Renzo Piano senatore a vita particolare

         Attirato da un commento, al solito urticante, del costituzionalista Paolo Armaroli, peraltro suo ex collega di partito e di gruppo parlamentare, quando c’era ancora Alleanza Nazionale, il vice presidente del Senato Maurizio Gasparri, oggi di Forza Italia, ha verificato con molta discrezione presso i competenti uffici di Palazzo Madama la regolarità della posizione del senatore a vita Renzo Piano. Al quale il 30 agosto 2013 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano conferì, insieme ad altri, il laticlavio in base all’articolo 59 della Costituzione, per avere “illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”.

         Nomina meritatissima per il valore dell’architetto fra i più famosi, se non il più famoso in assoluto nel mondo. Ma regolare ? si sono chiesti prima il professore Armaroli, molto scettico scrivendone sul Giornale con un bel richiamo in prima pagina, e poi il già ricordato vice presidente dell’assemblea di Palazzo Madama dopo avere appreso dallo stesso senatore a vita ch’egli è cittadino francese, o anche francese, essendosi appena vantato, in una intervista al Corriere della Sera raccolta da Aldo Cazzullo, di avere votato a Parigi il vincente Emmanuel Macron alla Presidenza della Repubblica di Francia.

         Letto e riletto l’articolo 59 della Costituzione, i funzionari del Senato hanno ritenuto che la nomina sia stata e sia da ritenersi regolare, anche se la giunta per pronunciamenti del genere -quella delle elezioni e immunità- è composta naturalmente da senatori, e non da funzionari.

         In effetti, alla lettera, si può avere onorato e si può ancora onorare la Patria, intesa in senso natale, anche lavorando o abitando o votando per o da un certo periodo anche all’estero.

         Il Quirinale, d’altronde, dispone di uffici attrezzati per esaminare questioni del genere quando il presidente di turno della Repubblica decide una nomina di questo genere. Lo stesso dovrebbe dirsi degli uffici di Palazzo Chigi, essendo i decreti del capo dello Stato controfirmati anche in questo caso dal capo del Governo. Lo stesso infine dovrebbe dirsi degli uffici del Senato, dove si istruisce la pratica da inoltrare alla giunta delle elezioni e delle immunità per la convalida.

         Tutto a posto quindi, anche se al professore Armaroli sembra che sia rimasto qualche dubbio. Di una cosa comunque il professore è certo, e sicuramente a ragione: quello del senatore a vita Renzo Piano è un caso unico nella storia della Repubblica, consapevole o non che fosse nel nominarlo il capo dello Stato dell’epoca. Non risultano altri precedenti del genere.

         Si può quindi ben dire che l’architetto Renzo Piano, 80 anni a settembre magnificamente e fortunatamente portati, è particolare, anzi unico, anche come senatore a vita.

 

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De Bortoli serve a Renzi il piatto freddo della vendetta

Anche Ferruccio de Bortoli dev’essere convinto- magari a sua insaputa, perché ci sono cose che ti entrano nella testa senza che te ne accorga- che il primo requisito del piatto della vendetta è il freddo. La vendetta, o ritorsione, chiamatela come volete, dev’essere cioè consumata ad una certa distanza da un torto subìto. E fu sicuramente tale, cioè un torto, l’allontanamento dell’allora direttore del Corriere della Sera, deciso dalla composita ma imbarazzata, o addirittura impaurita, proprietà del maggiore quotidiano italiano per la sua linea neppure d’attacco ma di critica pressante al governo di Matteo Renzi.

Con quel 40 per cento e più di voti guadagnato in pochissimi mesi nelle elezioni europee della primavera del 2014 l’allora presidente del Consiglio, oltre che segretario del Pd, riteneva di essere diventato fortissimo, praticamente invincibile. De Bortoli invece lo riteneva vulnerabile per il modo troppo personale e sbrigativo con cui l’ex sindaco di Firenze si muoveva alla guida della compagine ministeriale: sino ad apparirgli e a dargli, alla fine, del “maleducato di talento”. Attorno al quale l’allora direttore del Corriere avvertiva anche un certo sentore di massoneria che a lui, evidentemente non massone, non piaceva per niente. E di cui, magari, neppure Renzi si rendeva perfettamente conto, ma questo, a dire il vero, de Bortoli non lo aggiunse, come invece può accadere e vi racconterò per modestissima esperienza personale.

Ebbene, a distanza di due danni dalla fine della sua seconda direzione del giornale milanese della ormai celeberrima via Solferino, il non ancora anziano Ferruccio, che il 20 maggio compirà solo 64 anni, beato lui, visto che io ne ho un po’ meno di 15 in più, ha dato alle stampa un libro sui “poteri forti, o quasi”, conosciuti, frequentati e sfiorati nella sua lunga e prestigiosa carriera, che ha già provocato un finimondo politico.

Ai grillini, in difficoltà per tante ragioni, nonostante la sicurezza ostentata di vincere le prossime elezioni, con qualsiasi legge vi si dovesse arrivare, si sono buttati a capofitto sulle rivelazioni dell’ex direttore del Corriere per reclamare le dimissioni della potente e renzianissima sottosegretaria tuttofare alla Presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi. Che, dal canto suo, ha già annunciato o minacciato querela contro de Bortoli, ma difficilmente potrà sottrarsi quanto meno a un dibattito parlamentare per l’accusa rivoltale dall’autore del libro di avere chiesto, sia pure inutilmente, come ministra ancora delle riforme e dei rapporti col Parlamento all’allora amministratore delegato dell’Unicredit, Federico Ghizzoni l’acquisto, e quindi il salvataggio, della traballante Banca Etruria, di cui papà Boschi era vice presidente.

 

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L’ex direttore del Corriere non si è tuttavia limitato a questa rivelazione, salvo smentite mediatiche o giudiziarie, vista la forte reazione della furente sottosegretaria, ma ha cercato di raccontare anche la storia un po’ troppo massonica, secondo lui, di quella benedetta o maledetta banca, secondo i punti di vista, ricordandone il fondatore e a lungo padrone e il voto decisivo, e forse neppure valido, di un consigliere massonico per la nomina del successore. Un consigliere peraltro abituato come altri colleghi, prima e dopo di lui, a usufruire di prestiti dalla banca finiti troppo spesso in sofferenza,a dir poco.

Ma non è finita neppure qui. Ferruccio, che è -lo scrivo per i troppo giovani che non lo conoscessero- un giornalista di formidabile memoria e di frequentazioni di altissimo livello, consolidate alla guida di settori e di giornali di non meno alta qualità, com’era ai suoi tempi anche il quotidiano della Confindustria 24 Ore, ha raccontato della presenza della massoneria -sempre lei, e sempre in Toscana- in un altro affaraccio bancario italiano. Che porta il nome del Monte dei Paschi di Siena, dal cui allora presidente Alessandro Profumo l’autore del libro raccolse confidenze, ragionamenti, allusioni e paragoni con tanti, misteriosi punti da collegare insieme, come in un gioco enigmistico, per ricavare una tela, un percorso, un’immagine, appunto, massonica.

D’altronde nella terra pur politicamente rossa della Toscana la massoneria è stata sempre di casa, per quanto si sia abituati a pensarla come qualcosa d’incompatibile col rosso o con l’ideologia e la pratica del comunismo e derivati.

Non dimenticherò mai un’esperienza vissuta personalmente nel 1983, quando lasciai con Enzo Bettiza il Giornale fondato e allora diretto ancora da Indro Montanelli e fummo entrambi assunti dall’allora gruppo Monti, trattando personalmente con l’editore: Enzo per diventare direttore editoriale del Resto del Carlino e della Nazione e io redattore capo e editorialista della Nazione.

Un collega anziano e molto autorevole del gruppo Monti mi chiamò in disparte nella Sala Stampa romana di Piazza San Silvestro, dove i due giornali avevano le postazioni dei loro corrispondenti, per chiedermi con l’aria più naturale del mondo a quali o quale loggia massonica appartenessimo Enzo ed io. E mi scambiò per un pazzo, per quanto fossimo amici da vecchia data, per avergli risposto male. Quando ne riferii a Bettiza, lui rise confidandomi di essersi sentito rivolgere praticamente la stessa domanda a Milano da un suo ex collega del Corriere della Sera.

Vi potrei raccontare altro ancora, di questa storia o favola della massoneria onnipotente in Toscana, con cui spesso scherzava con me l’allora ministro socialista e carissimo amico Lelio Lagorio, grandissimo signore, ma sarebbe superfluo.

 

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Naturalmente il libro di Ferruccio de Bortoli è destinato ad avere un impatto politico forse superiore ai suoi stessi pur grandi meriti per il clima politico nel quale arriva nelle librerie. Che è il clima, come vado ripetendo da tempo e come ha avuto la cortesia di riconoscermi l’amico Michele Arnese commentando le ripercussioni italiane della vittoriosa scalata di Emmanuel Macron all’Eliseo, di una lunga, troppo lunga, faticosa e velenosa campagna elettorale. Che non è solo la somma di tante campagne elettorali che si inseguono, come quella referendaria chiusasi il 4 dicembre scorso sulla riforma costituzionale o quella delle amministrative già indette per l’11 giugno. E‘ una campagna elettorale nazionale vera e propria, per quanto non indetta, e destinata a sfociare alla scadenza ordinaria o anticipata della legislatura in elezioni non si sa ancora con quali regole. Delle quali si è ripreso a parlare ad alta voce proprio in questi giorni nella solita confusione delle lingue e delle idee, tra aperture e chiusure per ora più tattiche che sostanziali, per cui cercare di venirne a capo è più un azzardo che altro.

Ma avremo modo di parlarne e scriverne, nella speranza, almeno questa, che non finisca come temo che temi -scusate la ripetizione- il povero presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Al quale l’illustrissima e degnissima dirimpettaia Corte Costituzionale ha fatto il regalo mostruoso, lavorando di cucito in questi ultimi tre anni, di due leggi diverse per Senato e Camera, entrambe dichiarate di immediata applicabilità, che però produrrebbero, se davvero applicate come sono, un Parlamento a dir poco schizofrenico.

D’altronde ci può consolare il famoso proverbio latino tramandatoci da Cicerone: summum ius, summa iniuria. La Corte Costituzionale è tanto somma che l’articolo 137, terzultimo della Costituzione, dice che contro le sue decisioni “non è ammessa alcuna impugnazione”. E’ già un miracolo che la stessa Corte abbia riconosciuto al Parlamento il diritto di tornare a legiferare in materia elettorale, ma se ne avrà la voglia, la capacità e il tempo. Si vedrà.

 

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Salvini regalerà un binocolo a Berlusconi

         Il segretario leghista Matteo Salvini si consolerà domenica prossima, 14 maggio, della sconfitta subita in Francia dalla sua leader di riferimento, Marine Le Pen. Egli conta di vincere proprio quel giorno a mani basse il congresso del proprio partito. Dove -ha annunciato in una intervista a Repubblica- arriverà con una proposta di conferma firmata dall’87 per cento dei “militanti”, per quanto il suo concorrente -che non si è neppure degnato di nominare e rivelare quindi ai lettori non leghisti del giornale- abbia goduto e goda dell’appoggio di due pezzi grossi del movimento come il fondatore Umberto Bossi e il governatore della Lombardia, ed ex ministro, Roberto Maroni.

         Salvini ha inoltre sintetizzato così il significato e la portata del congresso: “Si potranno votare due idee di Lega. Una che torna nel suo recinto e si allea obbligatoriamente con Berlusconi, come vuole Bossi. O la mia: un partito forte, con le mani libere, che se vuole si allea, altrimenti no, perché non ce l’ha ordinato il medico”.

         Per rendere meglio l’idea che ha di Berlusconi, specie dopo che l’ex presidente del Consiglio si è compiaciuto della vittoria di Emmanuel Macron nelle elezioni presidenziali francesi e ha ammonito il segretario della Lega che sulle sue posizioni, e una sua candidatura a Palazzo Chigi, un rinnovato schieramento di centrodestra non potrà mai vincere, Salvini ha detto: “Mi incuriosiscono molto i macronisti italiani, Renzi e Berlusconi, i cui omologhi partiti francesi non sono neanche arrivati al ballottaggio. Marine Le Pen ha ottenuto 11 milioni di voti e rappresenta il secondo partito del suo paese: numeri che Pd e Forza Italia vedono col binocolo”.

         I bene informati assicurano che sia proprio un binocolo il regalo che Salvini ha deciso di fare a Berlusconi il 29 settembre prossimo, quando il presidente di Forza Italia compirà 81 anni e sarà ancora in attesa, probabilmente, della sentenza della Corte di Strasburgo sulla quale punta per riottenere in tempo per le prossime elezioni il diritto alla candidabilità.

A 39 anni dalla morte aumentano i misteri del delitto Moro

Per quanto l’attualità politica sia ben altra, quasi all’indomani di due fatti -l’elezione di Emmanuel Macron a presidente della Repubblica di Francia e il ritorno di Matteo Renzi alla segreteria del primo partito d’Italia- che potrebbero finire per intrecciarsi e riservarci sorprese, vedremo se più amare o più dolci, secondo i gusti naturalmente; e mentre Sergio Mattarella riceve all’estero da Roma notizie che lo incoraggiano forse a sperare che sia la volta buona perché si proceda finalmente in Parlamento a varare quella riforma o riformetta elettorale da lui ritenuta necessaria per affrontare una eventuale crisi di governo con tutti i poteri conferitigli dalla Costituzione, compreso quello di sciogliere anticipatamente le Camere, già troppo consumate di loro, e rimandare gli italiani alle urne; per quanto, dicevo, ci siano tante cose a bollire nella pentola dell’attualità politica, non riesco a togliermi dalla testa un ennesimo, triste anniversario.

Sono oggi trascorsi ben 39 anni dal 9 maggio del 1978, quando una banda di sciagurati delle brigate rosse -al minuscolo, per favore, come raccomandava la buonanima di Sandro Pertini per non confonderle con quelle omonime da lui conosciute durante la Resistenza, con la maiuscola naturalmente- uccise Aldo Moro, che era allora il regolo della politica italiana, dopo una prigionia di 55 giorni, cominciata col sequestro e la strage della sua scorta a poche centinaia di metri da casa, a Roma. Un omicidio, quello di Moro, dichiaratamente compiuto dagli assassini sparandogli nel bagagliaio di un’auto chiusa in un box della palazzina dove era stato nascosto. Un’auto poi guidata per mezza città, sfidando controlli e incidenti, per essere posteggiata provocatoriamente a due passi dalle sedi dei due partiti -la Dc e il Pci- che avevano impedito di trattare il rilascio dell’ostaggio liberando tredici detenuti per reati di terrorismo definiti “prigionieri politici” dai banditi. Era peraltro anche il giorno di una importante riunione della direzione nazionale della Dc, attesa da Giovanni Leone per firmare, come vedremo, materialmente una grazia nel tentativo disperato di fermare gli assassini.

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Già divisasi nella decisione di chiudere il sequestro nella stessa maniera tragica in cui l’avevano cominciato, cioè versando sangue innocente, l’infausta “direzione strategica” delle brigate rosse ordinò l’esecuzione della “sentenza di morte” in tempo per impedire che l’allora presidente della Repubblica, Leone appunto, forse anche per questo costretto poi a dimettersi dai sostenitori della linea della fermezza sei mesi prima della scadenza del proprio mandato, firmasse un provvedimento di clemenza predisposto per Paola Besuschio. Ch’egli aveva scelto in assoluta autonomia e con criteri umanitari, per le sue precarie condizioni di salute, fra i 13 detenuti di cui i terroristi avevano reclamato la liberazione.

Così i brigatisti, informati con una tempestività che avrebbe angosciato il povero Leone sino alla morte, nel 2001, si risparmiarono il fastidio, chiamiamolo così, di tornare a dividersi nella valutazione se la grazia alla sola Besuschio potesse essere considerata sufficiente a segnare una loro vittoria nella sfida lanciata allo Stato la mattina del sequestro del presidente della Dc. Che il 16 marzo del 1978 stava recandosi alla Camera per la presentazione del quarto governo del suo collega di partito Giulio Andreotti, appena costituito per disporre della fiducia del Pci guidato da Enrico Berlinguer. E ciò dopo una lunga e difficile trattativa politica condotta per la Dc proprio da Moro. Grazie alla cui capacità di persuasione e di realismo Berlinguer aveva rinunciato al proposito di fare nominare ministri due indipendenti di sinistra eletti nelle liste del Pci, accontentandosi di passare dall’astensione nei riguardi dello stesso governo alla fiducia negoziandone solo l’aggiornamento del programma.

Tutto questo era evidentemente bastato e avanzato alle brigate rosse, e a quanti le controllavano o usavano, a considerare sia Moro che Berlinguer, tenuti di mira da tempo, dei traditori della sinistra e complici del demenziale Stato imperialistico mondiale contro il quale si sentivano impegnati a combattere. E non potendo attentare a Berlinguer, anche perché a quello potevano provvedere direttamente a Mosca e dintorni, come si era già tentato di fare nel 1973 in Bulgaria, attentarono a Moro. Che andava in giro per Roma su un’auto blindata per modo di dire e con una scorta -pace all’anima di tutti i componenti- troppo metodica nei percorsi e soprattutto abituata a mettere nel bagagliaio delle auto di servizio, anziché imbracciarli sistematicamente, i mitra in dotazione.

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La notte della Repubblica, come fu chiamata per diverse e tutte fondate ragioni la stagione del sequestro di Aldo Moro, si è purtroppo infittita, anziché schiarirsi, col passare degli anni. Ogni volta che si è cercato di venirne a capo con indagini giudiziarie e parlamentari, al di là della cattura e della condanna degli autori del sequestro, il buio si è infittito, anziché diradarsi. I misteri sono aumentati, anziché ridursi. E i racconti fatti, con deposizioni giudiziarie, memoriali, interviste e quant’altro dai terroristi condannati, nessuno dei quali più in carcere, si sono rivelati sempre più reticenti. Direi, odiosamente reticenti, evidentemente motivati con la necessità di coprire responsabilità e complicità a dir poco inquietanti, capaci di compromettere ancora più di quanto già non sia accaduto il mito ideale e rivoluzionario, sia pure fallito, delle brigate rosse: sempre al minuscolo, vi raccomando.

L’ultima menzogna, che infittisce la notte della Repubblica, l’ha appena scoperta la commissione parlamentare d’inchiesta sulla vicenda Moro presieduta dall’ex ministro Giuseppe Fioroni con una rilevazione tecnica che incredibilmente nessun inquirente aveva mai ritenuto di effettuare.

Si è accertato, in particolare, che l’auto nel cui bagagliaio i brigatisti uccisero Moro, lasciandone tracce di sangue e altro, non poteva materialmente entrare nel box per consentire loro quell’operazione di morte. Doveva sporgervi di parecchio, e finire a vista di qualunque avesse avuto la ventura di uscire dalla palazzina a quell’ora usando la propria vettura, perché i Mario Moretti e compagni a bagagliaio aperto potessero passarsi l’arma e sparare a turno contro l’ostaggio, come hanno raccontato.

A questo punto è diventato possibile sospettare, o risospettare, tutto: anche che Moro non fosse stato ucciso in quel maledetto box di via Montalcini, né trattenuto in quella palazzina. E chissà dove, allora. E chissà con quali e quante complicità. E chissà con quanti mascalzoni sfuggiti alle loro responsabilità, e magari ancora in grado di nuocere, almeno alla verità.

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I lepenisti italiani sono i grillini, più ancora dei leghisti

Dopo essersi unito la mattina ai compagni -ora anche lui li chiama così- cantando l’inno di Mameli in apertura dell’assemblea nazionale del Pd, in cui è stato proclamato per la seconda volta segretario del maggio partito italiano, Matteo Renzi si è unito la sera davanti alla televisione agli elettori francesi del nuovo presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, cantando la Marsigliese.

Ecco, questa può ben essere indicata come la plastica rappresentazione della domenica assai particolare che ha unito, sia pure su piani diversi, due giovani protagonisti della politica europea.

Macron è ora alla testa di una Repubblica che si propone, specie dopo la cosiddetta Brexit, di ridisegnare il rapporto pur privilegiato tenuto sino all’altro ieri con la Germania nell’Unione Europea. Renzi è di nuovo alla testa di un partito che si propone di rimanere il primo in Italia, anche dopo la scissione subita a sinistra dagli uomini più legati al loro passato comunista, ed è interessato quanto Macron a cambiare lo spartito europeo. Cioè, a partecipare ancora all’Europa per cambiarla, non per uscirne alla prima occasione: con un referendum dove esso è costituzionalmente possibile, com’è avvenuto in Gran Bretagna, in qualche altro modo da inventarsi dove lo strumento referendario è impraticabile per queste decisioni, come in Italia.

Qui smaniano di uscire dall’Europa non solo i leghisti di Matteo Salvini e i fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che encomiabilmente -dal loro punto di vista- lo gridano più forte, ma anche i grillini. Che si sono fatti più reticenti e astuti su questo terreno negli ultimi tempi ma restano, con il loro modo di essere, di muoversi, di pensare, antitetici all’Europa quanto e forse addirittura più ancora della destra. Di una destra, terrestre o stellare, che su certi temi, nella intercettazione e nella coltivazione di certi disagi sociali e politici, sa sovrapporsi alla sinistra, come ha appena dimostrato in Francia la perdente Marine Le Pen, mettendo in difficoltà il concorrente nel primo turno Jean Luis Melenchon. E come hanno fatto in Italia i vari Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, in ordine non alfabetico ma di reciproca forza attrattiva, considerando una “costola della sinistra” prima la Lega di Umberto Bossi e poi il Movimento delle 5 stelle di Beppe Grillo.

Non è forse vero che all’inizio di questa tormentata diciassettesima legislatura l’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, anche a costo di perdere prima l’incarico di presidente del Consiglio e poi anche la guida del partito, corteggiò i grillini perché gli dessero un aiutino a formare e far “decollare” in Parlamento un governo velleitariamente “di minoranza e di combattimento”, pur di non fargli sporcare le mani trattando le cosiddette larghe intese con quel mostro politico che lui considerava Silvio Berlusconi? Certo che è vero. E’ storia, ormai, non più cronaca. Una storia che nel Pd, dopo le prossime elezioni, avrebbe ritentato non dico Andrea Orlando, ma di sicuro Michele Emiliano se gli fosse capitato di vincere il congresso al posto di Renzi.

 

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La somiglianza politica, se non si vuole spingersi a parlare di gemellaggio, fra i quasi coetanei Macron e Renzi, di 39 e 42 anni, nella concezione dell’Europa e della sinistra davvero riformista, in nome della quale il primo è uscito dal partito socialista per creare un proprio movimento e il secondo ha trasformato il Pd sino a farne uscire, quasi disperati, i Bersani e D’Alema, è contestata anche da osservatori che non possono essere certamente scambiati, per la loro storia professionale e per la conoscenza che ne ho personalmente, per massimalisti o per colleghi con la puzza sotto al naso.

Mi riferisco, in particolare, all’amico Stefano Folli. Che su Repubblica ha appena scritto che “Renzi non è europeista come Macron”, anche se, a dire il vero, il nuovo presidente della Repubblica francese ha mosso certe critiche alla gestione dell’Unione Europea, praticata invece dal suo superiore di allora, Francois Hollande, non prima ma dopo Renzi, allora presidente del Consiglio italiano.

Il fatto è che la sintonia fra i due leader europei ha spiazzato e diviso anche i giornali, e non solo i partiti o, più in generale, la politica.

Folli ha dubitato del tasso europeista di Renzi il giorno dopo che sullo stesso giornale il fondatore Eugenio Scalfari ne aveva scritto, proprio in un’ottica europeistica, come dell’”unico” -ripeto, unico- leader rimasto ormai in Italia, almeno in condizioni di agibilità politica, se non si volesse ricorrere alla riserva della Repubblica. Dove Scalfari aveva collocato in altre occasioni Romano Prodi e Walter Veltroni: per un certo tempo, in verità, anche Enrico Letta, che evidentemente Barpapà si è ormai rassegnato a vedere solo come un professore emigrato a Parigi.

Nel Fatto Quotidiano non sarà sfuggita ai più attenti lettori e osservatori la diversa, se non opposta, posizione assunta verso Macron dal fondatore Antonio Padellaro e dal direttore Marco Travaglio. Che, entrambi ospiti del salotto televisivo di Lilli Gruber, a la 7, sia pure in serate diverse, hanno detto che, se avessero avuto diritto di voto in Francia l’uno avrebbe votato senza esitazione per Macron e l’altro si sarebbe invece astenuto considerando entrambi, Macron e Marine Le Pen, candidati indigeribili.

Padellaro si è poi spinto anche più avanti ammonendo i grillini, in una risposta ad un lettore del quotidiano, a non fare la fine dei lepenisti, capaci di prendere molti voti ma non di vincere le elezioni perché determinano un fronte del rifiuto, nei loro riguardi, invincibile.

 

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Sui risultati delle elezioni presidenziali francesi, pur al netto di ciò che potrà accadere il mese prossimo nelle elezioni per il Parlamento, dovrebbe decidersi a fare una riflessione seria in Italia soprattutto Berlusconi. Che non può limitarsi a riconoscersi nella raccomandazione appena ribadita dal direttore del Giornale di famiglia a Salvini e alla Meloni a rendersi conto che sulle loro posizioni estreme un nuovo centrodestra non potrebbe vincere, per cui sarebbe l’ora che si rassegnassero a fare solo da supporto, da spinta, da sollecitazione, come preferite, a Forza Italia e al suo leader inamovibile.

Anche Berlusconi dovrebbe rassegnarsi a qualcosa. In particolare, a considerare la realtà per quella che è, e non per quella che lui vorrebbe che fosse. Salvini e la Meloni non sono tipi che si arrendono alla sconfitta della loro icona Marine Le Pen e rinunciano alla presunzione di poter fare meglio di lei in Italia, solo se Berlusconi li lasciasse in pace.

 

 

 

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Una domenica particolare per Macron e Renzi

E’ davvero particolare, se non addirittura decisiva, questa prima domenica di maggio del 2017, sia per il secondo turno delle elezioni presidenziali francesi sia per gli effetti inevitabili sulla politica italiana e sull’indirizzo, in particolare, di quello che, nonostante la scissione subita a sinistra ad opera degli ormai soliti Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, in ordine questa volta non alfabetico ma di forza trainante, rimane il principale partito: il Pd. Di cui Matteo Renzi riassume anche formalmente proprio da oggi la guida.

Il risegretario del Pd può festeggiare l’evento per tre buoni motivi:

1) per essersi guadagnata la rielezione al termine di un percorso congressuale non disertato, come prevedevano e volevano i suoi avversari, riusciti peraltro un po’ a intimidirlo facendogli indicare in un milione di partecipanti il livello per lui già soddisfacente delle primarie. Alle quali invece sono andate quasi il doppio delle persone, anche se meno delle altre volte, ma in una curva discendente che Renzi ha ereditato, non avviato;

2) per insediarsi nel momento in cui i sondaggi hanno riportato in testa il Pd dopo ripetuti e inquietanti sorpassi ad opera del movimento di Beppe Grillo, che è ormai l’antagonista di Renzi, avendo Silvio Berlusconi cessato di esserlo da tempo sia per ragioni anagrafiche, sia perché i già ricordati D’Alema e Bersani hanno, per loro dabbenaggine e per fortuna dei moderati italiani, spostato o maggiormente accreditato il Pd non tanto al centro, come essi dicono con spirito di dileggio, spingendosi a volte anche a parlare spudoratamente persino di destra, quanto al centro-sinistra, col trattino. I due fuoriusciti e compagni lo volevano invece di sinistra-centro. E la storia del centro-sinistra è sicuramente più compatibile con Berlusconi, con tutti i democristiani e i socialisti che lo hanno votato dal 1994, della storia di centro-destra. E ciò almeno da quando il segretario lepen-leghista Matteo Salvini si è forsennatamente proposto uno schieramento di destra-centro.

Non è un caso che proprio in coincidenza con le elezioni presidenziali francesi, prevedendone e augurandosene la sconfitta, Berlusconi si sia lasciato intervistare dalla Stampa per ribadire che lui con la signora d’Oltralpe non ha nulla, ma proprio nulla da spartire, diversamente da Salvini. Che notoriamente e non a caso contende da tempo al presidente di Forza Italia la leadership di una eventuale riedizione del cosiddetto centrodestra e si è orgogliosamente proposto per Palazzo Chigi.

3) per essersi guadagnato, sempre Renzi, lo sdoganamento ormai pieno, diciamo così, da parte di un vecchio e prestigioso punto di riferimento della sinistra come Eugenio Scalfari. Che ne ha appena scritto così nell’abituale appuntamento domenicale con i suoi lettori: “Di leader politici (in Italia) cene sono pochi, anzi ce n’è uno soltanto. Ed è Matteo Renzi”. Questa volta l’anziana guida morale della sinistra italiana non ha fatto i rituali omaggi alla riserva della Repubblica, da lui indicata sino al mese scorso in Romano Prodi e Walter Veltroni. Di quest’ultimo, il fondatore di Repubblica si è ricordato solo per auspicarne l’elezione a presidente del Pd, non so francamente fino a che punto contandoci davvero mentre scriveva, quando erano ancora forti le possibilità di conferma dell’uscente Matteo Orfini, che ha fatto anche da garante nella gestione del partito durante il percorso congressuale, o dell’orlandiana Anna Finocchiaro, pur se un po’ ammaccata per come ha appena condotto alla Camera come ministra dei rapporti col Parlamento la modifica della disciplina della legittima difesa. Che Renzi ha disapprovato parlando di un pasticcio da correggere in fretta al Senato, se ci riuscirà o farà in tempo a farlo riapprovare a Montecitorio.

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Nel fare gli elogi di Renzi, che se n’è guadagnato la fiducia soprattutto per essere diventato scalfariano -si è vantato più volte lo stesso Scalfari- sul versante europeista, sino a sostenere un ministro unico delle Finanze dell’Unione e l’elezione diretta del presidente della commissione di Bruxelles e, insieme, del Consiglio Europeo, il fondatore di Repubblica si è detto convinto che il risegretario del Pd abbia ormai rinunciato davvero alla tentazione delle elezioni anticipate in autunno.

Beh, di questa previsione o auspicio, pur maturato da Scalfari forse parlandone direttamente con Renzi, come ormai gli accade di frequente, a volte anche riferendone ai lettori con compiacimento e dovizia di particolari, non sono del tutto o per niente convinto. Nè cambio idea perché di recente è stato lo stesso Renzi a dirsi non interessato alle elezioni anticipate, anche a costo quindi di dover far fare al povero Gentiloni una legge finanziaria del 2018 di tali lacrime e sangue da prenotare una sconfitta elettorale, dopo tutti gli sforzi fatti, e riusciti, di arrestare e invertire i sondaggi a favore dei grillini.

No. Specie se da Bruxelles, dopo la vittoria di Macron in Francia e della Merkel in autunno a Berlino, arrivassero segnali e richieste forti di rigore per la legge finanziaria italiana, penso che Renzi non potrà resistere all’idea di anticipare le elezioni per provvedere alla finanziaria dopo. Nel frattempo egli si sarà adoperato per una qualche “omogeneizzazione”, come chiede Mattarella, delle leggi elettorali che disciplinano diversamente il rinnovo delle due Camere dopo i tagli, per niente omogenei, apportati a entrambe dalla Corte Costituzionale.

D’altronde, lo stesso Scalfari -scusatemi se sono pignolo- ha scritto con astuzia della sua convinzione che la legislatura finirà e le Camere saranno sciolte “legalmente”, non ordinariamente. E legali, perfettamente legali, perché previste e disciplinate dalla Costituzione, sarebbero anche una fine anticipata, cioè straordinaria, della legislatura e un conseguente, anch’esso anticipato e straordinario ricorso alle urne.

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Piuttosto, se un ripensamento volessi ottimisticamente vedere, o auspicare, nelle vecchie e più volte ribadite convinzioni di Renzi sarebbe in materia di doppio incarico di segretario del partito e presidente del Consiglio. Che non gli ha portato bene la prima volta, visto l’esito fallimentare del referendum sulla riforma costituzionale, e potrebbe non portargli bene neppure la prossima volta, se ci riprovasse.

L’inversione dei sondaggi, cioè il recupero del Pd rispetto ai grillini, è il frutto, secondo me, del fatto che il partito e il governo non si sono più identificati l’uno con l’altro. Renzi, per dirla in parole povere, funziona più come segretario del partito che pungola il governo, che è di coalizione, ne riconosce e fa correggere gli errori, che come segretario del partito e insieme presidente del Consiglio, destinato paradossalmente e rovinosamente a non sbagliare mai, però perdendo alle elezioni.

Il fatto, più volte ricordato da Renzi, che all’estero si fa diversamente, cioè si sommano abitualmente le due cariche, deriva solo dalla maggiore semplicità, o minore complessità, dei sistemi elettorali e istituzionali degli altri rispetto ai nostri.

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Uno Scalfari renziano, o un Renzi scalfariano

                       “Di leader politici ce ne sono pochi, anzi ce n’è uno soltanto ed è Matteo Renzi”. Parole di Maria Elena Boschi, già sua ministra delle riforme, dei rapporti col Parlamento e d’altro ancora, adesso sottosegretaria tuttofare del conte Paolo Gentiloni alla Presidenza del Consiglio? No. Di Carlo Lotti, già sottosegretario tuttofare di Renzi a Palazzo Chigi e ora ministro dello sport, ma anche altro e d’altro? No. Di Tiziano Renzi, papà dell’interessato e ancora indagato per traffico di influenze illecite per gli appalti della Consip, nonostante accusato anche per una intercettazione manipolata e scoperta dalla Procura di Roma? No. Di Matteo Richetti, appena tornato nel cerchio stretto del risegretario del Pd? No. Della moglie Agnese? No. Dei figli? No. Di Sergio Mattarella, ancora grato di essere al Quirinale grazie a lui, nonostante i grattacapi che gli procura ogni tanto? No.

                       Ma allora chi ha detto o scritto di Matteo Renzi quelle parole da farlo forse arrossire d’imbarazzo, per quanta stima egli abbia di se stesso? Non ci crederete. Ma sono parole appena affidate da Eugenio Scalfari nel suo abituale appuntamento domenicale ai lettori di Repubblica. Renzi, quindi, e nessun altro. Al diavolo pure Romano Prodi, Walter Veltroni ed Enrico Letta, altre volte indicati da Barbapapà, soprannome affettuoso del fondatore del giornale a lungo considerato come quello di maggiore riferimento della migliore sinistra italiana.

                       Come mai Renzi, già apprezzato del resto da Scalfari, spintosi a votarne il 4 dicembre scorso la riforma costituzionale pur considerandola in qualche parte troppo pasticciata, e ad incitarlo, sia pure inutilmente, a rimanere a Palazzo Chigi anche dopo la sconfitta referendaria, è arrivato così in alto nella considerazione del giornalista fra i più esigenti d’Italia?

                       Che cosa è successo? Si è forse guadagnato, il giovane toscano, qualche raccomandazione di Papa Francesco, di cui Scalfari è ateo devoto, anzi devotissimo? Niente di tutto questo.

                       E’ soltanto accaduto che Renzi è diventato scalfariano. Parola dello stesso Scalfari, che da tempo d’altronde ne raccoglie per telefono o a piedi, o seduto nel suo salotto, confidenze e consigli, sino a indicargli i libri da leggere, e sui cui riferirgli al successivo appuntamento.

                       Il corso di studi, diciamo così, serali deve essersi concluso. E nel migliore dei modi, con 110 e lode.

          

I ladri ridono di notte dei pasticci politici di giorno

Pur al netto della solita abitudine di schierarsi, violando il ruolo neutrale che gli impone il ruolo di presidente di un’assemblea parlamentare, specie su una legge che le sta arrivando dalla Camera, Pietro Grasso, o Piero, come altri preferiscono chiamarlo più amichevolmente, ha avuto ragione, e facile gioco, a rinfacciare l’utilità del Senato al risegretario del Pd Matteo Renzi. Che come presidente del Consiglio, non avendo la forza politica di proporne l’abolizione, come avrebbe forse preferito, cercò con la sua riforma costituzionale, poi bocciata a grande maggioranza dagli elettori nel referendum del 4 dicembre scorso, di ridimensionarne composizione e ruolo.

“Per fortuna c’è il Senato”, ha detto Grasso col suo solito, immancabile sorriso, risparmiandosi l’avverbio “ancòra” e commentando la necessità politica appena annunciata da Renzi di far cambiare a Palazzo Madama “il pasticcio” della riforma della legittima difesa approvata a Montecitorio. E che è già passata nell’immaginario collettivo, a torto o a ragione, come la licenza di uccidere di notte, senza rischiare il processo o le spese, il ladro che ti è entrato in casa, o ne sta uscendo di corsa perché scoperto.

Le cose, in verità, non stanno proprio così a leggere bene il testo approvato alla Camera col solito intreccio di emendamenti e compromessi, ma così ormai è stata avvertita dalla gente con l’informazione scritta e parlata e così sarebbe destinata a rimanere se non si facessero modifiche al Senato. Dove però si riaprirebbero tutti i giochi, compresi quelli politici ed elettorali fra i leghisti, che reclamano, con l’aiuto degli ex alleati di centrodestra, compresi i forzisti di Silvio Berlusconi, una licenza ancora più esplicita, e quanti invece vorrebbero garantire maggiormente la discrezionalità del giudice per stabilire la proporzione prescritta dalla legge fra l’offesa, il danno, il pericolo, chiamatelo come volete, e la reazione.

E’ sempre rischioso per il governo o la maggioranza di turno formatasi su una legge alla Camera riaprire i giochi al Senato, dove i numeri sono notoriamente ballerini. E basterebbe l’umore o l’impellente necessità di un senatore a correre a fare la pipì per cambiare il risultato di una votazione.

Già gli antichi romani, del resto, pur non potendo neppure immaginare che cosa sarebbero stati capaci di fare i loro successori, solevano definire “buoni” i senatori ma “cattiva bestia” il Senato.

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Se tanto mi dà tanto, se si dovessero davvero trarre tutte le conseguenze dai fatti, se si volesse applicare al risegretario del Pd Renzi la legge dantesca del contrappasso, alle prossime elezioni egli si dovrebbe candidare prima ancora che a presidente del Consiglio, come mostra ogni tanto di voler fare nonostante il consiglio contrario del suo amico e ormai confessore laico Eugenio Scalfari, a senatore. Dovrebbe preferire alla Camera, considerata delle due assemblee parlamentari la più politica, il Senato, chiamato -come si vede- a correggere gli errori dei deputati. E lui ormai è eleggibile al Senato già dall’11 gennaio 2015, giorno del suo quarantesimo compleanno, essendo questa l’età minima prescritta dalla Costituzione per accedere da parlamentare a Palazzo Madama.

Lo stesso Renzi, d’altronde, con una battuta amara commentò la sera del 4 dicembre la bocciatura della sua riforma costituzionale dicendo che a quel punto si sarebbe meritata per punizione l’elezione al Senato. Dove aveva avuto l’imprudenza di presentarsi come presidente del Consiglio nel 2014, quando non aveva neppure l’età per fare il senatore, augurandosi che quella appena chiesta ai senatori fosse “l’ultima fiducia”. Cui, in verità, ben prima che gli elettori gli bocciassero la riforma costituzionale, che riservava il diritto della fiducia solo alla Camera, Renzi dovette poi ricorrere molte altre volte per vedere approvate a scrutinio palese le sue leggi da una maggioranza, interna al suo stesso partito, tentata di bocciargliele a scrutinio segreto.

Va poi detto che con la rielezione a segretario del Pd, e la riconquista dei poteri in materia di formazione delle liste dei candidati alle elezioni, al buon Renzi è andata davvero bene. Con un altro segretario, specie se fossero rimasti nel Pd con una grossa voce in capitolo personaggi come Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, al perdente Renzi neppure un seggio senatoriale avrebbero forse lasciato. Gli avrebbero magari applicato la legge del contrappasso mandandolo a fare il presidente dello scampato Cnel, dove il governo del conte Gentiloni ha appena spedito l’ex ministro Tiziano Treu per cercare di rianimarlo, dopo l’anticamera dell’obitorio in cui Renzi lo aveva messo prescrivendone la morte nella già ricordata riforma costituzionale bocciata col referendum del 4 dicembre.

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In attesa che il Senato rimedi al “pasticcio” della legittima difesa uscito dalla Camera, se ne avrà il tempo necessario per rispedirlo corretto a Montecitorio e farlo diventare legge prima della scadenza ordinaria o anticipata della legislatura, col serio rischio quindi che tutto finisca nei cassetti parlamentari, mi auguro che si riprenda dalla delusione la ministra dei rapporti col Parlamento Anna Finocchiaro. Che a sua insaputa, o controvoglia, come preferite, ha partecipato al pasticcio lamentato da Renzi con un emendamento, o qualcosa di simile, per mediare fra le varie posizioni dei partiti della maggioranza, e fra le correnti del suo stesso partito.

Il giorno in cui la Camera ha approvato la nuova norma sulla legittima difesa, e quando già erano arrivate le voci dell’arrabbiatura di Renzi con gli amici al Nazareno, ho visto la Finocchiaro seduta su una poltrona del cosiddetto transatlantico di Montecitorio tutta sola, scura di vestito e di umore. Vi confesso di esserne rimasto dispiaciuto, abituato a vederla sempre in forma e combattiva, e vestita con colori anche vivaci, come quel rosso galeotto che indossava in quell’emporio dove fu fotografata con la scorta che cavallerescamente portava il carrello della spesa. Seguirono polemiche mediatiche e proteste politiche.

L’allora sindaco di Firenze e non ancora segretario del Pd Renzi ne abusò contestando la possibile candidatura al Quirinale dell’allora capogruppo del Pd al Senato e rimediandosi come reazione l’aggettivo “miserabile”. Poi i due, a dire la verità, si conobbero meglio e seppero apprezzarsi reciprocamente. Lei, da presidente della commissione affari costituzionali del Senato, contribuì in modo decisivo alla pur sfortunata riforma costituzionale, condivisa peraltro allora anche dal guardasigilli Andrea Orlando. La cui candidatura a segretario la signora ha preferito poi a quella di Renzi. Di cui sarebbe però azzardato, penso, leggere come una ritorsione il cattivo giudizio espresso sul “pasticcio” della riforma della legittima difesa.

 

 

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Una Finocchiaro troppo nera e triste

Mi ha colpito l’altro giorno alla Camera, seduta su una poltrona del famoso e cosiddetto Transatlantico, che non è naturalmente una nave, l’aspetto dimesso e triste della ministra dei rapporti col Parlamento Anna Finocchiaro. L’abito nero e il colore scuro della montatura degli occhiali contribuivano a farla apparire giù di salute, oltre che di umore. Qualche tocco di rosso, cui lei ricorre spesso, come quella volta galeotta in cui fu fotografata, vestita appunto di rosso, in un grande emporio, con la scorta che cavallerescamente le spingeva il carrello della spesa, le avrebbe sicuramente donato. Ma, ripeto, tutto quella mattina era nero in lei. E me ne dolsi sinceramente.

Ho capito solo dopo perché la ministra fosse in quello stato. E mi sono rasserenato. Non era questione di salute, ma solo di umore. Umore tutto politico. Le era forse appena arrivata la notizia dell’arrabbiatura confidata dal risegretario del Pd Matteo Renzi agli amici, al Nazareno, per il pasticciaccio della norma di modifica della legittima difesa. Un pasticciaccio ormai noto, a torto o a ragione, come quello della licenza di sparare al ladro di notte, dentro casa o in fuga, che porta un po’ la maternità della ministra perché derivato da un suo emendamento di compromesso fra la posizione del collega di governo Angelino Alfano e quella del guardasigilli, e suo compagno di partito, Andrea Orlando. Che è stato peraltro anche il candidato alla segreteria del Pd sostenuto dalla Finocchiaro, a sorpresa di Renzi, della cui riforma costituzionale al Senato l’allora presidente della competente commissione era stata quasi co-autrice, spiegando così in una intervista perché gli avesse perdonato l’attacco fattole per quel carrello affidato alla scorta nell’emporio: “Con lui si è creata la piacevole impressione che tutto sia finalmente possibile”. Anche cambiare la Costituzione, salvo essere bocciati dagli elettori.

UnaCon questi precedenti, fatti di polemiche, sorprese, speranze, illusioni e delusioni, l’umore e il color nero della sempre avvenente e signorile Finocchiaro sono comprensibili. Ma tutto passa, anche in politica. E poi, c’è sempre quel tocco di rosso che alla ministra sta bene, anzi benissimo. Se lo faccia consigliare da un sincero estimatore.

Sparare di notte al ladro è più urgente di votare al bisogno

Oddio, non per fare lo spiritoso a tempo perso, o per il gusto di trovarmi una volta tanto d’accordo con Marco Travaglio e col suo Fatto Quotidiano, o per ruffianeria verso Matteo Renzi, che ha esordito come risegretario del Pd prendendo le distanze dal provvedimento appena approvato dalla Camera, ma questa storia di potersi sentire più sicuri, nei sempre difficili rapporti col magistrato di turno, sparando di notte contro l’intruso che entra o cerca di entrarti in casa, o fugge via dopo che lo hai scoperto, sembra anche a me una boiata pazzesca. Vi contribuisce il rispetto che vorrei avere dei ricordi della mia infanzia e delle favole che, se fossi anche nonno, oltre che anziano, vorrei raccontare ai miei nipotini.

E’ la favola della befana che vien di notte, con le scarpe tutte rotte, con le toppe alla sottana….e via via in quella che più vi piace delle dodici versioni esistenti di questa giocosa filastrocca con la quale si possono, fra l’altro, considerare davvero concluse le feste di Natale e Capodanno. Che facciamo noi grandi e spesso anche scimuniti, o i bambini, ragazzi e giovanotti addestrati dalla televisione agli spettacoli dei presunti buoni in lotta selvaggia contro i presunti cattivi? Ci mettiamo a sparare contro la befana scambiandola per un ladro travestito? E’ possibile che i nostri legislatori, con tutto quello che succede in Italia, in acqua, terra e aria, non trovino di meglio e di più urgente da fare? E’ possibile provocare così tanto la pazienza dell’illustrissimo signor presidente della Repubblica, che con quella bella chioma e una scopa in mano potrebbe peraltro sembrare un befano in servizio permanente effettivo, quindi anche fuori stagione?

Il povero Sergio Mattarella, dopo avere sprecato -a questo punto- un bel pranzo con entrambi i presidenti delle Camere, sta ancora aspettando al Quirinale notizie degne di questo nome su quella riforma o riformetta elettorale sollecitata con buone, anzi eccellenti ragioni. Cioè, per poter disporre di tutte le prerogative assegnategli dalla Costituzione nel caso in cui gli scoppiasse tra i piedi o le mani una crisi di governo. Che è una cosa possibile non solo per qualche incidente parlamentare, magari provocato più o meno dietro le quinte da un Renzi smanioso di andare alle elezioni anticipate, fosse pure per perderle come il referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, ma anche a causa di una decisione spontanea e per nulla sofferta del conte Paolo Gentiloni Silveri di dimettersi in autunno, piuttosto che dover preparare una legge finanziaria di lacrime e sangue destinata a fargli intestare la sconfitta nelle elezioni politiche ordinarie nella primavera dell’anno prossimo.

 

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Messo di fronte ad una crisi e chiamato a risolverla per obbligo costituzionale, il povero Mattarella dovrebbe inventarsi un governo con un’assai improbabile maggioranza predefinita, in un Parlamento dove si sprecano i partiti che reclamano le elezioni, e si sprecherebbero pure i deputati e i senatori di prima nomina, che sono tanti, se dovessero e potessero scegliere a fine settembre, dopo avere maturato il diritto al vitalizio, o come altro si chiama la pensione con i contributi versati nei soli quattro anni e mezzo del loro mandato. O il povero Mattarella dovrebbe procedere direttamente allo scioglimento anticipato delle Camere lasciando al conte Gentiloni l’onere di rimanere in carica per gli affari di ordinaria amministrazione, compreso il ricorso al cosiddetto esercizio provvisorio di bilancio.

Ma le elezioni dovrebbero in questo caso svolgersi, anche contro la volontà e le opinioni del presidente della Repubblica, con le due leggi in vigore, una per il Senato e l’altra per la Camera, nel testo uscito dalla sartoria della Corte Costituzionale col certificato ufficiale di immediata applicabilità.ono due leggi così diverse fra di loro da produrre un Parlamento mostruoso, senza la minima possibilità che la maggioranza di una Camera, anche la più fantasiosa, sia compatibile con quella del Senato. E senza quindi la possibilità che un governo riscuota la fiducia di entrambe, com’è obbligatorio per la Costituzione sopravvissuta alla bocciatura referendaria della riforma targata Renzi.

E’ come se la sartoria della Corte Costituzionale avesse venduto ad un cliente di taglia 52 un abito composto da una giacca di taglia 56, pantaloni taglia 44 e gilè taglia 50. E avesse risposto alle rimostranze del cliente dicendo di rivolgersi ad un’altra sartoria, quella del Parlamento, per farsi rimettere a posto tutto. E la sartoria del Parlamento, a sua volta, avesse risposto al cliente, fosse pure il presidente della Repubblica in persona, scortato dai suoi Corazzieri, di avere altre cose più urgenti da fare. E pazienza se nel frattempo si rompesse l’unico abito che indossa e il presidente dovesse andare nudo per strada e per gli uffici del suo Quirinale.

Vi sembrerà paradossale, pazzesca, ma è esattamente questa la situazione nella quale il capo dello Stato è stato messo sia dal Parlamento sia dalla Corte Costituzionale, pur provenendo da entrambi e aspettandosi, non foss’altro per questo, una maggiore comprensione o condivisione.

 

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La Camera, nella cui commissione competente giace -nel verso senso della parola- il problema della riforma o riformetta elettorale, ha ritenuto di dare precedenza alla questione di se e come sparare al ladro di turno, vero o presunto, in quali ore e con quali modalità, correndo meno rischi giudiziari possibili. E ciò pur essendo in vigore, su questa stessa materia, una norma di legge varata a suo tempo da una maggioranza di centrodestra, socialmente e politicamente sensibile a un simile problema.   Ma è uno schieramento oggi diviso, prevalentemente all’opposizione, unito solo nel rivendicare l’urgenza di un cambiamento, salvo tornare a dividersi sul come. Infatti, dovendo inseguire gli stessi segmenti di elettorato, in previsione di elezioni che non si sa -ripeto- con quale legge potranno o dovranno svolgersi, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini non si riconoscono nelle modifiche alle norme sulla legittima difesa che il “traditore” Angelino Alfano ha strappato alla maggioranza di cui fa parte.

 

Se tutto questo è accaduto alla Camera, vi lascio immaginare cosa potrà e dovrà accadere al Senato, dove i numeri della maggioranza sono ballerini e la partita della concorrenza apertasi all’interno di quello che fu il centrodestra si farà più accanita e pasticciata.

A questo punto, essendo forte il rischio che non si riesca a realizzare nulla, forse la Befana potrà sperare di farla franca.

 

 

 

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