Salvini fa concorrenza al Papa per una missione di improbabile pace al Cremlino

Questa, poi, era veramente difficile metterla nel conto della guerra di Putin all’Ucraina e delle ripercussioni sulla politica italiana, per quanto si possa essere ormai abituati a registrarne le stranezze. Siamo addirittura arrivati alla concorrenza del leader leghista Matteo Salvini a Papa Francesco nella ricerca di un contatto, di un incontro o non so cos’altro con Putin per dissuaderlo da una guerra che dura da più di due mesi. 

L’intervista del Papa al Corriere della Sera

L’annuncio di Salvini, presumo provvisto delle solite medaglie, medagliette, rosari e immaginette della Madonna che a volte tira fuori dalle tasche nei comizi, è arrivato in coincidenza con l’intervista nella quale il Papa ha raccontato al direttore del Corriere della Sera di avere fatto chiedere dopo venti giorni di guerra dal cardinale Segretario di Stato a Putin di incontrarlo. In Vaticano stanno ancora aspettando una risposta, che il Pontefice si è ormai rassegnato a  non avere mai, non avendo Putin intenzione di farsi fermare o solo rallentare da nessuno sulla strada della guerra che ha intrapreso, per quanto numerose e forti siano state le sorprese riservategli da un nemico che riteneva di piegare in brevissimo tempo. 

Può anche darsi, per carità, che Putin preferisca al Papa il capo della Lega, per un certo tempo di casa a Mosca, diciamo così, dove anzi disse una volta di sentirsi meglio che in Italia. Ma mi sembra improbabile che a Salvini capiti di arrivare al Cremlino per sedersi a quel tavolo lungo come una piazza d’armi, dove già il presidente della Repubblica di Francia e il segretario generale delle Nazioni Unite hanno provato inutilmente a fare ragionare il capo del Cremlino. 

Matteo Salvini

Salvini peraltro è in crescenti difficoltà politiche in Italia, scavalcato al centro da Giorgia Meloni, che interloquisce ormai con Draghi più facilmente di lui, e a sinistra da Conte. Che, imitandone la condotta dei mesi scorsi, è riuscito a fare ubbidire i ministri grillini all’ordine di non votare il decreto predisposto dal governo per alleviare con interventi per 15 miliardi di euro le difficoltà dei più  bisognosi alle prese con gli effetti  anche della guerra in Ucraina. Eppure Conte aveva esordito politicamente come “avvocato del popolo”.

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Maldestro tentativo di coinvolgere l’informazione nell’affaraccio politico della guerra di Putin

Giorgia Meloni

Spero che il prototipo della classe dirigente di cui Giorgia Meloni ha assicurato di disporre per guidare il governo del Paese -se il centrodestra dovesse vincere le elezioni, nonostante la confusione in cui si trova, e i fratelli d’Italia sorpassassero gli alleati- non sia il pur navigato Adolfo Urso. Che è stato deputato della destra nelle sue varie formulazioni per una ventina d’anni, due volte sottosegretario nei governi di Silvio Berlusconi, ed ora è senatore e presidente di una commissione fra le più delicate, se non la più delicata in assoluto delle Camere: il Copasir. Che sta per Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, come si chiama dal 2007, portando prima il nome di Comitato parlamentare di controllo dei servizi segreti: controllo peraltro che esso continua ad esercitare, anche se non così esplicitamente. In Italia, si sa, le cose semplici e chiare non hanno diritto di cittadinanza. Debbono essere avvolte, prima o poi, in qualche involucro tanto altisonante quanto nebbioso. 

Non ho nulla di personale contro questo senatore che per salire così in alto ha fatto ingaggiare da Giorgia Meloni l’anno scorso una lotta durissima nel centrodestra, non volendo la Lega di Matteo Salvini mollare la presidenza del Copasir in questa legislatura anche dopo essere tornata al governo con Mario Draghi, e spettando invece per legge quella postazione istituzionale ad un gruppo parlamentare di opposizione, quale appunto è sempre stato dal 2018 quello della Meloni. E ciò anche se -a dire il vero, altra particolarità delle cose italiane- in tema di politica estera e ora di guerra in Ucraina la Meloni è schierata con Draghi più chiaramente di Salvini, oltre che dei pentastellati guidati dall’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. 

Non ho nulla di personale, dicevo, contro Urso anche perché è un giornalista iscritto all’albo dei professionisti, quindi un mio collega. Ma proprio in quanto giornalista trovo ancora più sorprendente che in veste di presidente del Copasir abbia deciso di partecipare alla campagna improvvisata purtroppo anche da Mario Draghi e politici di una certa esperienza come il segretario del Pd Enrico Letta, marito peraltro di una giornalista, contro l’intervista al ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov realizzata da Giuseppe Brindisi e trasmessa domenica sera da Rete 4 nella sua trasmissione “Zona bianca”. 

Sarebbe stata, secondo questa campagna, una somma di false notizie,  utili alla propaganda del Cremlino. Ma -da che giornalismo è giornalismo- possono essere false le notizie che dà l’intervistato, non un’intervista. Il cui autore non è responsabile di quello che l’intervistato dice, anche se omette di contestargliele per evitare che l’intervista svanisca subito in un vaffanculo -scusate la schiettezza- dell’intervistato non comune. 

Il ministro degli Esteri russo

Se l’obiettivo del conduttore di “Zona bianca” era quello, doveroso per un giornalista, di far conoscere le opinioni del ministro degli Esteri russo, e presumibilmente dello stesso Putin, sulla guerra scatenata in Ucraina, e che ha preso -presumo- una piega e una dimensione assai diverse da quelle imprudentemente calcolate al Cremlino, esso è stato pienamente raggiunto. Lo dimostrano proprio le proteste anche internazionali, come quella di Israele, che ha provocato per le fesserie e persino oscenità dette dal ministro degli Esteri russo. Oscenità, a mio modesto avviso, che aggravano la già compromessa posizione e credibilità di Putin dopo una ventina d’anni di messinscena, esse sì.  

Gromyco con Gorbaciov
Molotov con Stalin

Da Urso giornalista, e politico, mi aspettavo che dicesse questo, non le parole di censura pronunciate contro le “modalità” dell’iniziativa e la diffusione dell’intervista del successore -non dimentichiamolo- dei sovietici Molotov e Gromyco. Che ne sarebbero orgogliosi se vivessero ancora. 

I magistrati incrociano le toghe per volontà di un’esigua minoranza

Titolo del Dubbio

Ciò che più mi sconcerta dello sciopero dei magistrati deliberato dall’assemblea generale del loro sindacato non è il solito dubbio di costituzionalità, sollevato in qualche sede anche in questa circostanza. E neppure la doppia circostanza scelta per deciderlo: alla vigilia della festa del lavoro, quasi per onorarla con uno sciopero sia pure differito, e in vista del passaggio della contestata riforma della giustizia al Senato, come per diffidarlo dall’approvarla nello stesso testo uscito dalla Camera, intromettendosi così gravemente nell’esercizio della sovranità parlamentare derivante da quella del popolo. “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, dice il primo articolo della Costituzione dopo avere definito l’Italia “una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. 

La ministra della Giustizia Marta Cartabia

Neppure mi sconcerta maggiormente, dello sciopero nei tribunali, la bugia con la quale è stato motivato: il mancato “ascolto” dei magistrati da parte del governo proponente la riforma, prima nella versione del guardasigilli grillino Afonso Bonafede e poi in quella della ministra e già presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, e della Camera che l’ha approvata non certo in pochi giorni, cioè in fretta e furia. Il che ha permesso alla stessa Camera, in varie sedi e in vari modi, di sentire i rappresentanti dei magistrati sette volte. Che si aggiungono alle quattro ricordate dal Ministero della Giustizia a proposito degli incontri avuti dalla guardasigilli più o meno in contemporanea con i rappresentanti dei partiti della vasta maggioranza di governo. 

Armando Spataro
Nino Di Matteo

Neppure mi sconcerta, infine, l’indifferenza opposta dai dirigenti della rappresentanza sindacale, associativa o comunque vogliamo chiamarla delle toghe alla prudenza consigliata da esponenti assai autorevoli della categoria, in servizio o in pensione, come Nino Di Matteo e Armando Spataro. Che avevano sconsigliato il ricorso allo sciopero, pur dissentendo fortemente nel caso di Di Matteo dalla riforma, perché consapevoli del rischio di fare apparire la difesa di certe posizioni, o semplici abitudini, colpite dalle nuove norme come difesa di privilegi di “casta” avvolti nei principi costituzionali dell’autonomia e indipendenza della magistratura. Cui è delegato un organo apposito di garanzia costituito dal Consiglio Superiore della Magistratura, per non parlare della Corte Costituzionale e dello stesso capo dello Stato, che presiede il già ricordato Consiglio Superiore. 

Ciò che mi sconcerta maggiormente di questo sciopero ancora da fissare per “almeno” una giornata, se non ho capito male, è la scarsa rappresentatività di chi lo ha deciso, autorizzato, proclamato, come preferite. E non dalla mattina alla sera, con una fretta che potrebbe giustificare o far comprendere certe cose, ma con tutta la calma sufficiente a organizzare le modalità dell’assemblea generale dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, con tutte le maiuscole dovute, svoltasi all’Angelicum. Almeno di nome.  

A quest’assemblea -che si è espressa a favore dello sciopero con 1.081 voti favorevoli, 169 contrari e 13 astenuti- hanno partecipato 1.400 dei 9.149 iscritti all’Associazione, sempre con la maiuscola, pari quindi al 15 per cento. E’ come se un Parlamento – l’assemblea generale appunto- fosse stato eletto con l’85 per cento di astensionismo. E a votare a favore dello sciopero è stata una maggioranza pari a meno del 9 per cento della categoria. 

Non mi sembra che siano numeri consolanti per i magistrati che dovrebbero sentirsi rappresentati nel loro luogo di lavoro, e comunque nell’esercizio delle loro funzioni, da chi parla, grida, batte i pugni e sciopera a nome loro. Se i magistrati sono una casta, come tante volte gli ultimi presidenti della Repubblica hanno ammonito a non sentirsi e tanto meno a essere, i loro rappresentanti sindacali o associativi sono una casta al quadrato, o al cubo. Una castissima, se si potesse dire. 

Pubblicato sul Dubbio

L’Ucraina europea a stelle e strisce divide sempre di più il centrodestra

Nancy Pelosi con Zelensky

    Nel giorno in cui l’Ucraina aggredita dalla Russia si è metaforicamente vestita a stelle e strisce e guadagnato i “ringraziamenti” della presidente della Camera americana Nancy Pelosi, in visita ufficiale a Kiev, per la resistenza opposta all’invasione, sino a rendere possibile “la vittoria” di Zelensky, il ministro degli Esteri di Mosca, Sergej Lavrov, in una intervista ad una televisione italiana ha confermato la volontà del Cremlino di proseguire la guerra sino alla fine. Cioè, sino alla sconfitta di quei “radicali” e “nazisti” come meriterebbero di essere chiamati il presidente ucraino e i suoi sostenitori. 

Il ministro degli Esteri russo intervistato da Zona bianca

La televisione italiana scelta da Lavrov – scelta perché immagino che altre interviste gli saranno state proposte- è quella del vecchio ma forse ex amico di Putin, del quale dopo più di un mese di guerra l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si è dichiarato “deluso”. Delusione ricambiata, direi, avendo Lavrov detto al conduttore di Zona bianca, la trasmissione di Rete 4 affidata a Giuseppe Brindisi, che l’Italia ancor più in generale ha “sorpreso” il Cremlino”. “Ma ormai ci siamo abituati”, ha aggiunto il successore dei sovietici Molotov e Gromyko.

Uno degli ospiti dello studio televisivo del povero Brindisi, il direttore della Verità Maurizio Belpietro, che ormai quasi abitualmente fa titoli sovrapponibili a quelli del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, ha cercato di attenuare la delusione del ministro degli Esteri russo attaccando quasi più di lui gli americani, che starebbero facendo la guerra a Putin sulla pelle degli ucraini.   I quali dalle parole e dalle rappresentazioni di Belpietro sembrano un pò imbottiti di armi americane, e anche italiane, come di droga. Del resto, Putin in apertura delle ostilità belliche aveva  dato del drogato, oltre che del nazista, a Zelensky e conterranei.

Augusto Minzolini
Maurizio Belpietro

Quando un altro  ospite dello studio di Rete 4, il direttore del Giornale della famiglia di Berlusconi, il buon Augusto Minzolini, ha cercato di contestare le tesi di Belpietro, quest’ultimo si è messo a gridare come un ossesso e minacciosamente alzato dalla sua poltrona dando l’impressione di voler passare dalle parole ai fatti contro il collega, rimasto tranquillamente al suo posto per godersi il non brillante spettacolo di uno, fra l’altro, dei suoi predecessori alla guida del quotidiano fondato nel 1974 da Indro Montanelli. 

Jacopo Iacoboni

Il conduttore, imbarazzatissimo, ha dovuto ricorrere ad una interruzione pubblicitaria per evitare al pubblico una scena di aggressione  anche fisica di Belpietro al collega. Ma va detto che anche in altre trasmissioni della televisione di Berlusconi troneggiano più o meno putiniani di complemento, chiamiamoli così, fermi cioè al capo del Cremlino che piaceva tanto all’editore e fondatore del centrodestra italiano. Sempre su Rete 4, e sempre ieri, prima che cominciasse la trasmissione di Brindisi, nello spazio tradizionale della pacata  Barbara Palombelli occupato il sabato e la domenica dalla giovane e ardimentosa Veronica Gentili, il giornalista della Stampa Jacobo Iacoboni si è trovato solo a sostenere Zelensky e i suoi soccorritori occidentali, non scambiandoli per i suoi padroni. 

Giorgia Meloni alla conclusione della Conferenza programmatica dei fratelli d’Italia

Accennavo al centrodestra fondato da Berlusconi, e ormai non più guidato davvero da lui, sorpassato elettoralmente prima dai leghisti di Matteo Salvini e poi dai fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Che proprio ieri ha concluso la sua affollata conferenza programmatica, simile ai congressi di partito di una volta, sfidando i suoi ancora alleati in tante regioni e amministrazioni comunali, anch’esse però via via sempre più in affanno, a scegliere finalmente da che parte stare: a destra o a sinistra. E, più in particolare, a proposito della guerra in corso nel cuore dell’Europa, con Putin o con Zelenski e gli americani. Dei quali si può ben rifiutare di essere “gli animali da soma”, come ha detto l’ormai candidata della destra a Palazzo Chigi, senza diventare per questo i fiancheggiatori Putin, com’è francamente apparso un pò Salvini , sempre ieri, collegato a Massimo Giletti, guadagnandosi i sorrisi di Michele Santoro.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Questa festa del lavoro in tempo di guerra, onorata dai magistrati con lo sciopero

Immagini dall’Ucraina

In una Repubblica “fondata sul lavoro”, come dice il primo articolo della Costituzione in vigore dal 1948, la festa del lavoro, appunto, ha una sua valenza particolare, questa volta particolarissima perché si svolge in tempo di guerra. Che è quella condotta da più di 66 giorni dalla Russia di Putin contro l’Ucraina senza essere stata neppure dichiarata se non come “operazione speciale”, condotta per “denazificare” il Paese vicino, attratto dall’Occidente più che dal Cremlino.

Per porre fine a questa “operazione”, che a chiamare guerra si rischia ancora la galera in Russia, il presidente Putin sembra intenzionato non a cessarla ma a dichiararla per quella che è. E a proseguirla con ancora più forza, cercando di mangiarsi ancora più Ucraina e accreditando la vignetta per niente sarcastica, a questo punto, di Nico Pillinini sulla prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno titolata “Primo mangio”, anziché Primo maggio. In essa lo squalo russo con tanto di zeta impressa addosso, come i carri armati di Putin, si accinge a divorare il pesce Zelensky. 

Ai sindacati, che si sono dati appuntamento ad Assisi per questa edizione della festa del lavoro,  la guerra naturalmente non piace perché rischia di ripercuotersi negativamente anche sull’Italia. E non tanto perché con altri paesi occidentali stiamo aiutando l’Ucrania a resistere non per arrendersi, come in tanti auspicano, ma per respingere l’assalto, sopravvivere e magari anche vincere. Questa guerra non piace ai sindacati  per gli effetti recessivi che provoca ben al di là dei confini entro i quali si svolge. 

Titolo di Repubblica

Le già difficili condizioni di lavoro, con tanta disoccupazione ancora e tanta occupazione sottopagata, sono destinate a peggiorare sino a quando non si ripristinerà in Europa la pace, e non si troverà un nuovo, più sicuro approvvigionamento energetico, visto che quello incautamente costruito sino a due mesi fa la fa dipendere dalla Russia. 

In questa situazione a dir poco drammatica, in cui tutti rischiamo una brutta fine, non solo l’Ucraina, è assai curioso -saltando da un argomento all’altro- il modo in cui il sindacato delle toghe italiane ha deciso di partecipare alla festa del lavoro: decidendo lo sciopero praticamente contro il Parlamento che sta esaminando, in particolare al Senato, dopo il sì della Camera, una riforma pur parziale, anzi parzialissima della giustizia. Neppure la guardasigilli Marta Cartabia, col suo passato prestigioso di giudice e poi presidente della Corte Costituzionale, si è sottratta alle contestazioni subite dai suoi predecessori del centrodestra e del centrosinistra. Uno dei quali, Clemente Mastella, avvertì come una ritorsione l’arresto della moglie, peraltro presidente del Consiglio regionale della Campania, si dimise dal secondo governo Prodi e ne provocò la crisi, conclusasi con le elezioni anticipate.

Dall’editoriale di Alessandro Sallusti su Libero

I magistrati si sono messi sulla strada dello sciopero -peraltro deliberandolo nella loro assemblea generale  con una maggioranza di 1081 voti contro 169 e tredici astensioni- per essere “ascoltati”, come dicono i loro sindacalisti: in realtà, essendo stati ben consultati, e quindi ascoltati, sia dal governo sia dalla Camera, per cercare ancora di imporre i loro ormai abituali veti, in difesa di certe prerogative e abitudini. Di cui alcuni dei loro più qualificati colleghi, come Nino Di Matteo, consigliere superiore della Magistratura, hanno avvertito il pericolo che possano essere scambiati  per privilegi castali proprio per il modo col quale  vengono difesi. Lor signori, li chiamerebbe la buonanima di Fortebraccio sulla buonanima dell’Unità, vogliono giudicare ma non essere giudicati, neppure fra di loro, soprattutto col metodo che chiamano spregiativamente “meritocratico”.  

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