciare dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, reduce dai bagni di folla pugliesi per la tradizionale Festa del Levante. Che per fortuna del professore, pugliese pure lui peraltro, si svolge a Bari, e non a Taranto. Dove i grillini rischiono grosso a girare per strada dopo essersi rassegnati a salvare l’Ilva che avevano promesso di chiudere procurandosi a marzo il 47 per cento dei voti.

           Commento Rizzo.jpg Le scorte garantite e graditissime anche ai grillini, oltre che ai sopravvissuti del vecchio sistema, a cominciare dalla presidente del Senato che ha un nome più lungo del saldo di un qualsiasi conto corrente bancario del suo leader Silvio Berlusconi, donna Maria Elisabetta Alberti Casellati, hanno avvilito il buon Rizzo. Che se n’è doluto facendo le pulci ai “populisti”, anche nel titolo, con un commento altrettanto populista.

           L’articolo deve avere messo in imbarazzo qualcuno pure a Repubblica, dove lo hanno sistemato all’interno, senza uno straccio di richiamo in prima pagina. Per fortuna, perché Rizzo s’era un po’ fatto prendere la mano anche dall’insofferenza per lo spreco di soldi ed energie con tutti quegli elicotteri, sommozzatori, moto d’acqua e altro ancora sparso per il Lago a protezione di un evento che, secondo lui, non meritava tanto spreco. Evidentemente poteva o doveva bastare lui, Rizzo, a garantire tutti e tutto.   

Salvini fa la guerra all’Onu e non s’accorge di quella che fanno i grillini a lui

            Debbono essere bestiali le giornate di Matteo Salvini, festive e feriali, tra tweet alla figlia che riprende la scuola e alla fidanzata che torna in tv, dichiarazioni, comizi, telefonate, dirette facebook, bagni Salvini e Isoardi.jpgdi piazze e piazzette, incontri. A lungo andare il suo problema di tenuta potrebbe diventare da politico semplicemente fisico.

            Il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno non aveva ancora finito di digerire e commentare l’attacco bivalente  del grillino Alessandro Di Battista dal Guatemala – a lui e al pentastellato Luigi Di Maio che gli è invece solidale- per i soldi della Lega ricercati dalla magistratura quando ha dovuto fronteggiare l’alta commissaria dell’Onu per i diritti umani, l’ex presidente del Cile non più militarizzato Michelle Bachelet. Che sospetta del razzismo in Italia e vorrebbe accertarsene con una ispezione.

            Anziché mettere sarcasticamente a disposizione dei caschi blu, o simili,  della signora Bachlet per approdare in Italia il pattugliatore della Guardia Costiera Diciotti, come suggeritogli in una vignetta sul Corriere della Sera dal solito impertinente Emilio Giannelli, il titolare del Viminale si è sostituito al ministro degli Esteri, al presidente del Consiglio, al presidente della Repubblica e non so a chi altro per mettere sul tappeto il problema dei contributi finanziari dell’Italia alle Nazioni Unite. A risparmiare i quali, anche se non sembra che sia una grandissima cifra, si potrebbe cercare di aiutare il ministro dell’Economia Giovanni Tria a far quadrare i conti della legge di bilancio in cantiere.

            Mentre Salvini dichiara guerra a modo suo all’Onu gli alleati grillini di governo gliela stanno facendo a lui cestinando preoccupazioni, richieste, moniti e quant’altro dei leghisti sul versante genovese. Dove opera come commissario straordinario per l’emergenza creatasi col crollo del ponte autostradale Morandi alla vigilia di Ferragosto Giovanni Toti, presidente del governo regionale ligure a forte e decisiva partecipazione leghista.

            Non più uno ma due decreti legge sarebbero in cantiere tra il Ministero delle Infrastrutture e Palazzo Chigi per togliere le concessioni autostradali alla società della odiatissima famiglia Benetton, causa ormai di tutti i mali passati, presenti e futuri del Paese, e per assegnare la ricostruzione del viadotto alla Fincantieri, passando evidentemente con la ruspa di Salvini sulla “faccia” di Toti, che l’ha messa per sfida a disposizione sull’asfalto.

            Una domanda, forse indiscreta eppure ovvia agli occhi di un vecchio giornalista abituato a seguire e a scrivere di politica e dintorni: chi sta elaborando i due decreti legge, o tre e più, o uno solo, sa che bisognerà comunque garantirsi il consenso e la firma del presidente della Repubblica ? O è allo studio anche un decreto legge per la sua deposizione?

 

 

 

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Quando anche nei grandi partiti i segretari non riuscivano a tenere i loro….

Per quanto smentito da Matteo Salvini, che ha raccontato di averne parlato prima solo col presidente del Consiglio Giuseppe Conte raccogliendone peraltro solo la solidarietà o comprensione, è stato largamente pubblicato sui giornali il monito che il grillino Luigi Di Maio avrebbe rivolto al collega leghista di governo per strappargli una frenata, una retromarcia o quant’altro nello scontro con i magistrati: “Così i mei non li tengo più”. Che, guarda caso, conferma un certo stile o modo di ragionare. E’ la stessa frase attribuita a Di Maio, sempre a colloquio con Salvini, dopo l’insediamento delle Camere elette il 4 marzo scorso, per spiegargli il rifiuto di incontrare Silvio Berlusconi, o solo di raccoglierne una telefonata, per l’assegnazione delle presidenze parlamentari e poi per le trattative di governo fra grillini e leghisti.

Quei “miei non li tengo più” o loro varianti, come  al plurale “i nostri non li teniamo più”, non sono soltanto il ritorno alla “seconda Repubblica”, alla sintonia di governo fra i leghisti e Silvio Berlusconi evocata con pubbliche dichiarazioni dal guardasigilli Alfonso Bonafede dopo il facebook in diretta di Matteo Salvini venerdì sera, nel suo ufficio al Viminale. Dove gli avevano appena notificato l’avviso della Procura di Palermo per il sequestro plurimo e aggravato di persona contestatogli con le procedure del cosiddetto tribunale dei ministri a proposito della vicenda degli immigrati sulla nave Diciotti.

Nato solo nel 1976, beato lui, Bonafede non può sapere -e temo che nessuno glielo abbia raccontato- che a non tenere più i loro furono ricorrentemente i grandi partiti -grandi davvero- della cosiddetta e più lontana prima Repubblica, mai in grado o disposti -anche quando ne ebbero i numeri, come capitò alla Dc dopo le elezioni del 18 aprile 1948- di governare da soli, e sempre protesi invece a governare con altri, direttamente o con il loro appoggio.

Ricordo ancora il racconto, anche mimico, che Aldo Moro mi fece una volta delle telefonate e visite dei dirigenti della Dc Mariano Rumor e Flaminio Piccoli, insieme o separatamente, l’uno segretario e l’altro vice segretario del partito, nei quasi cinque anni da lui trascorsi ininterrottamente a Palazzo Chigi alla guida dei primi governi “organici” di centro-sinistra, fra il 1963 e il 1968.  “I nostri così non riusciamo più a tenerli” dicevano i due a Moro rimproverandogli la “troppa pazienza” o “il troppo spago”  che lui concedeva ai socialisti.

Moro si sfogò con me, imitando -ripeto- con voce e smorfie i colleghi di partito, quando gli andai a fare gli auguri natalizi del 1968. Egli aveva perduto da mesi Palazzo Chigi, per quanto la Dc fosse uscita dalle urne con più voti e più parlamentari di prima, e i socialisti unificati con molti meno voti di quanti non ne avessero preso separatamente cinque anni prima come Psi e Psdi. E al posto di Moro, dopo la solita pausa balneare di Giovanni Leone, si era insediato a Palazzo Chigi Mariano Rumor guidando un’edizione “più incisiva e coraggiosa” del centro-sinistra, senza più la “delimitazione della maggioranza a sinistra”, quindi più aperto all’opposizione comunista, e con la concessione di un’inchiesta parlamentare sui servizi segreti, negata in precedenza ai socialisti da Moro. Che pure nel 1964 aveva già rischiato di perdere il governo per manovre attribuite, a torto o a ragione, ai servizi segreti e tradotti dall’allora vice presidente socialista del Consiglio Pietro Nenni in “rumori di sciabole” scrivendone nei suoi diari.

Nel parlare dei “nostri che non riusciamo più a tenere” Rumor e Piccoli, insieme o separatamente, non alludevano solo agli elettori della Dc ma anche, o più in particolare, alla corrente dello scudo crociato – quella dei cosiddetti “dorotei”- che condividevano con Moro. E dalla quale egli uscì dopo lo sfratto da Palazzo Chigi guidando per un po’ l’opposizione interna democristiana, sino a superare a sinistra i dorotei con la famosa “strategia dell’attenzione al Pci”, scavalcato anch’esso, in verità, dall’ormai ex presidente del Consiglio nella lettura della storica contestazione sessantottina, ancora oggi di controversa interpretazione.

Tre anni dopo, alla fine del 1971, i “dorotei” tornarono a farsi vivi con Moro a casa, in delegazione guidata da Rumor, per spiegargli come e perché, caduta la candidatura di Amintore Fanfani al Quirinale per succedere al socialdemocratico Giuseppe Saragat, essi non fossero “in grado” di designare lui, nel frattempo diventato ministro degli Esteri e sostenuto dal segretario del partito Arnaldo Forlani. “Passeresti agli occhi dei nostri come il candidato del Pci”, dissero Rumor e Piccoli a Moro. Che si limitò a rispondere: “Mi avete confezionato un abito su misura che pure non mi appartiene”. Giorgio Amendola contemporaneamente raccontava ai giornalisti nel “transatlantico” di Montecitorio degli inutili tentativi compiuti “da varie parti” sul Pci per far votare Fanfani e concludeva: “L’unico che non chi ha chiesto i voti è stato Moro”: troppo orgoglioso forse per farlo, almeno senza una preventiva investitura del suo partito, che perciò non gliela concesse in una votazione a scrutinio segreto nei gruppi parlamentari, a favore invece di Giovanni Leone.

Il calendario si sposta di altri quattro anni e ci porta alla fine del 1975. Moro era di nuovo a Palazzo Chigi, a guidare col vice presidente Ugo La Malfa un governo Dc-Pri appoggiato esternamente dai socialisti. Il cui segretario Francesco De Martino gli telefonò per fargli gli auguri di fine anno…. e di fine governo, raccontandogli di non riuscire più a tenere il suo partito nella maggioranza senza la partecipazione anche dei comunisti.

Seguirono le elezioni politiche anticipate del 1976, dalle quali la Dc e il Pci uscirono distanziati di soli quattro punti, ma incapaci per ragioni numeriche in Parlamento di governare l’una  contro o senza l’altro. Toccò a Moro, ormai soltanto presidente dello scudocrociato ma in realtà il vero regolo della Dc, di sbloccare la situazione con la formula dei “due vincitori” costretti per la loro stessa natura a garantire il sistema con la formazione di una maggiorana transitoria di “solidarietà nazionale”.

Il Pci di Enrico Berlinguer -già sottrattosi alla vecchia prospettiva dell’alternativa di sinistra adottando  quella del “compromesso storico” con la Dc e chiunque altro disposto ad evitare svolte reazionarie come quella avvenuta nel pur lontano Cile- rispose all’appello con la formula della “non sfiducia” a un governo monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti.

Ma alla fine del 1977, in una situazione politica e sociale efficacemente rappresentata su Repubblica da Giorgio Forattini con una vignetta dove Enrico Berlinguer faceva colazione in vestaglia con i capelli dritti procuratigli dai fischi dei metalmeccanici che sfilavano sotto la finestra contro la politica del governo, il segretario del Pci comunicò a Moro di non “riuscire più a tenere” i suoi elettori e militanti su una posizione defilata come l’astensione. Occorreva un passo politico in avanti: un programma ben concordato e magari anche la partecipazione del Pci al governo tramite qualcuno degli indipendenti di sinistra eletti al Parlamento nelle sue liste.

Moro, per quanto Andreotti a Palazzo Chigi e Benigno Zaccagnini alla segreteria del Dc fossero disposti ad andare anche oltre, convenne sulla richiesta del programma ma non sul resto per ragioni di politica internazionale, pensando ai sospetti degli americani. Si passò così  a marzo del 1978 dall’astensione al voto di fiducia, che significava la partecipazione del Pci a pieno titolo alla maggioranza parlamentare.

Purtroppo il tragico sequestro terroristico di Moro traumatizzò il nuovo corso politico, sino a troncarlo con una crisi che riportò nel 1979 spontaneamente il Pci all’opposizione. Ma già all’indomani immediato della morte di Moro, e ancora nel pieno delle polemiche sulla gestione della linea della fermezza adottata contro le brigate rosse, Berlinguer aveva dovuto chiedere e ottenere dalla Dc il sacrificio delle dimissioni di  Giovanni Leone da presidente della Repubblica per fronteggiare una crisi nei rapporti fra società civile e società politica avvertita dal segretario del Pci nello stentato salvataggio del finanziamento pubblico dei partiti dall’abrogazione referendaria chiesta dai radicali. E la testa del capo dello Stato, reclamata da Berlinguer perché non riusciva più a trattenere i suoi, rotolò politicamente, anche a costo di accreditare una campagna contro il povero Leone destinata a risolversi giudiziariamente dopo qualche anno a suo favore. O, peggio ancora, a costo di dare l’impressione che il presidente avesse odiosamente pagato l’imprudenza di essersi messo di traverso alla linea della fermezza durante il sequestro di Moro, sino a predisporre la grazia per una detenuta, Paola Besuschio, compresa nell’elenco dei tredici “prigionieri” indicati dalle brigate rosse per uno scambio col presidente della Dc.

Anche formule di governo successive alla tragedia Moro, come le edizioni del pentapartito a guida prima socialista e poi democristiana, sino alla fine della cosiddetta prima Repubblica per lo tsumani di Tangentopoli, finirono per la incapacità manifestata dalla Dc e dal Psi, a seconda dei casi, di non riuscire a tenere i loro elettori e militanti di fronte ai costi politici della loro difficile alleanza di governo.

Ma non mancarono crisi da mancata tenuta di questo o quel partito di governo neppure durante la cosiddetta seconda Repubblica, sia nel centrodestra con la caduta, per esempio, del primo governo di Silvio Berlusconi per mano della Lega di Umberto Bossi, sia nel centrosinistra con la caduta prematura sia del primo sia del secondo e ultimo governo di Romano Prodi per l’insofferenza della sinistra radicale. E infine del governo tecnico di Mario Monti, arrivato si al termine ordinario della sedicesima legislatura ma perdendo per strada l’appoggio di Berlusconi, pure lui convintosi di non riuscire a tenere i suoi elettori continuando a subire l’impopolarità dei provvedimenti del governo tecnico succedutogli nell’autunno di due anni prima. E quella dissociazione per poco non fruttò al Cavaliere una clamorosa vittoria elettorale nel 2013.

I grillini, quindi, a dispetto della rivoluzione o del solo “cambiamento” decantato col “contratto” stipulato con i legisti, non stanno scoprendo o vivendo nulla di nuovo nel loro rapporto di governo con Salvini. E neppure quest’ultimo, se e quando deciderà di staccare lui la spina della difficile alleanza col movimento delle 5 stelle sui temi della giustizia o altro.  E’ la politica, bellezza.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Bentornati nella bolgia politica, mediatica ed etica di Genova

            Si chiude o si riduce una falla e se ne apre o riapre un’altra nella maggioranza gialloverde di governo, che pure era nata in primavera fra molte speranze, come soluzione non solo obbligata della crisi post-elettorale ma anche come una svolta autentica, utile a mettere alla prova forze relativamente nuove. E ciò anche se -in verità-  la Lega è ormai il più vecchio dei partiti sulla scena, essendo nata nel 1989 e provenendo gli altri da formazioni trasformatesi nei nomi e nei programmi, ma tenendosi ben stretti vecchi e a volte persino antichi dirigenti.

            Sopito in qualche modo lo scontro sui rapporti con la magistratura nel triangolo Agrigento-Palermo-Roma dopo la contestazione formale del sequestro di persona al ministro leghista dell’Interno Matteo Salvini, naturalmente per la vicenda degli immigrati pur soccorsi in alto mare dalla nave Diciotti della Guardia Costiera italiana, è riesploso lo scontro a Genova per la ricostruzione del ponte autostradale Morandi, crollato alla vigilia di Ferragosto provocando 43 morti.

            Gazzeta su Genova.jpgLo scontro, in verità, sarebbe in apparenza fra i ministri grillini Luigi Di Maio e Danilo Toninelli da una parte e il governatore forzista, cioè berlusconiano, della regione Liguria Giovanni Toti dall’altra. Che come commissario straordinario nominato dal governo per l’emergenza genovese ritiene di avere voce in capitolo anche sui tempi e sui modi della ricostruzione. E che invece i grillini ritengono si debba occupare solo degli sfollati, del traffico e non so cos’altro: di sicuro non di chi dovrà realizzare il nuovo viadotto, e in particolare della società Autostrade, ancora concessionaria di quell’infrastruttura.

           Proprio perché ancora concessionaria, quella società secondo Toti andrebbe coinvolta nella ricostruzione, magari insieme con altre imprese, anche pubbliche, non foss’altro per evitare ricorsi che bloccherebbero a lungo la ricostruzione. Per la quale peraltro esiste già un progetto generosamente offerto dall’architetto genovese, e non a caso senatore a vita, più noto e apprezzato nel mondo: Renzo Piano.

            Ma Toti non è solo un esponente del partito di Silvio Berlusconi, al cui nome soltanto i grillini saltano sulla sedia se vi sono seduti, o cadono a terra se sono in piedi. Egli governa la Liguria in alleanza con i leghisti, che a Roma come a GenovaStampa su Genova.jpg ne condividono e sostengono la posizione sulla ricostruzione del ponte, contraria quindi all’esclusione pregiudiziale della società Autostrade. Che per le responsabilità della caduta del viadotto è indagata dall’autorità giudiziaria, ma insieme a esponenti del Ministero delle Infrastrutture costretti proprio dal loro coinvolgimento nelle indagini a dimettersi dalla commissione d’inchiesta amministrativa ordinata dal ministro grillino Toninelli.

            L’ostilità dei grillini alla società Autostrade, e al maggiore azionista che è la famiglia Benetton, nasce -nel loro stile, diciamo così- da ragioni politiche, d’immagine, e non solo dalla convinzione che essa sia l’unica responsabile del disastro. Sono ragioni politiche e d’immagine che hanno già indotto i grillini a rappresentare come una specie di associazione a delinquere quella immaginata fra la famiglia Benetton e tutti i governi, e relativi partiti, fra i quali ci sarebbe però anche la Lega, che le avrebbero concesso favori ricevendone in cambio altri. Ci vorrebbe un processo per appurarlo, ma il presidente del Consiglio in persona, Giuseppe Conte, pur non ancora convinto del tutto della necessità di revocare le concessioni autostradali per nazionalizzare il settore, sì è lasciato scappare proprio a Genova che il governo nelle sue valutazioni e decisioni non può aspettare “i tempi della giustizia penale”.

            In questa situazione, con questo modo di vedere uomini, cose e situazioni, non ha francamente torto l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro a definire, come ha appena fatto in un editoriale,  quelli grillini, e il più alto in grado partitico fra di loro che è Luigi Di Maio, “ministri dell’Etica della Nazione”, con le maiuscole.

            E’ da ministro dell’etica nazionale che il vice presidente del Consiglio a 5 stelle si permette un linguaggio francamente da querela, peraltro al riparo di quel che resta dell’immunità Mauro.jpgparlamentare: poco ma abbastanza per risparmiargli cause di diffamazione. Egli liquida per “furti” i diritti altrui acquisiti e non condivisi dalla sua parte politica, o dalla maggioranza di turno, per cui dà, per esempio, dei “disonorevoli” a quei settecento e rotti ex deputati che hanno presentato ricorsi contro i tagli apportati ai loro vitalizi: ricorsi che il presidente pur grillino della Camera, Roberto Fico, ha invitato il suo collega di partito a considerare legittimi, pur rimanendo convinto della bontà o giustezza sociale dell’intervento.

            Se gli ex parlamentari diventano “disonorevoli” nel momento in cui usano il loro diritto al ricorso, i dipendenti della Rai assunti per raccomandazione negli anni passati diventano automaticamente per Di Maio “parassiti” da licenziare alla prima occasione utile, quando la nuova maggioranza di governo potrà disporre dell’ente  come le precedenti, superato il vuoto creatosi alla presidenza dell’azienda con la bocciatura parlamentare del leghista Marcello Foa.

 

 

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Dal Viminale al lago: Matteo Salvini cambia vista e musica con i magistrati

            Si contendono in molti, forse troppi, il merito di avere strappato a Matteo Salvini, a Cerrnobbio con vista lago anziché nel suo ufficio di ministro dell’Interno al Viminale, una frenata o addirittura una retromarcia sulla sua solita Rolli.jpgruspa, nei rapporti con i magistrati che si stanno occupando di lui, fra Palermo e Genova. A Palermo per il sequestro multiplo, e aggravato, di persona su una nave della Guardia Costiera italiana, prima in alto mare e poi nel porto di Catania. A Genova per i quasi 50 milioni di euro contestati anche alla Lega di Salvini, e non solo a quella che fu di Umberto Bossi e del tesoriere condannati penalmente in primo grado.

            In ordine, diciamo così, di visibilità o rumorosità si è distinto, nella gara al merito,  il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio. Che, per quanto smentito dall’interessato,  ha fatto sapere di avere personalmente telefonato al collega di governo per spiegargli di non riuscire più a tenere i suoi se lui, come gli aveva già rimproverato il guardasigilli pentastellato Alfonso Bonafede, avesse continuato a parlare dei magistrati come faceva a suo tempo Silvio Berlusconi. I “suoi”, cioè i grillini, lo avrebbero costretto ad una crisi per assecondare non le elezioni anticipate, vista la paura che la Lega incute ormai con i sondaggi, ma un governo col Pd in nome della solita, immancabile emergenza, e profittando del soccorso ottenuto su questa strada proprio dai magistrati. Ai quali, tuttavia, Salvini nella frenata consigliatagli da Di Maio, ha pubblicamemte negato di avere mai voluto attribuire “un golpe giudiziario”, aggiungendo di avere “rispetto per il lavoro di tutti”, quindi anche di pubblici ministeri e di giudici.

            Scalfari.jpgUna sponda agli argomenti di Di Maio si trova nell’editoriale domenicale di Eugenio Scalfari su Repubblica. Che, pur dedicato in prevalenza al Papa e a Putin, in due passaggi dà a Matteo Salvini del “Caimano eccezionale”, cioè di un Berlusconi al quadrato in tema di rapporti con la legalità e quant’altro, e del “per ora incontestabile leader del governo italiano” con piglio “dittatoriale”. Se non è un’emergenza, questa, di cui liberare subito il Paese, ditemi voi cosa o com’altro avrebbe dovuto scrivere il fondatore di Repubblica per manifestare la voglia di vedere cambiare governo nel suo e nostro Paese.

            Un’altra spinta su Salvini è stata attribuita, forse non a torto, da alcuni giornali alla silenziosa e solita persuasione morale del Quirinale, del suo inquilino e dei suoi principali collaboratori e consiglieri. Che debbono essersi tutti riconosciuti nel sollievo pubblicamente espresso, o affidato, al vice presidente del Consiglio uscente della Magistratura Giovanni Legnini -vice di Sergio Mattarella, appunto- per il chiarimento intervenuto con le dichiarazioni di Salvini a Cernobbio, dopo la diretta facebook dal Viminale di venerdì sera, con la busta della Procura di Palermo in mano, appena consegnata al ministro dell’Interno dalle forze dell’ordine.

            Non meno discreto del Quirinale, ma forse ancora più accorato, deve essere stato su Salvini l’intervento del sottososegretario leghista alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, che per un attimo venerdì sera deve essersi sentito già fuori da Palazzo Chigi.

            Un contributo alla riflessione o retromarcia deve essere infine arrivato a Salvini da qualcuno dei suoi avvocati difensori, che ha saputo leggere la comunicazione del capo della Procura di Palermo meglio di quanto avesse fatto in diretta facebook il suo assistito, rilevando per esempio che i cinque capi d’imputazione sollevati contro il ministro dal capo della Procura di Agrigento si erano ridotti a uno solo a Palermo. Dove il procedimento giudiziario è stato impostato con le procedure garantite del cosiddetto tribunale dei ministri, e comprensive di un passaggio decisivo e tutto politico in Parlamento. In più, si era perso per strada tra Agrigento e Palermo l’originario co-imputato di Salvini, cioè il prefetto di fiducia che gli fa, anzi gli è capo di Gabinetto.

            Tutto bene e rientrato, quindi? Si vedrà politicamente, giudiziariamente e mediaticamente.

 

 

 

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Grillini nei guai per lo scontro fra Matteo Salvini e la magistratura

            Altro che i rapporti con l’Unione Europea. Altro che il tira e molla sulla “flessibilità” anche con i conti, e non solo con i vaccini. Sono i rapporti con la magistratura, e più in generale, con la giustizia, tutte rigorosamente al minuscolo coi tempi che corrono, a insidiare la tenuta della maggioranza di governo gialloverde. E ciò a dispetto dei sondaggi che ne danno un’immagine fortissima, superando ormai il 60 per cento i voti complessivi attribuiti ai due partiti al potere: i leghisti e i grillini, nell’ordine di consistenza virtuale, rovesciati rispetto ai risultati delle elezioni politiche del 4 marzo scorso.

            La diretta facebook dal Viminale, col vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini che apre, commenta e appende come un trofeo alla parete damascata del suo ufficio la comunicazione giudiziaria appena ricevuta dalla Procura della Repubblica di Palermo per sequestro di persona aggravato non è stata soltanto inusuale, un inedito assoluto nella storia d’Italia e in quella più breve del social network lanciato il 24 febbraio di quattordici anni fa. Provate a pensare all’effetto che avrebbe potuto fare nel 1994, dieci anni prima del 2004, una diretta facebook dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per aprire e commentare l’avviso di garanzia speditogli dalla Procura di Milano mentre l’alleato di governo Umberto Bossi stava  scavandogli la fossa della crisi tra le inutili resistenze, al Viminale, di Roberto Maroni.

            Allora Berlusconi non solo non poteva disporre di facebook, che avrebbe probabilmente saputo usare anche meglio di Salvini, superandolo per mimica ed altro, ma dovette anche subire la notifica della comunicazione giudiziaria a mezzo stampa, leggendone sul Corriere della Sera prima ancora di aprire la busta della Procura milanese.

            Eppure è proprio a Berlusconi, e al suo modo di concepire i rapporti con la magistratura e di parlarne, che l’infastidito ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede ha paragonato il collega di governo Salvini, accusandolo di volere far tornare l’orologio politico indietro, alla “seconda Repubblica”, quando il centrodestra a trazione berlusconiana e a forte partecipazione leghista si avvicendò al governo col centrosinistra.

            Bonafede, che ha così recepito almeno in parte le proteste contro Salvini levatesi dal sindacato delle toghe, dove i  metodi del ministro dell’Interno sono considerati eversivi, specie con quel richiamo tutto berlusconiano alla natura elettiva del potere politico, perciò più alta e democratica del potere giudiziario esercitato da magistrati forti solo di un concorso vinto a suo tempo, è fra quelli convinti, magari in buona fede, come dice appunto il suo nome, che il 4 marzo scorso si sia davvero passati dalla seconda alla terza Repubblica. Così in effetti proclamarono i dirigenti del movimento grillino a commento dei risultati elettorali, prima ancora di sapere con chi poi avrebbero fatto il governo, con la Lega o con il Pd, cioè quando ancora gravava, anzi incombeva sullo scenario politico l’ipotesi di un ritorno anticipato alle urne, persino in agosto.

            La verità è che nel momento stesso di scegliere  la pratica delle alleanze per andare al governo, rimanendo quindi all’interno dello stesso sistema istituzionale ed elettorale, piuttosto che affrontare l’incognita di nuove elezioni, i grillini rinunciarono o accantonarono il progetto della terza Repubblica per rimanere nella seconda. Che peraltro assomiglia alla prima, o alla sua fase drammaticamente conclusiva, sul terreno dei rapporti fra la politica e la magistratura, sbilanciati a favore di quest’ultima. E’ questo sbilanciamento che la Lega ancora contesta, come ai tempi in cui collaborava al governo con Berlusconi, e che invece ai grillini evidentemente sta bene, pur concedendo a Salvini, con le regole mutevoli del loro cosiddetto codice etico, di non dimettersi da ministro alla ricezione di un avviso di garanzia per sequestro di persona, a proposito dei migranti soccorsi e poi rimasti per alcuni giorni sul pattugliatore della Guardia Costiera Diciotti. E di non dimettersi da ministro e da nient’altro neppure per i sequestri giudiziari dei conti del suo partito, ordinati a seguito di una condanna penale non definitiva del suo predecessore Umberto Bossi alla guida del Carroccio.

            Se e come i grillini riusciranno a tenere botta in questa situazione a dir poco ambigua in cui si sono messi, con un alleato di governo per niente disposto a cucirsi la bocca e a legarsi le mani nel confronto, anzi nello scontro con la magistratura, si vedrà solo nei fatti, specie se la vicenda della nave Diciotti dovesse approdare in Parlamento per un dibattito che mi sembra francamente doveroso, specie a questo punto.

            Allora si potrà vedere, fra l’altro, se i grillini sapranno, potranno, vorranno trovarsi insieme col partito dell’odiato, anzi odiatissimo Berlusconi nel sostenere Salvini, pur dissociandosene magari dagli aggettivi e dalle smorfie.  Ci sarà da divertirsi, a dispetto della serietà, anzi della drammaticità della situazione, sulla quale intanto vigila naturalmente il presidente della Repubblica, vi lascio immaginare con quanto imbarazzo, a dir poco.

 

 

 

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