L’Inferno in cui si è infilato Giuliano Pisapia

Con quel viso sempre sorridente, con quell’aria di un vecchio signore abituato alle buone maniere e con la fama meritatissimo di un buon avvocato garantista, tanto da avere mancato una volta la nomina a ministro della Giustizia di un governo Prodi, in quota al partito di Fausto Bertinotti, per le forti proteste levatesi, pur dietro le quinte, dalla solita magistratura militante, il povero Giuliano Pisapia non meritava certo la sorte toccatagli come “federatore” del centrosinistra dopo la scissione del Pd.

A questo ruolo, in verità, si era già offerto per i suoi trascorsi, sia pure non fortunatissimi, tutti interrotti bruscamente, di capo della coalizione prima dell’Ulivo e poi dell’Unione, il professore Romano Prodi. Che però, per non smentire la sua nota suscettibilità, colse al volo il primo dissenso da Matteo Renzi sui risultati delle ultime elezioni amministrative per smontare la tenda sistemata accanto al Pd, arrotolarla, impacchettarla e portarla via, indignato quasi quanto nel 2013, allorchè il suo partito gli negò a scrutinio segreto l’elezione a presidente della Repubblica.

Pisapia, più modestamente ex sindaco di Milano, si era messo in testa, poverino, di convincere Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani non a tornare da Renzi, per carità, ma a coabitare col suo partito, senza il quale il centrosinistra non avrebbe mai i numeri elettorali e parlamentari per ricostituirsi. Non aveva previsto, poverino, che i due volessero la fine di Renzi alla maniera del marito che si evira per fare dispetto alla moglie. Ma soprattutto non aveva previsto che i due lo condannassero ad avere come suo interlocutore, per loro conto, un giovanotto lucano  che solo a guadarlo ti viene subito voglia di chiedergli che problema abbia: l’ ex capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza. Che sembra un ossimoro più ancora di un cognome. Un giovanotto al quale bastò vedere una fotografia di Pisapia abbracciato con Maria Elena Boschi ad una festa milanese della scomparsa Unità per mandarlo in depressione.

Formalmente comunque il motivo del contendere fra Pisapia e gli scissionisti del Pd non si chiama Renzi ma Alfano: Angelino Alfano. Che specie da quando è ministro degli Esteri, e quindi uno dei suoi successori alla Farnesina, è diventato per D’Alema irricevibile in tutti i sensi: “uno scarto del centrodestra”, lo ha definito di recente  con disprezzo commentando il rifiuto dei leghisti, dei post-missini e di una parte dei forzisti di raccoglierlo  come alleato almeno in Sicilia, dove si voterà per le regionali il 5 novembre e la percentuale del partito di Alfano, nel frattempo assegnatosi la sigla e il nome di Alternativa Popolare, potrebbe essere decisivo per l’esito finale delle elezioni.

I rapporti con Alfano, più ancora che con Berlusconi, sono quelli insomma che fanno la differenza fra una sinistra buona e una sinistra cattiva, una sinistra genuina e una sinistra contraffatta, una sinistra popolare e una sinistra impopolare. Il povero Pisapia stenta a rendersene conto e Alfano, dal canto suo, prima ancora di essere lasciato dagli amici di partito che non lo seguirebbero in una rinnovata alleanza con Renzi, rischia di scoppiare come la rana della famosa favola di Fedro.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Vi racconto le sfide impossibili di Giuliano Pisapia

Quando il giovanissimo Casini rischiò di rottamare Berlusconi

Non proprio tutto, come forse ha voluto far credere per stare al passo coi tempi, anzi per vantarsi di averli largamente preceduti, ma qualcosa di vero c’è nella rappresentazione che Pier Ferdinando Casini ha appena fatto di se stesso come “rottamatore” negli anni giovanili della militanza democristiana. Ma rottamatore di classe, senza cadere nelle esagerazioni e improvvisazioni del deputato grillino Alessandro Di Battista, da lui redarguito come “cialtrone” nella riunione congiunta delle Commissioni Esteri della Camera e del Senato, dove si è discusso della imminente e piena ripresa delle relazioni con l’Egitto, pur perdurando troppi misteri sul barbaro assassinio del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni al Cairo.

Della Commissione Esteri del Senato Casini è presidente, dopo essere stato presidente della Camera. A sentire il giovane Di Battista imprecare contro il governo come complice degli aguzzini di Regeni egli non è riuscito a trattenersi. E ha poi dichiarato al Corriere della Sera: “Anche io ero un rottamatore, ma studiavo ed ero più umile”.

Partecipe da ragazzo, direi, della corrente democristiana dei “dorotei”, che faceva nella Dc il bello e il cattivo tempo, componendo e scomponendo gli equilibri interni ma anche esterni al partito, Casini aveva l’abitudine di interrompere e fare perdere le staffe ai leader nazionali negli incontri che precedevano o seguivano i maggiori dibattiti nella Direzione o nel Consiglio Nazionale. Fu proprio la sua vivacità a colpire Antonio Bisaglia e a farne assumere una specie di protezione.

Ciò che l’allora potente ministro veneto delle Partecipazioni Statali non si sentiva di dire in prima persona contro Mariano Rumor e/o Flaminio Piccoli lo lasciava dire al giovanissimo Casini, non ancora deputato ma già avanti nella carriera di partito.

Dei due, Piccoli era il più irritabile. Rumor al massimo arrossiva di nervosismo, Piccoli invece inveiva, protestava, batteva i pugni sul tavolo. E Casini, finite le riunioni di corrente, si divertiva a farne il resoconto a noi giornalisti imitando il leader trentino come neppure Maurizio Crozza sarebbe riuscito se fosse nato qualche decennio prima.

I peggiori scontri fra i due avvennero durante l’esperienza della maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale col Pci di Enrico Berlinguer. Che Bisaglia da ministro viveva così male da rischiare nella crisi di gennaio del 1978 la conferma nel passaggio dall’astensione al voto di fiducia dei parlamentari comunisti. A salvarlo, e con lui anche Carlo Donat-Cattin, della sinistra sociale della Dc, fu in una lunga e drammatica riunione alla Camilluccia il presidente del partito Aldo Moro. Che dopo qualche giorno sarebbe stato rapito dalle brigate rosse.

In una riunione di corrente risalente ai tempi in cui Piccoli da capogruppo democristiano della Camera era diventato segretario del partito Casini lo interruppe così tante volte che lui gli si scagliò quasi addosso sfidandolo a prendere il suo posto e a dimostrare che cosa fosse capace di dire e di fare.

Quando riferii a Indro Montanelli il racconto fattomi di quella riunione da Casini, al direttore del Giornale si illuminarono gli occhi. Aveva trovato lo spunto per il suo Controcorrente del giorno dopo, che scrisse di botto facendomi solo il piacere di non nominare Casini. Ma di Piccoli scrisse che “diavolo di un uomo, ha perso anche quello che non ha: la testa”.

L’indomani mi telefonò nella redazione romana del Giornale Silvio Brrlusconi, angosciato come mai più l’avrei sentito. “Non ho comperato il Giornale -mi disse- per non fare più l’imprenditore”.

Invece di rottamare Piccoli, senza volerlo e saperlo Casini aveva insomma rischiato di rottamare Berlusconi.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

Il miracolo siciliano di Rosario Crocetta

Con quel nome e quel cognome che porta sarebbe sin troppo facile ironizzare sul governatore uscente della Sicilia, che nei suoi anni di guida alla regione ha cambiato più assessori -cinquantesette- che scarpe e cravatte.

Rosario Crocetta è passato in un istante dal massimo della conflittualità al massimo della collaborazione con Matteo Renzi. E’ bastato che il segretario del Pd si decidesse finalmente a riceverlo, e non fargli più fare anticamera, metaforica o reale che fosse, o non si facesse più negare al telefono, al telefonino, al megafono, come si chiama il movimento o la lista del quasi ex governatore, perché tornassero fra di loro la pace e il rispetto.

Il fantasmagorico Crocetta ha rinunciato d’incanto alle primarie che reclamava con tanto di statuto del Pd in mano, ma che nei mesi scorsi aveva sdegnosamente rifiutato a chi gliele aveva offerte all’interno del partito, per riconoscerne ormai la impraticabilità  e garantire l’appoggio al candidato alla sua successione, scelto in sostanza dal sindaco  quasi  a vita di Palermo Leoluca Orlando, da Renzi e da Angelino Alfano: il rettore dell’Università palermitana Fabrizio Micari, considerato sino al giorno prima inadatto alla corsa e alla fine risparmiato generosamente alla figuraccia di prendere meno voti di lui in una contesa diretta.

Ora il professore Micari, per quanto appeso ancora ai tentennamenti di Giuliano Pisapia, ha un solo concorrente a sinistra: Claudio Fava, le cui probabilità di elezione sono pari allo zero. In compenso, potrebbe soddisfare l’attesa spasmodica della sconfitta politica di Renzi, che accomuna, tra Roma -zona Prati- e Bettola, Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani.

A sentire o leggere i retroscenisti, le mele con le quali il segretario del Pd ha ingolosito Crocetta sono state la promessa di un incarico dirigenziale nel partito e qualche seggio per i suoi al Senato, dove peraltro sembra che lo stesso Renzi voglia candidarsi per fare rimpiangere all’assemblea di Palazzo Madama la prospettiva bocciata nel referendum del 4 dicembre di trasformarla in una specie di dopolavoro di consiglieri regionali e sindaci, sprovvista del potere di dare o negare la fiducia ai governi, ma onorata dalla sopravvivenza dei superstiti senatori a vita.

Il senatore Renzi con le mani in tasca mentre parla, i pantaloni stretti alla caviglia, il petto in fuori sarebbe obiettivamente uno spettacolo imperdibile al Senato, dove già egli esordì come presidente del Consiglio nel 2014 annunciando che quella da lui chiesta per il proprio governo sarebbe stata l’ultima fiducia di quella pletorica e assonnata assemblea: l’ultima per quel giorno.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Che cosa si sono detti davvero Renzi e Crocetta

I consigli non richiesti del Foglio a Matteo Renzi

Claudio Cerasa, il direttore del Foglio che Marco Travaglio suole sfottere chiamandolo “ragioniere”, come se i titolari di questo pur dignitoso diploma fossero da buttar via, ogni tanto dà consigli non richiesti al segretario del Pd Matteo Renzi: in genere per raccomandargli Silvio Berlusconi. Che ha col Foglio fondato dall’amico Giuliano Ferrara un rapporto intimo, essendone stato praticamente il primo editore, ricambiato di stima e affetto con la qualifica spiritosa ma non troppa di “amor nostro”, anche quando le fa grosse agli occhi dei “foglianti”, come nell’inverno scorso contribuendo alla bocciatura referendaria di una riforma costituzionale che pure egli aveva condiviso per un certo tratto del suo percorso parlamentare.

Adesso il cruccio di Cerasa, e credo anche di Ferrara, almeno nei momenti in cui non viene distratto dagli affari pratici e teologici di Papa Francesco, è l’indifferenza ostentata di Renzi per l’interesse che ha Berlusconi a una nuova legge elettorale. Che non lo obblighi ad andare al voto, almeno alla Camera, con un listone unico di forzisti, leghisti, fratelli d’Italia e cianfrusaglie centriste nell’assai improbabile tentativo di raccogliere il 40 per cento dei voti e il conseguente premio di maggioranza. Al Senato, certo, il risultato potrebbe essere diverso perché diverse sono le regole, ma un vantaggio a Montecitorio potrebbe aiutare Berlusconi a cercare i voti necessari al centrodestra per garantirsi la fiducia anche a Palazzo Madama.

Che cosa se ne farebbe Renzi -gli ha praticamente e amichevolmente chiesto Cerasa- di un Berlusconi prigioniero della destra leghista e post-missina dopo una campagna elettorale blindata con un listone? In caso di vittoria alla Camera l’uomo di Arcore, poco importa se in prima o per interposta persona per i noti problemi della sua attuale incandidabilità,  non potrebbe fare a meno dei suoi alleati. Che, salvo Pier Ferdinando Casini, sono gli stessi ai quali lui ha già rimproverato di non avergli permesso di fare quello che avrebbe voluto negli anni trascorsi a Palazzo Chigi.  In caso di sconfitta, diventerebbe complicata la scomposizione della lista unica del centrodestra in diversi gruppi per consentire a quello di Forza Italia di riprendersi libertà d’azione e partecipare col Pd ad una maggioranza che Renzi ha definito “del buon senso”, alludendo proprio ad un’intesa con Berlusconi dettata dall’inderogabile bisogno di governabilità del Paese.

Paradossalmente converrebbe insomma a Berlusconi più una legge col premio virtuale alla coalizione che quella in vigore per la Camera, dove il premio di maggioranza -sempre virtuale, perché francamente sono tutti abbastanza lontani dalla soglia o dal traguardo del 40 per cento dei voti- è assegnato alla lista.

E’ tuttavia difficile che Renzi possa accettare i consigli del Foglio perché francamente un Berlusconi regista di una lista unica con leghisti e post-missini si scopre sul versante moderato di quel tanto che serve appunto al segretario del Pd per pescare voti al centro: l’unica direzione verso cui egli può crescere dopo la scissione subita a sinistra.

Sono tutti discorsi o ragionamenti, questi, che naturalmente prescindono dalla disgraziata ipotesi -tanto per Renzi quanto per Berlusconi- di una vittoria dei grillini, anche nella versione moderata appena offerta a Cernobbio da Luigi Di Maio, o della loro possibilità di distribuire le carte nella nuova legislatura. Essi strizzerebbero l’occhio alla destra leghista o alla sinistra di tendenza bersaniana, già pronta d’altronde a collaborare col movimento delle 5 stelle all’inizio di questa diciassettesima legislatura, quando l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si mise di traverso.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Vi racconto il balletto fra Renzi e Berlusconi sulla legge elettorale

Alessandro Di Battista nei panni di Massimo d’Azeglio

Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici, o il Che Guevara de’ noantri per chi scherza sulla sua passione per le moto e per l’America del Sud, che lo accomuna al ricordo del famoso guerrigliero argentino immortalato a Cuba con un mausoleo,  medita dunque di contendere al più giovane Luigi Di Maio la candidatura pentastellata a Palazzo Chigi. Il suo programma è al tempo stesso meno ambizioso e più storico di quello coltivato ed esposto a Cernobbio dal vice presidente della Camera, Di Maio appunto, che pensa di fare dell’Italia una “Nazione Smart”, tutta tecnologica, nervosa, scattante, per niente ingombrante, infilabile anche nel più piccolo spazio lasciato dai paesi concorrenti nel mercato che siamo ormai abituati a chiamare globale.

Il simpatico Dibba, che una volta in televisione incantò persino l’esigentissimo Eugenio Scalfari per la sua parlantina, ed anche per la capacità di incassare furbescamente con sorrisi e stupori le critiche che gli rivolgeva il socratico fondatore della Repubblica, quella naturalmente di carta, è fermo alle preoccupazioni di Massimo Taparelli, marchese d’Azeglio. Chedal 1849 al 1852 precedette addirittura Camillo Benso di Cavour alla presidenza del Consiglio dell’allora Regno di Piemonte e Sardegna e disse, al compimento del Risorgimento, che “fatta l’Italia, bisogna fare adesso gli italiani”, dotandoli di “doti virili” e liberandoli  dei tanti vizi accumulati in secoli di divisioni e sottomissioni: l’indisciplina, l’irresponsabilità, la pusillanimità, la disonestà ed altro ancora.

Di Battista ha maturato sui banchi parlamentari di Montecitorio e sulle moto che usa viaggiando per la penisola la stessa certezza di d’Azeglio, che cioè “il problema dell’Italia sono gli italiani”. E credo, obiettivamente, che non gli si possano dare tutti i torti, come dimostra anche il fatto che quasi un terzo degli italiani, appunto, non dei francesi o dei tedeschi o degli spagnoli vota per un partito come il movimento delle cinque stelle ridendo, piangendo, imprecando al seguito del comico di professione Beppe Grillo. Che sarà magari davvero più simpatico e persino migliore di un Silvio Berlusconi o di un Matteo Renzi, senza volere scomodare Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Giuliano Pisapia o, a destra, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ma resta avvinto come l’edera alla sua professione di comico, per cui ogni volta che parla, insulta o elogia -assai di rado- non si riesce mai a capire se faccia sul serio o per scherzo. E la stessa sensazione si avverte quando si osservano i suoi adepti alla guida delle città dove gli elettori li hanno mandati: per esempio, a Roma.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Alessandro Di Battista, il Massimo d’Azeglio a 5 stelle

L’Italia Smart promessa e immaginata a Cernobbio da Di Maio

Evviva. Luigi di Maio, il vice presidente grillino della Camera che vorrebbe candidarsi a Palazzo Chigi per rivoltare l’Italia come un calzino, visto che 25 anni fa un’analoga impresa fallì nelle mani e fra i piedi del pool milanese di magistrati schierati contro i vecchi e corrotti partiti di governo, trattati come associazioni a delinquere senza tuttavia incorrere formalmente in questo tipo di reato, è corso a Cernobbio per promettere e disegnare la nostra -o la loro- Nazione Smart.

Come pubblicità all’omonima macchina esportata dai tedeschi, di cui Di Maio ha lamentato peraltro il surplus commerciale che già penalizza tantissimo gli altri soci dell’Unione Europea, non è francamente male. D’altronde proprio sulle ruote delle automobili cammina buona parte della ripresa in corso, che ha fatto ottimisticamente parlare il presidente del Consiglio in carica della “crisi peggiore alle spalle”.

La graziosa, supertecnologica, scattante macchina tedesca, che sfreccia sulle nostre strade e autostrade come un proiettile, e moltiplica nelle città le capacità dei posteggi per le sue dimensioni, deve e dovrà però fare metaforicamente i conti, nel caso malaugurato in cui dovesse capitare al partito di Di Maio di vincere le elezioni, con l’incompetenza e l’inaffidabilità politica di una classe dirigente che ha avuto l’imprudenza di mettersi alla prova in una città come Roma. L’imprudenza per i grillini, ma forse la fortuna per i non grillini, che hanno così avuto modo di vedere e capire di cosa gli altri siano capaci.

Di Maio, poverino, tutto preso a ripetere un discorso che presumo si fosse preparato con largo anticipo, magari nel pulmino elettrico che gli ha fatto percorrere in pochi giorni duemila chilometri, non si è accorto di parlare ai marpioni della finanza e dell’industria nello stesso giorno in cui la sindaca grillina della Capitale, appunto, conquistava le prime pagine dei quotidiani per la figuraccia fatta nell’incontro da lei stessa sollecitato col ministro dell’Interno Carlo Minniti sul tema dell’immigrazione e degli alloggi da garantire a chi è stato giù sfollato dai palazzi occupati abusivamente o dovrà ancora esserlo.

La sindaca ha chiesto, anzi reclamato a questo scopo l’uso delle caserme militari ormai dismesse, che in effetti si prestano assai bene, per le loro strutture e per le loro collocazioni nel territorio di Roma, all’uso degli sfollati e simili. Ma la povera sindaca, tutta presa nel suo primo anno di guida della città a sostituire assessori, dirigenti e altri collaboratori ad un ritmo che ha incuriosito oltre Oceano persino il presidente americano Donald Trump, sembra non essersi accorta che da quattro anni, cioè da ben prima che lei si insediasse nella torre capitolina, lo Stato ha praticamente ceduto al Comune sei caserme, o edifici simili, dove nulla è cambiato nel frattempo. E dove temo che la sindaca non sia andata mai a fare un sopralluogo, né con una Smart né a piedi.

La politica prigioniera della logica e dei rituali del ring

A dimostrazione, anzi a conferma del fatto che la politica italiana è prigioniera della logica e dello spettacolo del ring, che divide sempre il pubblico fra i tifosi di uno o dell’altro dei contendenti, non unendolo mai, o quasi mai, nella valutazione obiettiva del risultato finale della partita, sono arrivate le reazioni al pur misurato sollievo espresso a Cernobbio dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, nell’annuale Forum Ambrosetti, per “la crisi peggiore ormai alle spalle”. E nel rispetto -ha precisato il conte- di regole europee pur discutibili nei  contenuti rispetto alle loro finalità.

Al netto delle posizioni estreme- della destra, della sinistra e dei grillini- che inseguono il vantaggio elettorale della negazione o della minimizzazione di ogni miglioramento della situazione economica e sociale, la discussione che si è aperta sul sollievo di Gentiloni riguarda chi ha più il diritto di vantarsi del passo compiuto in avanti, più o meno lungo che esso sia o possa essere. E la divisione è stata, ed è, fra chi ne attribuisce il merito solo o soprattutto all’attuale presidente del Consiglio per gli otto mesi  pazientemente trascorsi a Palazzo Chigi o anche a chi lo ha preceduto per tre anni guidando, magari impazientemente, la stessa coalizione di governo e, in prevalenza, gli stessi ministri.

La discussione si è subito spostata insomma sulla effettiva “continuità” vantata dallo stesso Gentiloni e dal suo predecessore Matteo Renzi, ora soltanto segretario del Pd, o sulla “discontinuità” ogni tanto -non sempre- avvertita dalla componente più agitata e sofferente della maggioranza. Che è quella costituita dai vari Bersani, D’Alema, Speranza, Gotor: tutti usciti, o scappati, dal Pd per non partecipare neppure come minoranza alla conferma congressuale del segretario uscente.

Per costoro l’obiettivo finale del proprio impegno politico non è il pur proclamato desiderio di una politica più di sinistra, o di sinistra tout court considerando di destra quella praticata dal Pd, ma la sconfitta finale di Renzi: il nuovo nemico da abbattere, come furono Bettino Craxi negli anni conclusivi della cosiddetta prima Repubblica e Silvio Berlusconi nella seconda.

Senza il ring questo tipo di sinistra, ormai arcaica nei contenuti e nei comportamenti, anche quando salgono sul palcoscenico giovanotti come Roberto Speranza, non sa vivere. Non si sente di casa nella politica. Non si sente insomma realizzata. E declassa a puri fattori tecnici quei successi altrui che non può decentemente negare, come ha appena fatto il solito Massimo D’Alema commentando l’azione del suo ex compagno di partito e di corrente Carlo Minniti al Viminale, alle prese con un fenomeno come quello dell’immigrazione.

Liquidare Minniti come un tecnico, alla stregua di un prefetto della Repubblica, e forse neppure di prima classe, o di un alto funzionario di Polizia, è obiettivamente qualcosa che grida, diciamo così, vendetta. E contribuisce a fare avvertire il livello cui è arrivata in Italia la lotta politica, per non parlare di quello cui la vorrebbero portare i grillini, che si sono appena proposti proprio a Cernobbio col vice presidente della Camera Luigi Di Maio, aspirante a Palazzo Chigi, come “l’ultima speranza” degli italiani. L’ultima speranza o l’ultima idea, vecchia pubblicità di una bara fra le più vendute in Italia ? Fuori le mani dalle tasche dei pantaloni, per favore.

Nostalgici delle brigate rosse a Napoli e dintorni

Non ci crederete ma vi sono ancora nostalgici delle brigate rosse a Napoli e dintorni, dove 36 anni fa l’organizzazione terroristica che aveva già insanguinato mezza Italia, e assassinato a Roma Aldo Moro dopo 55 giorni di prigionia, sequestrò l’assessore campano ai lavori pubblici Ciro Cirillo , democristiano della corrente di Antonio Gava, liberandolo in cambio di un miliardo e 450 milioni di lire.

In polemica con una mia rievocazione di quel sequestro su Il Dubbio,   e dei misteri che si è portato appresso il 30 luglio scorso l’ex amministratore locale della Dc morendo a 96 anni di età,  e non lasciando memoriali di sorta a qualche notaio, come aveva promesso o minacciato ma poi anche smentito, ho ricevuto per Facebook un’intervista su quella vicenda che avrebbe forse fatto invidia a Omero per il tono epico usato nella motivazione e descrizione dei fatti.

Ho così scoperto a tanti anni di distanza, e grazie al racconto di uno dei dirigenti dell’allora colonna napoletana delle brigate rosse, Vittorio Bolognesi, fatto il 1° agosto scorso al giornale on line dichiaratamente e orgogliosamente comunista Controcampo, che grazie al sequestro appunto di Cirillo fu evitata una “deportazione di massa”, addirittura. Essa sarebbe stata cinicamente progettata dalla Dc politica e malavitosa all’ombra della ricostruzione dopo il terremoto in Campania del 1980.

Il rapimento fu concepito, realizzato e concluso per impedire, in particolare, “la deportazione del proletariato da tutto il centro storico verso la palude delle periferie”, lasciando spazio ai “grandi affari” dei soliti speculatori, costruttori, camorristi e quant’altri. Che poi gli  affari -in verità- li realizzarono lo stesso, nonostante l’eliminazione politica di Cirillo. Ma questa magari è un’altra storia che ci verrà raccontata e spiegata in occasione della scomparsa di qualche altro dei sopravvissuti al sequestro, forse fra quanti stanno scontando la pena in carcere per quell’avventura. Ne esistono, ha lamentato Bolognesi, non avendo avuto evidentemente l’occasione, la fortuna e non so cos’altro di Giovanni Senzani. Che si rimediò proprio per quel sequestro uno dei suoi ergastoli ma vive in regolare, legittima libertà, a giusto dispetto  dell’ignoranza di quanti ritenevano ch’egli non si fosse mai davvero pentito.

Una volta rapito l’amministratore locale di riferimento dei “grandi affari”, le povere brigate rosse si trovarono aggirate, assediate, perseguitate e chissà cos’altro dalle complicità fra Dc, camorra e servizi segreti, in grado -collaborando fra di loro- di scoprire prima o dopo il luogo dove Cirillo era rinchiuso e magari anche chi lo custodiva. Qualche camorrista ebbe anche la sfrontatezza -ha raccontato Bolognesi- di contattare in carcere detenuti aderenti o vicini alle brigate rosse per stabilire rapporti in qualche modo collaborativi venendone sdegnosamente respinti. E fu grazie alla loro bravura e tenuta che gli autori del sequestro riuscirono a gestire da soli la loro impresa incassando almeno la metà della cifra richiesta per finanziare la propria organizzazione: un miliardo e 450 milioni di lire contro i tre pronosticati dopo una fase in cui addirittura i terroristi non avevano pensato nemmeno ad un riscatto, bastando ed avanzando loro la fiducia che si sarebbero guadagnati presso la povera gente difendendola dal rischio della succitata “deportazione”.

Ah, quelle brigate rosse. Altro che arresti, condanne ed anche morti, perché non mancarono certo terroristi uccisi negli scontri con le forze dell’ordine, o uccisi fra di loro nei regolamenti di conto che non mancano mai in queste vicende, specie quando cominciano i tradimenti e non si fanno sconti neppure ai familiari dei traditori, come   provò il sequestro e l’assassinio -sempre in quel 1981 targato Cirillo- di Roberto Peci. Meritavano un monumento quei brigatisti, secondo i nostalgici ora indignati della solita approssimazione con la quale l’informazione osa ancora occuparsi dei loro eroi.

Anche un simile spettacolo doveva offrirci questa pazza estate del 2017.

La deriva politica -ahimè- del guardasigilli Andrea Orlando

E pensare che Andrea Orlando all’indomani della scissione del Pd sembrava avere davanti a sé un buon avvenire nel suo ruolo di unico e serio oppositore interno al segretario uscente e rientrante Matteo Renzi: più solido del troppo imprevedibile  e simil-grillino governatore pugliese Michele Emiliano.

A favore di Orlando si erano schierati abbastanza esplicitamente i più autorevoli esponenti della vecchia guardia comunista rimasti nel partito prodotto nel 2007 dalla fusione fredda fra i resti del Pci e della sinistra democristiana. Scommetteva su di lui, fra gli altri, il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, che quand’era al Quirinale lo aveva personalmente scelto come ministro della Giustizia, preferendolo ad un magistrato in carriera -Nicola Gratteri- incautamente propostogli dal presidente del Consiglio Renzi. Al quale Napolitano spiegò come non fosse opportuno fare direttamente di una toga il guardasigilli, anche se qualche precedente -cercò di interromperlo Renzi- si poteva trovare con un po’ di buona volontà nella storia della Repubblica.

Su Andrea Orlando la vecchia guardia comunista rimasta nel Pd scommise non perché si illudesse di poterlo portare alla segreteria del partito, essendo scontata ormai la conferma di Renzi, ma perché convinta che egli potesse funzionare da raccordo con la sinistra esterna al Pd per collaborarvi dopo le elezioni, nella logica delle coalizioni imposte dalla prospettiva di un sistema elettorale ormai proporzionale.

Uno scenario del genere presupponeva però non solo la capacità di Orlando di raccordarsi con gli scissionisti ma anche quella di non sentirsi e tanto meno di essere alternativo al segretario e alla maggioranza del proprio partito. Invece il guardasigilli ha finito per subire da allora una deriva di estremizzazione che ne ha compromesso l’agibilità come possibile presidente del Consiglio, per esempio, di un centrosinistra largo. La sua deriva ha avvantaggiato prima Giuliano Pisapia e poi, quando anche l’ex sindaco di Milano ha cominciato a perdere colpi come uomo di raccordo, il buon Paolo Gentiloni. Al quale sarà molto più facile che Renzi accetti di cedere la destinazione di Palazzo Chigi se non gli dovesse riuscire di tornarvi personalmente.

L’ultimo passo della deriva estremizzante di Orlando, che ne ha fatto la copia sbiadita del fuoriuscito ed ex capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza, è stato quello di polemizzare col compagno di partito e collega di governo Marco Minniti sul fenomeno dell’immigrazione, secondo lui drammatizzato dal ministro dell’Interno come un rischio di destabilizzazione della democrazia se non gestito con una certa fermezza.

La sottovalutazione dell’incidenza elettorale del fenomeno migratorio, contestatagli tempestivamente da Renzi con un elogio di Minniti tanto più significativo dopo le voci che davano anche lui insofferente della crescita del ruolo e del credito del ministro dell’Interno, allontana decisamente Orlando dall’idea che se ne erano fatti politici navigati della sua parte politica, spintisi nei mesi scorsi a condividere un mio personale, e temo affrettato, paragone degli esordi governativi del guardasigilli piddino a quelli di Aldo Moro, ministro di prima nomina proprio alla Giustizia nel lontano, anzi lontanissimo 1955.

La deriva politica di Orlando nella diaspora ormai della sinistra, che si sta avvicinando alle elezioni siciliane di novembre con ben tre candidati alla presidenza della regione, si riflette purtroppo anche sulla sua azione di governo, distraendolo per esempio dal dibattito che si è aperto all’interno della magistratura sulla natura della giurisdizione dopo gli eccessi giustizialisti, riconosciuti anche dalla sua maggiore o più storica componente di sinistra, e sulla necessità sempre più avvertita di sottrarre le nomine direttive ad un combinato disposto devastante come il carrierismo e il correntismo.

Esplosiva, a quest’ultimo proposito, è la salutare proposta appena fatta da uno dei migliori magistrati italiani, il giudice Guido Salvini, in servizio al tribunale di Milano, di tagliare finalmente la testa al toro e di sorteggiare i vincitori dei concorsi alle cariche direttive fra i quattro o i cinque candidati prescelti nella sede del Consiglio Superiore della Magistratura. Le nomine così non sarebbero più “percepite”- ha detto Salvini in una intervista al Dubbio come “scelte politiche” o di corrente. Non ha nulla da dire il guardasigilli? O è troppo preso da altri problemi?

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Vi racconto la deriva politica del ministro Andrea Orlando

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