Non un aggettivo, un sostantivo, un congiuntivo fuori posto. Non un concetto astruso: magari non condivisibile ma chiaro, come quello sulla giustizia. Di cui Enrico Letta, nel discorso di candidatura e insieme anche di investitura a segretario del Pd, ha reclamato l’efficienza solo come garanzia dello
sviluppo del Paese
perché -ha praticamente spiegato- non potete immaginare quanti siano i mancati investimenti stranieri in Italia per la nostra giustizia lenta, incerta e perciò inefficiente. Sì, per carità, anche questo è vero, ma la prima cosa o il primo effetto che mi fa personalmente inorridire della giustizia inefficiente è l’offesa che arreca alla dignità e alla vita stessa della persona danneggiata. La giustizia non deve solo efficiente nei tempi ma anche, e prima ancora, giusta nelle decisioni, e severa con i magistrati che sbagliano.
Ma torniamo agli aspetti più generali, al tono, allo stile del discorso insieme programmatico e d’investitura del nuovo segretario del Pd, eletto con la sostanziale e prevista unanimità di 860 voti, 2 soli contrari e 4 astensioni. Non sembrava, per la sua accuratezza, neppure un discorso
ma una
lezione, forse la migliore che gli sia riuscita nel ruolo di professore datosi come una medicina, una terapia, dopo la cocente delusione politica procuratagli nel 2014 proprio dal Pd, appena conquistato come segretario da Matteo Renzi, con la rimozione del suo primo e unico governo. “Non è cattivo, ma non è capace”, disse impietosamente Renzi dell’allora presidente del Consiglio preparandone la decapitazione politica in una conversazione telefonica con l’amico generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi, intercettata non ricordo più con l’autorizzazione di quale ufficio giudiziario, tanto per darvi un altro elemento di valutazione dell’amministrazione della giustizia in Italia.
Ora che ha ottenuto l’elezione, o gliel’hanno accordata tutte le correnti in un momento di tregua
sopraggiunto alla “vergogna” avvertita e denunciata dall’ex segretario Nicola Zingaretti per la loro incontenibile
fame di “poltrone”, Enrico Letta è atteso alla prova del “nuovo Pd” -testuale- che ha promesso tornando alla politica dall’insegnamento esercitato a Parigi. Dove il suo dichiarato e compiaciuto sponsorizzatore Marc Lazar in una intervista a Repubblica ha raccontato che l’amico è davvero maturato, unendo alla competenza e a tante altre virtù anche quel tocco di decisionismo che occorre pure in politica. E della cui mancanza probabilmente profittò sette anni fa Renzi per disarcionarlo.
In effetti nel suo discorso-lezione di politica Renzi ha parlato molto frequentemente in prima persona al singolare –“io farò, io ho pensato, io ho deciso, io porterò, eccetera eccetera- e poco
in prima persona al plurale, cioè “noi faremo, noi diremo, noi ci proponiano, eccetera eccetera, fra cui il voto ai sedicenni e la cittadinanza agli immigrati. Se sono
rose fioriranno, con le loro spine naturalmente. Sennò sarà una catastrofe, non so se più per il nuovo, ottavo segretario -come lo ha incoronato Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera- o per il Pd. Di cui davvero Enrico -il magico nome
anche di Berlinguer, ha ricordato Letta strizzando l’occhio alla componente di provenienza comunista- può essere considerato a questo punto “l’ultima speranza”, col suo proposito di giocare per vincere. E non per andare semplicemente a rimorchio delle 5 Stelle, come il suo predecessore almeno nel tratto finale del suo mandato.
ufficialmente da una rappresentazione devastante delle condizioni del partito. Che affidandosi a Enrico Letta si è in qualche modo imbavagliato da solo, e con un certo sollievo. Né c’è da sperare che a riempire il vuoto dell’Assemblea Nazionale possa essere la parola passata dal nuovo segretario ai circoli, in uno dei quali, il più vicino a casa sua, egli sé è già fatto vedere e fotografare senza alcun imbarazzo con una specie di richiamo festoso ai “cocci” che ha ereditati.
depistaggio, quale è stata, per esempio, attribuita a Zingaretti sul Foglio da Salvatore Merlo. Che ha forse incoraggiato Giuliano Ferrara a quell’intervento agrodolce in cui l’ex presidente del Consiglio è stato esortato a non sprecare l’autorità, il prestigio e quant’altro è riuscito a procurarsi nel suo dorato esilio parigino dopo essere stato defenestrato da Palazzo Chigi nel 2014.
che gli occorreva per preparare la propria candidatura alla segreteria nella prospettiva di un congresso anticipato. E portando Enrico Letta al vertice ha salvaguardato, anzi salvato, la propria incidenza nel partito, propostasi
annunciando di volere continuare ad esserci. E non senza far nulla, ma continuando a portare avanti la sua linea politica di alleanza praticamente ad ogni costo con i grillini. Che non a caso da presidente della regione Lazio l’ex segretario del Pd ha appena portato in giunta. Egli ha scommesso su un rapporto con le 5 Stelle, e con Giuseppe Conte come nuovo fiduciario di Beppe Grillo, che gli possa procurare vantaggi personali, diciamo così, nella prossima legislatura: Palazzo Chigi o dintorni. Un genio, questo Zingaretti, se i fatti naturalmente gli dovessero dare ragione, a dispetto dei sondaggi per ora avari col Pd.
nella nuova versione, approvata da Papa Francesco, della più celebre preghiera cristiana. Che è naturalmente il Padre nostro, al quale ora chiediamo di “non abbandonarci alla tentazione”, appunto, dopo avergli chiesto per tanto tempo di non tentarci direttamente Lui. “Non indurci in tentazione”, ricordate? Ancora si prega così in molte chiese, perché l’abitudine è dura a morire.
un po’ di sangue e merda”, ha tradotto oggi sul Foglio Giuliano
Ferrara avvertendo l’amico Enrico che “l’autorevolezza è meglio perderla che sprecarla”. Figuratevi, con quella
mascherina applicatagli sul sedere da Nico Pillinini, della Gazzetta del Mezzogiorno. O col vaccino AstraZeneca inoculatogli dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio tra le polemiche e le paure sulla sua efficacia.
lo hanno disarcionato non più tardi di sette, otto anni fa” da Palazzo Chigi, “per cui -aveva insistito l’ex direttore del Corriere della Sera- lui vede negli occhi tutte le persone che lo hanno tradito. Tutti, nessuno escluso”. L’unico che può risparmiarsi di vedere, perché se n’è andato dal partito per improvvisarne un altro, è Matteo Renzi. Che peraltro -aveva inferito Mieli- “tutti ora vogliono combattere” dopo averlo “sostenuto quasi unanimemente nel far fuori Letta” dalla guida del governo nel febbraio del 2014.
stessa Repubblica tuttavia, in un’altra pagina, sono risultate otto: quelle di Zingaretti, valutata attorno al 28 per cento, di Dario Franceschini attorno al 14, di Andrea Orlando altrettanto, di Gianni Cuperlo attorno al 7, di Matteo Orfini altrettanto, dell’ex renziano Lorenzo Guerini attorno all’11, di Graziano Delrio, anche lui ex renziano, attorno al 10 e di Anna Ascani attorno al 9. Perché sette allora, come ha scritto Ainis senza che nessuno lo avvisasse e correggesse dalla redazione? Perché forse il costituzionalista aveva scritto di sette perfidamente come plurale di setta.
alla guida di un Pd che un po’ da storico e un po’ da editorialista Paolo Mieli ha
appena definito “un partito divoratore di leader e adoratore del potere”. Per cui sembra appropriata la vignetta di Stefano Rolli, sul Secolo XIX, che praticamente suggerisce all’ex presidente del Consiglio di assumere subito quanto meno “un assaggiatore”, non essendo stato ancora scoperto e tanto meno prodotto un vaccino anche per gli avvelenamenti, oltre che per il Covid.
Fanfani, e quello più recente che si chiama naturalmente Matteo Renzi, caduto e risorto più volte negli ultimi sei anni: dalla sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale nel 2016 alla conferma a segretario del Pd l’anno dopo, dalla sconfitta elettorale nel 2018 anche come segretario del partito alla ricomparsa come regista, l’anno dopo. del secondo governo di Giuseppe Conte, salvo abbatterlo poi per spianare la strada di Palazzo Chigi a Mario Draghi.
in “maschio” nella vignetta di Sergio Staino sulla Stampa dalla figlia del mitico Bobo, sentendosi
però rispondere dal padre che Enrico Letta “ha tanta femminilità dentro…tanta, credimi, tantissima”. Quelli del Foglio invece sono stati attratti dalle lenti dell’interessato per definire “il partito degli occhialini” quello che
egli potrebbe costruire attorno a sé, fra “giuristi, economisti, giovani”, sempre che naturalmente i “divoratori” -per dirla con Paolo Mieli- gliene lasceranno il tempo.
prima pagina: “Enrico Letta è rientrato in Italia dopo l’invito a diventare il nuovo segretario del Pd. Imbarazzo nel partito: intendevano Gianni Letta”. Già, perché in quel giornale sono convinti che, prima di dimettersi forse per pentimento, Zingaretti abbia lasciato fare a Mario Draghi un governo su misura per Berlusconi, oltre che per Matteo Salvini. L’ultima prova sarebbe la decisione appena presa
vertice di un partito di cui è stato
vice segretario ai tempi ormai lontani di Pier Luigi Bersani. Vignettisti, umoristi e quant’altri si sono letteralmente scatenati rinverdendo in qualche modo le sue passate disavventure con Matteo Renzi, immortalate in quella foto della campanella di Palazzo Chigi che l’uno passò all’altro con umore nero, a dir poco, per il tipo di “serenità” che gli era stata garantita prima del licenziamento.
fornito a suo tempo all’arrivo a Palazzo Chigi di Matteo Renzi, ancora fresco
di elezione a segretario del partito e nelle fasce del famoso “royal baby” di Silvio Berlusconi, Il Foglio di Giuliano Ferrara e ora anche di Claudio Cerasa, suo successore alla direzione, dà tutto per fatto. Addirittura con un “plebiscito” che domenica nell’Assemblea Nazionale assegnerà ad Enrico Letta, appunto, la carica di segretario e a Roberta Pinotti la vice segreteria.
ai soli giorni festivi la sua residenza romana a Testaccio. Il condizionale è d’obbligo, nonostante la certezza del Foglio, perché la margherita -al minucolo, essendo
quella con la maiuscola sciolta da tempo per la confluenza nel Pd- non è stata ancora sfogliata del tutto: né da chi dovrebbe eleggere Letta né dallo stesso Letta. Che, per quanto abbia conservato il Pd “nel cuore”, come
il candidato alla successione a Zingaretti voglia addirittura la garanzia di salire l’anno prossimo al Quirinale non come segretario del Pd in un giro, per esempio, di consultazioni politiche, bensì
da segretario -reggente “di Letta e di governo” come lo sfottono sul manifesto- essendo ancora in molti, forse in troppi, a reclamare un congresso anticipato
per chiarire bene linea e obbiettivi del partito, specie ora che è bastato l’annuncio di un Movimento 5 Stelle possibilmente rifondato da Giuseppe Conte per affondare nei sondaggi il Pd.
rappresentare più che dai discorsi, dalle interviste o dalle note affidate ai suoi collaboratori.
all’ospedale Spallanzani di Roma, ha atteso pazientemente il suo turno assieme agli altri e se n’è andato senza scomodare nessuno.
hanno mandato a chiedere i nostri voti: tutti, fuorché Moro”.
del secondo governo “balneare” di Giovanni Leone, Guido Quaranta e io rimanemmo sorpresi dalla vacanza ordinarissima dell’ex presidente del Consiglio. Che ogni mattina raggiungeva a piedi la famiglia sulla spiaggia vestito di tutto punto, in abito e cravatta, giocava con le bambine, sedeva sulla sdraio e passeggiava ogni tanto sul lungomare, seguito a piedi dalla scorta col fedelissimo Leonardi. Al quale non riuscimmo a strappare né un consenso ad avvicinarlo né una mezza parola di risposta alle nostre domande sulle abitudini del presidente.
giorno le foto di un reporter su Moro a Terracina, solo e sfidante il caldo con i suoi abiti. Ce ne fu anche una con lui in accappatoio accanto alla moglie: posa che c’era sfuggita, o cui Moro s’era concesso solo dopo non averci più visti a distanza, diavolo di un uomo.
in mascherina antipandemica scendendo solitariamente le scale del Vittoriano, nel cimitero del primo Comune colpito al Nord dall’epidemia, nel Quirinale
davanti alla porta del suo studio dopo le consultazioni per la crisi di governo, mentre spiega sobriamente e drammaticamente le ragioni del no allo scioglimento anticipato delle Camere e conseguenti elezioni a pandemia ancora in corso e, infine, almeno per ora, all’arrivo all’ospedale Spallanzani di Roma e poi seduto, in attesa come altri pazienti della sua età del proprio turno per la vaccinazione anti-Covid.
corso dalla formazione del governo di Mario Draghi per rappresentare un
tutt’altro presidente della Repubblica, non al di sopra ma al di sotto di tutti i livelli politici e istituzionali del Paese, refrattario al rispetto delle regole, impegnato a calare la “democrazia dall’alto”, come ha scritto in questi giorni uno dei costituzionalisti non so se più giustamente apprezzati per le cariche ricoperte in passato o avventatamente presuntuosi, ad aggirare la sovranità popolare smaniosa di esprimersi col pretesto, non
con la ragione dei rischi da contagio durante la campagna elettorale e le operazioni di voto, e infine impostosi sui partiti chiudendo la crisi ultima di governo con
il conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio a Mario Draghi. Che, dal canto suo, avrebbe tradito la fiducia alimentata nel suo ansioso predecessore, Giuseppe Conte, apparendogli troppo stanco degli otto anni trascorsi
alla guida della Banca Centrale Europea e, tutto sommato, indifferente ai problemi pur gravi del suo Paese.
Mattarella, cominciano ad uscire vignette dai tratti truci e obliqui, come quella offerta ai lettori proprio oggi dal Fatto Quotidiano -e da chi sennò- con l’accusa di essersi offerto o di essersi lasciato offrire come “salvatore della Patria” senza il consenso degli interessati più diretti al salvataggio. Che si sentivano invece così tranquilli, sicuri, rasserenati da un noto “avvocato del popolo” al quale generosamente e allegramente, per
astrazione da turbamento. Era chiaro già da tempo, con quelle centinaia di morti che ci venivano comunicati ogni giorno, tra il chiacchiericcio di virologi ed altri esperti, veri o presunti che fossero, che si stava marciando inesorabilmente verso e oltre i centomila morti, dopo averne contate a migliaia e poi a decine di migliaia.
automezzi militari che le trasportavano verso cimiteri e forni crematori.E ci sono state per fortuna risparmiate le immagini, riferite da alcune cronache, di feretri sovrapposti e abbandonati in depositi neppure adatti allo scopo, in attesa del loro turno di cremazione, o di urne cinerarie sospette di contraffazione da caos.
organizzative della campagna di immunizzazione, tali da avere imposto il ricorso ad un generale di Corpo d’Armata, la politica si è permessa anche il lusso di impiegare due mesi abbondanti per capire che un governo – quello numero 2 di Giuseppe Conte- aveva sostanzialmente consumato tutte le sue cartucce e andava sostituito con uno più attrezzato, cioè più all’altezza della situazione di crisi, anzi di emergenza.
alle cui rovine il Papa ha appena
celebrato messa a Mosul. E non vorrei che proprio il Pontefice, di ritorno dall’Irak che ha dichiarato di voler portare nel cuore accomiatandosene, pur affaticato alla sua età, non dimentichiamolo, si facesse tentare dallo sforzo generoso di una visita di soccorso e rimpianto al Nazareno. Dove invece esiste la sede di un partito intatto nelle sue mura, dove peraltro il segretario, gridando “vergogna”, ha ritenuto di doversi dimettere nonostante disponga – almeno sulla carta, in base alle informazioni di collaudati cronisti che ne seguono abitualmente le vicende- del 70 per cento e forse anche più dell’Assemblea Nazionale. Che si riunirà a fine settimana, salvo rinvii naturalmente.
Mauro. O al Pd “sfinito
per volontà di governo” trattato nel suo editoriale sulla Stampa da Massimo Cacciari, che ha evidentemente preso alla lettera il “poltronismo” lamentato proprio da Zingaretti. O alla “missione impossibile” di una “rifondazione” del Pd, di cui ha scritto nel suo editoriale sul Mattino Mauro
Calise. O addirittura al
parricidio come misura liberatoria, alla sessantottina, cui ha accennato un’autorità della psicanalisi come Massimo Recalcati scrivendo anche del Pd dopo la formazione del governo di Mario Draghi.
cordialità, travolgendo padrone di casa e ospiti sino a mandarli in infermeria o in ospedale. Proprio l’altro ieri mi sono gustato su Canale 5, dove mi ero affacciato con troppo anticipo pensando di trovarvi Zingaretti, la replica di una intervista a Luca Giurato fatta da una Barbara D’Urso terrorizzata vedendoselo seduto con la solita, festosa esuberanza su un bracciuolo della sua poltrona.
Che, diviso più o meno
metaforicamente nelle ultime 24 ore fra Barbara D’Urso sulla Tv, le sardine di Santori al Nazareno e i vaccinandi alla stazione Termini di Roma, è tornato sulle critiche ai dirigenti di partito che lo avrebbero costretto al clamoroso strappo, compiuto però a fin di bene, per dare al Pd la scossa
necessaria e farlo magari rifondare. Non so francamente da chi, alla maniera di ciò sta accadendo nel MoVimento 5 Stelle fra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, sorpresi insieme dal fotografo sulla sabbia di Bibbona
scatto d’ira con quella “vergogna” gridata contro il correntismo, il poltronismo e quant’altro del suo partito: frutto peraltro di una fusione a freddo fra i resti del Pci e della sinistra democristiana definita subito da Massimo D’Alema “un amalgama mal riuscito”. Si capisce meno però l’insistente confusione di Zingaretti, seguita a quello scatto, tra polemica e aggressione, critica e “martellamento”. Che è il termine da lui adoperato per descrivere il trattamento subìto nel partito dopo la chiusura della crisi con la formazione del governo di Mario Draghi.
sé le eventuali riserve per vigliaccheria o furbizia, appunto. Ma deve farne
anche i nomi, come lo ha sfidato sul Mattino Umberto Ranieri pur chiamandolo amichevolmente Nicola. E non può francamente negare di avere drammatizzato il sostegno a Giuseppe Conte. Non ha detto “Conte o morte” -è vero, come ha osservato nel collegamento televisivo con la D’Urso- ma politicamente gli è molto assomigliato, quanto meno, quel “disastroso Conte o elezioni” rimproveratogli anche da Ranieri.
versante opposto, contestando la sua pronta adesione al governo Draghi. Cui egli avrebbe dovuto continuare a preferire le elezioni scontrandosi direttamente anche col presidente della Repubblica: l’unico a poter sciogliere anticipatamente le Camere.