Mattarella intercettato al Quirinale da una mosca

Sono una mosca, fastidiosa e impertinente come tutte le mosche, per giunta fuori stagione, ma fortunata a tal punto da essermi capitata l’avventura di infilarmi nel palazzo del Quirinale da una finestra aperta da qualche salutista. E volando di qua e di là mi sono trovata addirittura nello studio del presidente della Repubblica. Dove mi sono sfacciatamente adagiata sullo scrittoio senza esserne scacciata, come di solito fanno tutti questi impazienti di umani ben vestiti e con la puzza sotto il naso.

Ho potuto perciò sentire ben bene una telefonata di Sergio Mattarella. Con chi esattamente, non l’ho ben capito perché il presidente si limitava a chiamare di tanto in tanto il suo interlocutore Piero. Piero, e basta. Ma doveva essere un amico fidato, per la delicatezza degli argomenti trattati. Fidato e anche ben incensurato, al di sopra di ogni sospetto, senza il timore quindi di finire intercettato in via indiretta e sfortunata, avendo dall’altra parte del filo qualcuno finito a sua insaputa sotto sorveglianza di un magistrato e relativo maresciallo di polizia giudiziaria. Sennò, poverino, il presidente ha rischiato la disavventura di un anziano predecessore, costretto a chiamare in soccorso la Corte Costituzionale, non bastandogli per legge quegli imponenti Corazzieri a sua disposizione, pronti a intervenire già davanti all’ufficio

Il presidente si compiaceva con Piero della rielezione di “Matteo” alla segreteria del Pd e della fine ch’essa comporterebbe dell’”argomento o pretesto” accampato “da Pietro e Laura”, ma soprattutto “Laura” a giustificazione del ritardo delle Camere sulla strada di “riforma o riformetta elettorale”: giusto quello che occorre per “armonizzare” le leggi in vigore e rinnovare in modo ordinato le assemblee parlamentari. Leggi adesso tanto poco omogenee che in caso di crisi, da lui temuta specie in autunno, quando si dovrà predisporre il bilancio, non lo metteranno in grado di mandare gli italiani alle urne per sbrogliare la matassa. Verrebbero elette, con le regole in vigore, non una Camera accanto all’altra ma una Camera contro l’altra. E io allora che dovrei fare, Piero? Scioglierle daccapo? E quante altre volte ancora?, chiedeva il presidente all’amico.

Con tutta la fretta che Le ho messa, Laura che mi fa, una volta tornata a Montecitorio dopo avere pranzato con “me e Pietro” e riunita la conferenza dei capigruppo? Mi chiama -racconta sempre Mattarella a Piero- e mi dice che la legge arriverà in aula il 29 maggio. E questa sarebbe rapidità? Non fra una settimana, ma dopo un mese, quando già immagino il poco tempo che tutti diranno di avere a disposizione a causa degli impegni della campagna elettorale delle amministrative dell’11 giugno e dei ballottaggi di due settimane dopo. Campa cavallo che l’erba cresce, specie quando l’erba diventerà quella del Senato, dove i numeri sono quelli che sono ed è facile avere più gramigna che erba.

A questo punto io, povera mosca, rischio di perdere la mia postazione d’ascolto perché il presidente allunga una mano verso di me. Ma si ferma ad afferrare un tagliacarte solo per giocarvi, non per scacciarmi via. E così posso godermi e raccontarvi la prosecuzione dello sfogo del presidente con l’amico Piero.

Questa volta non è più’ Laura il bersaglio, ma diventa la Corte Costituzionale. Non posso parlarne e, al limite, non potrei neppure pensarlo, dice il presidente, sia per il ruolo che ho sia per averne fatto parte come giudice. Ne sarei diventato prima o poi anche presidente, visto che finiscono per esserlo tutti, con l’abitudine che hanno preso di eleggere quello più vicino alla scadenza del mandato, quindi anche per pochi mesi. Sarei ancora lì, in attesa del mio turno, se a Matteo non fosse venuta in testa due anni fa l’idea di mettermi qui, facendomi semplicemente attraversare la piazza, dalla Consulta al Quirinale. Ma di questo pasticcio della legge elettorale debbo riconoscere la responsabilità anche della Corte, che ha dichiarato immediatamente applicabili sia il Porcellum per il Senato sia l’Italicum per la Camera, pur avendoli entrambi amputati di parti importanti.

Eppure, specie quando sono intervenuti sull’Italicum, a febbraio, i miei ex colleghi -dice il presidente all’amico- avrebbero dovuto rendersi conto che il combinato disposto delle due leggi avrebbe prodotto non più un Parlamento ma un mostro, fatto di due corpi contrapposti, inconciliabili. Bontà loro, hanno detto che le Camere avrebbero potuto tornare a legiferare sulla materia, se avessero voluto. Ma, appunto, lo vogliono? E pure se lo volessero, lo potrebbero, con tutti i contrasti che ci sono fra e nei partiti che vi sono rappresentati? In che pianeta pensano di vivere i miei ex colleghi?

Non so se stimolato da chissà quale osservazione dell’amico, il presidente ha detto che quello combinato dalla Corte Costituzionale è stato solo l’ultimo “pasticcio in ordine di tempo”, risalendo tutto all’ordinanza con cui permise nel 1991 il primo referendum abrogativo in materia di legge elettorale. Abrogativo, poi, un corno, non potendosi concepire l’abolizione pura e semplice di una legge elettorale senza condannare il Paese al caos, cioè allaimpossibilità di rinnovare in qualsiasi momento, per scadenza ordinaria o straordinaria, all’occorrenza valutata dal presidente della Repubblica, la sua rappresentanza parlamentare.

La Corte decise, allora per le preferenze e due anni dopo per il sistema proporzionale, che l’abrogazione “parziale” di una legge, compresa quella elettorale, potesse avvenire usando le forbici o il bisturi, togliendo una parola qua e un’altra la’, una virgola sopra e un punto sotto, cioè modificando le norme sino a farle diventare altre, del tutto diverse, se non opposte al senso voluto originariamente dal legislatore.

Non contento di questa licenza permessa ai promotori dei referendum con quesiti lunghi e complicatissimi, da addetti ai lavori e non certo da elettori comuni, com’è la grandissima maggioranza della gente chiamata alle urne, la Corte Costituzionale -ha proseguito all’incirca il presidente, scusandomi dell’approssimazione con la quale forse ve ne riferisco- quella licenza se l’è presa anche lei direttamente, quando ha deciso di accogliere i ricorsi della magistratura ordinaria e si è messa a trattare la legge impugnata davanti alla Consulta con le forbici, il filo e il gesso di una sartoria. E meno male che la riforma costituzionale di Matteo, pur da me votata il 4 dicembre, e anche da te su mio consiglio, nonostante tutti i dubbi confessatimi, è stata bocciata. Essa infatti prevedeva addirittura il passaggio obbligatorio di ogni nuova legge elettorale per l’esame della Corte prima di potere essere applicata. Una concessione semplicemente folle, denunciata inutilmente in Parlamento solo da Roberto Giachetti, vice presidente della Camera, uno dei pochi, se non l’unico a intendersi davvero di legge elettorale da quelle parti.

Ci deve essere stata a questo punto un’altra osservazione dell’amico Piero se il presidente ha detto che “aveva certamente ragione la buonanima di Giulio Andreotti” a contestare il “pasticcio originario”, avvenuto nel 1947 all’Assemblea Costituente. Dove fu approvato un emendamento che includeva le leggi elettorali fra quelle precluse al referendum abrogativo, come le tasse e i trattati internazionali. Ma per una dannata svista degli uffici la modifica scomparve dal testo promulgato con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Un errore dannatamente irrecuperabile.

           Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

 

 

 

 

 

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