In attesa del “nuovo Pd” promesso dall’ottavo segretario Enrico Letta

            Non un aggettivo, un sostantivo, un congiuntivo fuori posto. Non un concetto astruso: magari non condivisibile ma chiaro, come quello sulla giustizia. Di cui Enrico Letta, nel discorso di candidatura e insieme anche di investitura a segretario del Pd, ha reclamato l’efficienza solo come garanzia dello sviluppo del Paese perché -ha praticamente spiegato- non potete immaginare quanti siano i mancati investimenti stranieri in Italia per la nostra giustizia lenta, incerta e perciò inefficiente. Sì, per carità, anche questo è vero, ma la prima cosa o il primo effetto che mi fa personalmente inorridire della giustizia inefficiente è l’offesa che arreca alla dignità e alla vita stessa della persona danneggiata. La giustizia non deve solo efficiente nei tempi ma anche, e prima ancora, giusta nelle decisioni, e severa con i magistrati che sbagliano.

            Ma torniamo agli aspetti più generali, al tono, allo stile del discorso insieme programmatico e d’investitura del nuovo segretario del Pd, eletto con la sostanziale e prevista unanimità di 860 voti, 2 soli contrari e 4 astensioni. Non sembrava, per la sua accuratezza, neppure un discorso ma una lezione, forse la migliore che gli sia riuscita nel ruolo di professore datosi come una medicina, una terapia, dopo la cocente delusione politica procuratagli nel 2014 proprio dal Pd, appena conquistato come segretario da Matteo Renzi, con la rimozione del suo primo e unico governo. “Non è cattivo, ma non è capace”, disse impietosamente Renzi dell’allora presidente del Consiglio preparandone la decapitazione politica in una conversazione telefonica con l’amico generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi, intercettata non ricordo più con l’autorizzazione di quale ufficio giudiziario, tanto per darvi un altro elemento di valutazione dell’amministrazione della giustizia in Italia.

            Ora che ha ottenuto l’elezione, o gliel’hanno accordata tutte le correnti in un momento di tregua sopraggiunto alla “vergogna” avvertita e denunciata dall’ex segretario Nicola Zingaretti per la loro incontenibile fame di “poltrone”, Enrico Letta è atteso alla prova del “nuovo Pd” -testuale- che ha promesso tornando alla politica dall’insegnamento esercitato a Parigi. Dove il suo dichiarato e compiaciuto sponsorizzatore Marc Lazar in una intervista a Repubblica ha raccontato che l’amico è davvero maturato, unendo alla competenza e a tante altre virtù anche quel tocco di decisionismo che occorre pure in politica. E della cui mancanza probabilmente profittò sette anni fa Renzi per disarcionarlo.

            In effetti nel suo discorso-lezione di politica Renzi ha parlato molto frequentemente in prima persona al singolare –“io farò, io ho pensato, io ho deciso, io porterò, eccetera eccetera- e poco  in prima persona al plurale, cioè “noi faremo, noi diremo, noi ci proponiano, eccetera eccetera, fra cui il voto ai sedicenni e la cittadinanza agli immigrati. Se sono rose fioriranno, con le loro spine naturalmente. Sennò sarà una catastrofe, non so se più per il nuovo, ottavo segretario -come lo ha incoronato Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera- o per il Pd. Di cui davvero Enrico -il magico nome anche di Berlinguer, ha ricordato Letta strizzando l’occhio alla componente di provenienza comunista- può essere considerato a questo punto “l’ultima speranza”, col suo proposito di giocare per vincere. E non per andare semplicemente a rimorchio delle 5 Stelle, come il suo predecessore almeno nel tratto finale del suo mandato.

Il Pd fra le parole di Enrico Letta e i fatti di Nicola Zingaretti

            Complice questa maledetta pandemia, che ne riduce i tempi e altera spesso i confronti con le modalità dei rapporti a distanza, sino a vanificarli, il cambio della guardia al vertice del Pd è maturato senza che si siano potute discutere e capire bene le ragioni delle improvvise dimissioni del segretario Nicola Zingaretti, pur motivate ufficialmente da una rappresentazione devastante delle condizioni del partito. Che affidandosi a Enrico Letta si è in qualche modo imbavagliato da solo, e con un certo sollievo. Né c’è da sperare che a riempire il vuoto dell’Assemblea Nazionale possa essere la parola passata dal nuovo segretario ai circoli, in uno dei quali, il più vicino a casa sua, egli sé è già fatto vedere e fotografare senza alcun imbarazzo con una specie di richiamo festoso ai “cocci” che ha ereditati.

            L’argomento di discussione, peraltro anche nei circoli destinata a subire le modalità riduttive dell’emergenza virale, tra mascherine e distanze, è già diventato un altro. Si discute del e col nuovo segretario, non certo del e col predecessore. Che, sornione, più furbo del fratello pur commissario Montalbano, può ben ritenersi soddisfatto di essersi sottratto ad un dibattito che avrebbe potuto imbarazzarlo. Da potenziale imputato, visto il sostanziale discredito procurato al partito rappresentandolo come un nido di vipere, quale altro non potrebbe essere perché dilaniato da correnti talmente affamate di potere da far provare “vergogna” anche chi ha avuto evidentemente la disavventura di guidarlo per un bel po’ di tempo, Zingaretti ha potuto diventare il sostanziale e benemerito regista dell’elezione del suo successore, sponsorizzato come “il più forte”, il migliore e quant’altro disponibile sulla piazza. Cui in fondo le correnti hanno riservato un’accoglienza o disponibilità tale da riscattarle dal giudizio dell’ex segretario, o da smentirlo. Curioso, no? Sì, assai curioso, direi.

          In una situazione o in un quadro così paradossale tutti possono immaginare quello che vogliono, anche che Enrico Letta si sia prestato a coprire un’operazione di raffinato o spregiudicato depistaggio, quale è stata, per esempio, attribuita a Zingaretti sul Foglio da Salvatore Merlo. Che ha forse incoraggiato Giuliano Ferrara a quell’intervento agrodolce in cui l’ex presidente del Consiglio è stato esortato a non sprecare l’autorità, il prestigio e quant’altro è riuscito a procurarsi nel suo dorato esilio parigino dopo essere stato defenestrato da Palazzo Chigi nel 2014.

          In particolare, uno Zingaretti luciferino sarebbe riuscito con le sue improvvise dimissioni a togliere al pericoloso concorrente Stefano Bonaccini, apprezzato presidente della regione Emilia-Romagna, il tempo che gli occorreva per preparare la propria candidatura alla segreteria nella prospettiva di un congresso anticipato. E portando Enrico Letta al vertice ha salvaguardato, anzi salvato, la propria incidenza nel partito, propostasi annunciando di volere continuare ad esserci. E non senza far nulla, ma continuando a portare avanti la sua linea politica di alleanza praticamente ad ogni costo con i grillini. Che non a caso da presidente della regione Lazio l’ex segretario del Pd ha appena portato in giunta. Egli ha scommesso su un rapporto con le 5 Stelle, e con Giuseppe Conte come nuovo fiduciario di Beppe Grillo, che gli possa procurare vantaggi personali, diciamo così, nella prossima legislatura: Palazzo Chigi o dintorni. Un genio, questo Zingaretti, se i fatti naturalmente gli dovessero dare ragione, a dispetto dei sondaggi per ora avari col Pd.

 

 

 

 

 

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Enrico Letta è dunque caduto in tentazione “per amore della politica”

            Non vorrei essere o solo sembrare blasfemo ma, stando almeno a quegli amici ed estimatori, da Gianfranco Pasquino al suo ex ministro delle riforme Gaetano Quagliariello, che gli avevano più o meno esplicitamente consigliato di non farlo, temo che Enrico Letta sia caduto in tentazione anche nella nuova versione, approvata da Papa Francesco, della più celebre preghiera cristiana. Che è naturalmente il Padre nostro, al quale ora chiediamo di “non abbandonarci alla tentazione”, appunto, dopo avergli chiesto per tanto tempo di non tentarci direttamente Lui. “Non indurci in tentazione”, ricordate? Ancora si prega così in molte chiese, perché l’abitudine è dura a morire.

             Enrico Letta, come la monaca di Monza di manzoniana memoria, ma in versione maschile, ha da “sventurato” risposto alla richiesta di Nicola Zingaretti di succedergli ad una segreteria che pure lo stesso Zingaretti ha lasciato dicendo peste e corna del partito, sino a “vergognarsene” per la voglia irrefrenabile delle sue correnti di litigare e occupare poltrone. E non è stato solo Zingaretti a chiedere a Letta di subentrargli. Uno alla volta, si sono accodati praticamente tutti, evidentemente fidandosi a loro modo dell’”amore per la politica” da lui dichiarato, anche a costo di scatenare la fantasia dei vignettisti.  

             “Deve sconvolgere le correnti, distruggerle”, gli aveva intimato ieri uno scettico Pasquino. “Adesso al Pd serve un po’ di sangue e merda”, ha tradotto oggi sul Foglio Giuliano Ferrara avvertendo l’amico Enrico che “l’autorevolezza è meglio perderla che sprecarla”. Figuratevi, con quella mascherina applicatagli sul sedere da Nico Pillinini, della Gazzetta del Mezzogiorno. O col vaccino AstraZeneca inoculatogli dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio tra le polemiche e le paure sulla sua efficacia.   

            Eppure -aveva ricordato ieri Paolo Mieli prevedendo il cedimento di Enrico Letta alla tentazione in una intervista al Riformista mentre ancora durava la sua riflessione- “i capi corrente sono gli stessi che lo hanno disarcionato non più tardi di sette, otto anni fa” da Palazzo Chigi, “per cui -aveva insistito l’ex direttore del Corriere della Sera- lui vede negli occhi tutte le persone che lo hanno tradito. Tutti, nessuno escluso”. L’unico che può risparmiarsi di vedere, perché se n’è andato dal partito per improvvisarne un altro, è Matteo Renzi. Che peraltro -aveva inferito Mieli- “tutti ora vogliono combattere” dopo averlo “sostenuto quasi unanimemente nel far fuori Letta” dalla guida del governo nel febbraio del 2014.  

            Anche il costituzionalista Michele Ainis su Repubblica ha ricordato a Letta con preoccupazione “le sette correnti” nelle quali è diviso il Pd. Che sulla stessa Repubblica tuttavia, in un’altra pagina, sono risultate otto: quelle di Zingaretti, valutata attorno al 28 per cento, di Dario Franceschini attorno al 14, di Andrea Orlando altrettanto, di Gianni Cuperlo attorno al 7, di Matteo Orfini altrettanto, dell’ex renziano Lorenzo Guerini attorno all’11, di Graziano Delrio, anche lui ex renziano, attorno al 10 e di Anna Ascani attorno al 9. Perché sette allora, come ha scritto Ainis senza che nessuno lo avvisasse e correggesse dalla redazione? Perché forse il costituzionalista aveva scritto di sette perfidamente come plurale di setta.

             L’elezione comunque è scontata all’Assemblea Nazionale di domani. In bocca al lupo, naturalmente, pur nella debole speranza che a crepare sia l’animale.

 

 

 

 

 

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Enrico Letta fra apprezzamenti e sfottò nella scalata al Nazareno

             Ha prodotto un minestrone di apprezzamenti, rievocazioni, soprannomi e anche sfottò ad Enrico Letta il ritorno, oltre che a casa, sulle prime pagine dei giornali come possibile successore di Nicola Zingaretti alla guida di un Pd che un po’ da storico e un po’ da editorialista Paolo Mieli ha appena definito “un partito divoratore di leader  e adoratore del potere”. Per cui  sembra appropriata la vignetta di Stefano Rolli, sul Secolo XIX, che praticamente suggerisce all’ex presidente del Consiglio di assumere subito quanto meno “un assaggiatore”, non essendo stato ancora scoperto e tanto meno prodotto un vaccino anche per gli avvelenamenti, oltre che per il Covid.

            Il “Rieccolo” di memoria montanelliana gli è in qualche modo spettato per l’affinità pur adottiva, essendo nato a Pisa da famiglia abruzzese, con altri due “Rieccoli” toscani: quello originario inventato da Indro Montanelli, cioè Amintore Fanfani, e quello più recente che si chiama naturalmente Matteo Renzi, caduto e risorto più volte negli ultimi sei anni: dalla sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale nel 2016 alla conferma a segretario del Pd l’anno dopo, dalla sconfitta elettorale nel 2018 anche come segretario del partito alla ricomparsa come regista, l’anno dopo. del secondo governo di Giuseppe Conte, salvo abbatterlo poi per spianare la strada di Palazzo Chigi a Mario Draghi.

            Proprio a proposito di Draghi, considerato il più politico dei tecnici, Enrico Letta è stato indicato come il più tecnico dei politici e perciò “il Draghi del Pd” o, per lo stato in cui quel partito è ridotto per la descrizione fattane dallo stesso segretario dimissionario, “il Draghi dei poveri”.

            Quel “forte” datogli da Zingaretti nella presunzione di aiutarlo a succedergli è stato tradotto in “maschio” nella vignetta di Sergio Staino sulla Stampa dalla figlia del mitico Bobo, sentendosi però rispondere dal padre che Enrico Letta “ha tanta femminilità dentro…tanta, credimi, tantissima”. Quelli del Foglio invece sono stati attratti dalle lenti dell’interessato per definire “il partito degli occhialini” quello che egli potrebbe costruire attorno a sé, fra “giuristi, economisti, giovani”, sempre che naturalmente i “divoratori” -per dirla con Paolo Mieli- gliene lasceranno il tempo.

            Non poteva naturalmente mancare in questo minestrone di giudizi, valutazioni e quant’altro i riferimenti familiari ad un altro Letta: lo zio Gianni, grande consigliere e ambasciatore di Silvio Berlusconi. Se n’è ricordato il solito Fatto Quotidiano dedicandogli “la cattiveria” di giornata sulla prima pagina: “Enrico Letta è rientrato in Italia dopo l’invito a diventare il nuovo segretario del Pd. Imbarazzo nel partito: intendevano Gianni Letta”. Già, perché in quel giornale sono convinti che, prima di dimettersi forse per pentimento, Zingaretti abbia lasciato fare a Mario Draghi un governo su misura per Berlusconi, oltre che per Matteo Salvini. L’ultima prova sarebbe la decisione appena presa dal presidente del Consiglio di nominare sottosegretaria allo Sport Valentina Vezzali, “berlusconiana e poi montiana”, perciò “perfetta per un governo di centrodestra”. E così è anche servito, a suo modo, Beppe Grillo per avere accettato pure lui Draghi a Palazzo Chigi trovando subito un posto politico al… deposto Giuseppe Conte: “rifondatore” del MoVimento 5 Stelle, o come diavolo esso potrà chiamarsi alla fine.

 

 

 

 

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La corsa veloce e allegra, ma non troppo, di Enrico Letta alla segreteria del Pd

             Ha quanto meno un aspetto divertente -pur nel contesto della situazione assai critica, se non drammatica, in cui Nicola Zingaretti ha messo il Pd accompagnando le dimissioni da segretario con giudizi abrasivi sulla sua classe dirigente, quasi da causa per danni- la corsa di Enrico Letta al vertice di un partito di cui è stato vice segretario ai tempi ormai lontani di Pier Luigi Bersani. Vignettisti, umoristi e quant’altri si sono letteralmente scatenati rinverdendo in qualche modo le sue passate disavventure con Matteo Renzi, immortalate in quella foto della campanella di Palazzo Chigi che l’uno passò all’altro con umore nero, a dir poco, per il tipo di “serenità” che gli era stata garantita prima del licenziamento.

            Pur partecipe col suo vignettista alla gara dello sfottò, coerente del resto con l’appoggio entusiastico fornito a suo tempo all’arrivo a Palazzo Chigi di Matteo Renzi, ancora fresco di elezione a segretario del partito e nelle fasce del famoso “royal baby” di Silvio Berlusconi, Il Foglio di Giuliano Ferrara e ora anche di Claudio Cerasa, suo successore alla direzione, dà tutto per fatto. Addirittura con un “plebiscito” che domenica nell’Assemblea Nazionale assegnerà ad Enrico Letta, appunto, la carica di segretario e a Roberta Pinotti la vice segreteria.

            Starebbe dunque per finire il mezzo esilio pur dorato a Parigi dell’ex presidente del Consiglio delle ex “larghe intese” del 2013, dimessosi persino da deputato dopo quell’esperienza per andare ad insegnare politica in Francia, destinando ai soli giorni festivi la sua residenza romana a Testaccio. Il condizionale è d’obbligo, nonostante la certezza del Foglio, perché la margherita -al minucolo, essendo quella con la maiuscola sciolta da tempo per la confluenza nel Pd- non è stata ancora sfogliata del tutto: né da chi dovrebbe eleggere Letta né dallo stesso Letta. Che, per quanto abbia conservato il Pd “nel cuore”, come troverete scritto su tutti i giornali, conosce bene i suoi polli e sa bene che non può fidarsene del tutto, neppure o specie nel nuovo quadro politico e istituzionale -aggiungerei- creatosi in Italia con la formazione del governo di Mario Draghi.

            Non dico -come gli attribuisce forse un po’ troppo velenosamente La Verità di Maurizio Belpietro- che il candidato alla successione a Zingaretti voglia addirittura la garanzia di salire l’anno prossimo al Quirinale non come segretario del Pd in un giro, per esempio, di consultazioni politiche, bensì come nuovo presidente della Repubblica. Ma quanto meno egli vorrà accertarsi ben bene di diventare davvero il nuovo segretario. E non un reggente travestito da segretario -reggente “di Letta e di governo” come lo sfottono sul manifesto- essendo ancora in molti, forse in troppi, a reclamare un congresso anticipato per chiarire bene linea e obbiettivi del partito, specie ora che è bastato l’annuncio di un Movimento 5 Stelle possibilmente rifondato da Giuseppe Conte per affondare nei sondaggi il Pd.

            Va bene essere ambiziosi e persino generosi, in politica poi, ma forse c’è un limite a tutto, specie per un uomo  come Enrico Letta che ha peraltro provato sulla sua pelle che cosa significhi abbassare la guardia.

 

 

 

 

 

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Quello stile tutto moroteo di Sergio Mattarella nelle foto e nei silenzi

Sospetto che Sergio Mattarella, di famiglia notoriamente morotea quali furono il padre Bernardo e il fratello Pier Santi, abbia ereditato da Aldo Moro anche la predilezione per le foto. Dalle quali spesso lo statista democristiano così barbaramente ucciso nel 1978 dalle brigate rosse si lasciava rappresentare più che dai discorsi, dalle interviste o dalle note affidate ai suoi collaboratori.

Mattarella, da qualche settimana entrato nelle perfide allusioni di costituzionalisti, politologi, editorialisti e retroscenisti spiazzati dalla forte decisione da lui presa, al termine di una lunga, ambigua e inconcludente crisi di governo, di mandare a Palazzo Chigi  Mario Draghi per una soluzione che fosse anche una svolta, al punto in cui erano arrivati i rapporti fra i partiti, ha voluto vaccinarsi nel modo clamorosamente più semplice, ordinario e al tempo stesso sorprendente. Si è presentato all’ospedale Spallanzani di Roma, ha atteso pazientemente il suo turno assieme agli altri e se n’è andato senza scomodare nessuno.

Quest’uomo, questo presidente della Repubblica sarebbe -pensate un po’- lo stesso che secondo Gustavo Zagbrebelsky, non certo l’ultimo costituzionalista fermato per strada a commentarne le scelte, avrebbe fatto calare “la democrazia dall’alto”, anziché farla salire “dal basso”, facendo fare il governo a Draghi. Sarebbe il presidente al quale, secondo il politologo Piero Ignazi su Domani,  l’ancora segretario del Pd Nicola Zingaretti avrebbe dovuto dire alto e forte il suo no alla rimozione di Giuseppe Conte. Che sarebbe pertanto avvenuta in modo un po’ troppo sbrigativo, se non autoritario. Sarebbe il presidente, secondo l’ultima vignetta del Fatto Quotidiano, che avrebbe promosso Draghi a “salvatore della Patria” senza prima verificare il gradimento degli italiani, evidentemente mandandoli alle urne con le mascherine. Sarebbe magari anche il presidente  rinfrancato dalla chiamata di un generale di Corpo d’Armata alla guida della lotta al Covid, con le vaccinazioni e tutto il resto.

Ci vuole della fantasia, oltre che della disinvoltura, per travestire il prossimo così. E uso il travestimento anch’esso pensando a Moro e a ciò ch’egli disse alla delegazione della sua ex corrente dorotea, della Dc, che era andata a casa a informarlo nel 1971 della decisione presa di candidare al Quirinale, fallita la corsa di Amintore Fanfani, il senatore Giovanni Leone anziché lui, in qualche modo danneggiato politicamente dallo scontato appoggio che avrebbe ricevuto dai comunisti. “Mi avete messo addosso un abito che non è il mio”, rispose laconicamente Moro. Qualche giorno prima in Transatlantico, alla Camera, proprio il comunista Giorgio Amendola aveva dichiarato: “In tanti democristiani sono venuti o hanno mandato a chiedere i nostri voti: tutti, fuorché Moro”.

Ebbene, di Moro estromesso dagli amici dorotei da Palazzo Chigi dopo le elezioni ordinarie del 1968, pur chiusesi con guadagni per la Dc dopo quattro anni e mezzo di ininterrotta alleanza di governo col Psi di Pietro Nenni, tutti si chiedevano in quell’estate se e come avrebbe reagito all’offensiva dei colleghi di partito.

Incaricati dai nostri rispettivi giornali, Paese sera e Momento sera, di seguire Moro nel suo ritiro di Terracina per carpirgli qualche proposito, vedere con chi si incontrasse e capire cosa bollisse nella pentola del Consiglio Nazionale scudocrociato, convocato per l’autunno dopo la formazione del secondo governo “balneare” di Giovanni Leone, Guido Quaranta e io rimanemmo sorpresi dalla vacanza ordinarissima dell’ex presidente del Consiglio. Che ogni mattina raggiungeva a piedi la famiglia sulla spiaggia vestito di tutto punto, in abito e cravatta, giocava con le bambine, sedeva sulla sdraio e passeggiava ogni tanto sul lungomare, seguito a piedi dalla scorta col fedelissimo Leonardi. Al quale non riuscimmo a strappare né un consenso ad avvicinarlo né una mezza parola di risposta alle nostre domande sulle abitudini del presidente.

Alla fine dovemmo tornarcene a Roma senza uno straccio di notizia e riferire ai nostri direttori che Moro se ne stava tranquillissimo con la famiglia, lasciandoci liberi solo di interpretare i suoi silenzi. Concorrenti ma anche amici, ci scambiammo le reazioni dei nostri giornali, ugualmente incredule. Intervennero in nostro soccorso dopo qualche giorno le foto di un reporter su Moro a Terracina, solo e sfidante il caldo con i suoi abiti. Ce ne fu anche una con lui in accappatoio accanto alla moglie: posa che c’era sfuggita, o cui Moro s’era concesso solo dopo non averci più visti a distanza, diavolo di un uomo.

Seppi che ebbe migliore fortuna di noi dopo qualche settimana Francesco Cossiga. Dal quale Moro si lasciò accompagnare in qualche passeggiata sul lungomare anticipandogli la decisione di uscire dalla corrente dorotea per formarne una tutta sua e passare all’opposizione interna del partito, dove aumentavano le cose su cui discutere: la contestazione giovanile, la rivolta comunista di Praga repressa dai carri armati sovietici, l’autunno sindacale.

 

 

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it  il 14 marzo

Lezioni di stile, ed altro ancora, di Sergio Mattarella a critici e avversari

         

            Di Sergio Mattarella, salvo altre sorprese che vorrà riservarci nell’ultimo anno del suo mandato di presidente della Repubblica, credo che rimarranno significative e famose quelle foto scattategli in mascherina antipandemica scendendo solitariamente le scale del Vittoriano, nel cimitero del primo Comune colpito al Nord dall’epidemia, nel Quirinale davanti alla porta del suo studio dopo le consultazioni per la crisi di governo, mentre spiega sobriamente e drammaticamente le ragioni del no allo scioglimento anticipato delle Camere e conseguenti elezioni a pandemia ancora in corso e, infine, almeno per ora, all’arrivo all’ospedale Spallanzani di Roma e poi seduto, in attesa come altri pazienti della sua età del proprio turno per la vaccinazione anti-Covid.

           Sono stati ripresi gesti e atteggiamenti che danno la misura di un uomo che pure, nelle funzioni che esercita, potrebbe comportarsi anche diversamente. Basti pensare che una corte di giustizia che lo volesse interrogare come teste o persona informata dei fatti, deve andare da lui e non convocarlo in tribunale, anche se ci sono pubblici ministeri che muoiono dalla voglia di ben altro spettacolo, magari sperando di potere trasformare in aula il teste in imputato. Ci andammo vicini col predecessore di Mattarella, durante il mandato presidenziale di Giorgio Napolitano nell’ambito di quel processo senza fine che si trascina incredibilmente a Palermo, ormai dimenticato e smentito in tante altre sedi giudiziarie, sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia delle stagioni stragiste.

            Le foto di Mattarella allo Spallanzani, le vignette e i titoli che le hanno accompagnate sulle prime pagine di molti giornali sono la proposta più appropriata e convincente a quella campagna subdola in corso dalla formazione del governo di Mario Draghi per rappresentare un tutt’altro presidente della Repubblica, non al di sopra ma al di sotto di tutti i livelli politici e istituzionali del Paese, refrattario al rispetto delle regole, impegnato a calare la “democrazia dall’alto”, come ha scritto in questi giorni uno dei costituzionalisti non so se più giustamente apprezzati per le cariche ricoperte in passato o avventatamente presuntuosi, ad aggirare la sovranità popolare smaniosa di esprimersi col pretesto, non con la ragione dei rischi da contagio durante la campagna elettorale e le operazioni di voto, e infine impostosi sui partiti chiudendo la crisi ultima di governo con il conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio a Mario Draghi. Che, dal canto suo, avrebbe tradito la fiducia alimentata nel suo ansioso predecessore, Giuseppe Conte, apparendogli troppo stanco degli otto anni trascorsi alla guida della Banca Centrale Europea e, tutto sommato, indifferente ai problemi pur gravi del suo Paese.

            Di questo Draghi così sfrenatamente e improvvisamente ambizioso, caduto nella tentazione del diavolo Mattarella, cominciano ad uscire vignette dai tratti truci e obliqui, come quella offerta ai lettori proprio oggi dal Fatto Quotidiano -e da chi sennò- con l’accusa di essersi offerto o di essersi lasciato offrire come “salvatore della Patria” senza il consenso degli interessati più diretti al salvataggio. Che si sentivano invece così tranquilli, sicuri, rasserenati da un noto “avvocato del popolo” al quale generosamente e allegramente, per 

fortuna, un comico di professione  ha rimediato subito un altro posto o incarico degno delle sue qualità: la rifondazione di un manicomio politico.

 

 

 

 

 

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L’orribile assuefazione ai più di centomila morti di Covid in Italia

             Il vecchio sociologo Giuseppe De Rita, che ormai conosce per esperienza la società italiana come le sue tasche per tutte le volte in cui l’ha esaminata e ne ha misurata la febbre, negli anni felici e infelici, ha parlato di un Paese “in trance” di fronte alla “soglia psicologica” dei centomila morti di Covid ormai superata nel giro di poco più di un anno.

            Da profano quale sono temo che siamo anche altre, e di ragioni diverse, le condizioni di trance, cioè di astrazione da turbamento. Era chiaro già da tempo, con quelle centinaia di morti che ci venivano comunicati ogni giorno, tra il chiacchiericcio di virologi ed altri esperti, veri o presunti che fossero, che si stava marciando inesorabilmente verso e oltre i centomila morti, dopo averne contate a migliaia e poi a decine di migliaia.

            Eravamo riusciti a neutralizzare con sorpresente rapidità e assuefazione anche l’effetto originariamente shoccante delle chiese piene di bare, poi delle colonne di 

automezzi militari che le trasportavano verso cimiteri e forni crematori.E ci sono state per fortuna risparmiate le immagini, riferite da alcune cronache, di feretri sovrapposti e abbandonati in depositi neppure adatti allo scopo, in attesa del loro turno di cremazione, o di urne cinerarie sospette di contraffazione da caos.

            In questo quadro a dir poco raccapricciante, solo in parte mitigato delle notizie sull’arrivo anzitempo dei vaccini, poi smentite o ridotte da altre sui ritardi delle consegne e sulle complicazioni organizzative della campagna di immunizzazione, tali da avere imposto il  ricorso ad un generale di Corpo d’Armata, la politica si è permessa anche il lusso di impiegare due mesi abbondanti per capire che un governo – quello numero 2 di Giuseppe Conte- aveva sostanzialmente consumato tutte le sue cartucce e andava sostituito con uno più attrezzato, cioè più all’altezza della situazione di crisi, anzi di emergenza.

            Abbiamo per un bel po’ di giorni contato i morti da Covid in seconda battuta rispetto ad un altro conteggio: quello che si faceva tra le stanze di Palazzo Chigi e i corridoi del Senato per verificare quanti fossero i parlamentari disposti a passare dall’opposizione, o dintorni, alla maggioranza per permettere al presidente del Consiglio di turno di sostituire quelli che se n’erano andati ad un segno di Matteo Renzi. Che, dal canto suo, al netto di tutti gli errori, di metodo e di sostanza, che gli sono stati e gli sono ancora contestati, e che lui peraltro potrebbe risparmiarsi e risparmiarci con una condotta più accorta, aveva avvertito, fra le varie esigenze o opportunità, anche quella di aprire a tempo debito una commissione parlamentare d’inchiesta anche sugli errori degli altri: quelli preposti alla gestione dell’emergenza sanitaria. E di errori su quel versante ne sono stati commessi di certo, pur col riconoscimento dovuto della eccezionalità degli eventi.

I danni procurati al Pd da Nicola Zingaretti …a sua insaputa

Pur mosso, per carità, dalle migliori intenzioni, addirittura da una spinta “d’amore”, come gli è capitato di dire, temo che il segretario dimissionario Nicola Zingaretti non stia facendo un buon servizio al suo partito continuando a rappresentarlo come un nido di vipere. O addirittura come un ammasso di rovine, una di quelle Chiese in mezzo alle cui rovine il Papa ha appena celebrato messa a Mosul. E non vorrei che proprio il Pontefice, di ritorno dall’Irak che ha dichiarato di voler portare nel cuore accomiatandosene, pur affaticato alla sua età, non dimentichiamolo, si facesse tentare dallo sforzo generoso di una visita di soccorso e rimpianto al Nazareno. Dove invece esiste la sede di un partito intatto nelle sue mura, dove peraltro il segretario, gridando “vergogna”, ha ritenuto di doversi dimettere nonostante disponga – almeno sulla carta, in base alle informazioni di collaudati cronisti che ne seguono abitualmente le vicende- del 70 per cento e forse anche più dell’Assemblea Nazionale. Che si riunirà a fine settimana, salvo rinvii naturalmente.

Il Pd è stato riproposto in condizioni francamente molto più critiche di quanto non siano anche nella intervista, diciamo così, di commiato di Zingaretti da Barbara D’Urso. La quale era tanto emozionata dagli apprezzamenti dell’ospite a distanza per l’unico salotto televisivo dove grazie alla sua conduzione, si potrebbe stare e ragionare “senza la puzza al naso” dei soliti “radical chic”, da confondere Zingaretti per il presidente, e non il segretario dimissionario, avendo lui come unica presidenza quella della regione Lazio.

Trovo, peraltro, alquanto esagerato lamentare che il pluralismo, il confronto e quant’altro siano stati “scambiati con la polemica”, come ha detto appunto Zingaretti a quanti lo hanno criticato nel partito, o con “un martellamento”, come lo stesso Zingaretti ha detto rispondendo ai giornalisti che, accorsi all’inaugurazione di un hab di vaccinazione alla Stazione Termini, da lui inaugurato nella veste già accennata di presidente della regione Lazio, hanno comprensibilmente cercato di farlo parlare delle dimissioni da segretario del Pd.

E’ vero, in questa occasione Zingaretti ha anche detto che il partito potrà “cavarsela”, come tutti noi dalla pandemia, secondo gli auspici, anzi la certezza espressa pure dal presidente della Repubblica nella stessa giornata accorrendo alla Nuvola di Massimiliano Fuksas felicemente trasformata in un centro di vaccinazione. Ma per cavarsela il Pd ha quanto meno bisogno che il suo segretario, per quanto uscente o dimissionario, come preferite, non ne parli peggio ancora dei più critici osservatori delle vicende politiche.

Penso, per esempio, al partito “labirinto” di cui ha scritto nel suo editoriale su Repubblica l’ex direttore Ezio Mauro. O al Pd “sfinito per volontà di governo” trattato nel suo editoriale sulla Stampa da Massimo Cacciari, che ha evidentemente preso alla lettera il “poltronismo” lamentato proprio da Zingaretti. O alla “missione impossibile” di una “rifondazione” del Pd, di cui ha scritto nel suo editoriale sul Mattino Mauro Calise. O addirittura al parricidio come misura liberatoria, alla sessantottina, cui ha accennato un’autorità della psicanalisi come Massimo Recalcati scrivendo anche del Pd dopo la formazione del governo di Mario Draghi.

Mi chiedo tuttavia quale sia il padre vero di cui liberarsi in quel partito, fra i tanti segretari avvicendatisi nei suoi primi e soli tredici anni di vita: Walter Veltroni, Dario Franceschini per qualche mese, Pier Luigi Bersani, Guglielmo Epifani, anche lui per qualche mese, Matteo Renzi, Maurizio Martina, di nuovo per poco tempo, e infine Zingaretti. O bisogna andare ancora più indietro anagraficamente e arrivare ai sopravvissuti alla guida delle formazioni dalla cui confluenza nacque il Pd nel 2007? Bel problema. Sarebbe un’ecatombe. Dovrebbero temere il parricidio anche Massimo D’Alema, Piero Fassino, di cui pure è comparso il nome come un possibile reggente del Pd in questi giorni su parecchi giornali, e Achille Occhetto. Si salverebbe, per fortuna, solo Giorgio Napolitano per la fortuna di essere arrivato al Quirinale, peraltro rimanendovi per ben 9 anni, con un supplemento di mandato presidenziale unico nella storia della Presidenza della Repubblica, senza essere prima passato per la guida di nessuno dei partiti d’origine del Pd.

Insomma, Nicola Zingaretti farebbe forse bene a fermarsi, non dico a tornare indietro, e a riflettere sulle impietose analisi o diagnosi che emette direttamente sul Pd o finisce per suggerire ad altri. Senza rendersene conto, spero, egli sta un po’ facendo col pur “suo” Pd ciò che il mio amico Luca Giurato ha preso l’abitudine di fare nei salotti televisivi con le sue esagerate manifestazioni di affetto e cordialità, travolgendo padrone di casa e ospiti sino a mandarli in infermeria o  in ospedale. Proprio l’altro ieri mi sono gustato su Canale 5, dove mi ero affacciato con troppo anticipo pensando di trovarvi Zingaretti, la replica di una intervista a Luca Giurato fatta da una Barbara D’Urso terrorizzata vedendoselo seduto con la solita, festosa esuberanza su un bracciuolo della sua poltrona.

Pubblicato sul Dubbio

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Troppa o finta l’ingenuità del dimissionario Nicola Zingaretti

Più passano i giorni dell’annuncio delle dimissioni del segretario del Pd, più si avvicina l’appuntamento con l’Assemblea Nazionale di sabato prossimo e meno se ne capiscono, francamente, le ragioni di fronte alle spiegazioni che via via ne ha date e ne dà lo stesso Nicola Zingaretti. Che, diviso più o meno metaforicamente nelle ultime 24 ore fra Barbara D’Urso sulla Tv, le sardine di Santori al Nazareno e i vaccinandi alla stazione Termini di Roma,  è tornato sulle critiche ai dirigenti di partito che lo avrebbero costretto al clamoroso strappo, compiuto però a fin di bene, per dare al Pd la scossa necessaria e farlo magari rifondare. Non so francamente da chi, alla maniera di ciò sta accadendo nel MoVimento 5 Stelle fra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, sorpresi insieme dal fotografo sulla sabbia di Bibbona

            Di un uomo cresciuto in politica mangiando pane e cicoria, come una volta disse Francesco Rutelli volendosi descrivere nel rapporto quotidiano con l’asprezza della politica, si può capire uno scatto d’ira con quella “vergogna” gridata contro il correntismo, il poltronismo e quant’altro del suo partito: frutto peraltro di una fusione a freddo fra i resti del Pci e della sinistra democristiana definita subito da Massimo D’Alema “un amalgama mal riuscito”. Si capisce meno però l’insistente confusione di Zingaretti, seguita a quello scatto, tra polemica e aggressione, critica e “martellamento”. Che è il termine da lui adoperato per descrivere il trattamento subìto nel partito dopo la chiusura della crisi con la formazione del governo di Mario Draghi.

            Se la stessa confusione l’avessero fatta, ai loro tempi, i segretari del Pci, da cui proviene Zingaretti, e della Dc, da cui proviene una buona parte dei suoi attuali compagni, forse anche di corrente, quei due partiti non avrebbero vissuto così a lungo. Nell’uno e nell’altra, per quanto nel Pci vigesse una disciplina che in qualche modo ne riduceva la trasparenza, la politica non è mai stata ciò che si chiama un pranzo di gala.

            Ebbene, Zingaretti ha avuto la disinvoltura, a dir poco, di lamentarsi di un “pluralismo” o di un “confronto” tradotto dai suoi critici nella “polemica” o nella “furbizia”. Neppure la polemica, allora, si può fare in un partito con un segretario di cui non si condivide la linea o, più in particolare, una scelta? E dov’è scritto che la furbizia sia incompatibile con la politica? Qui c’è troppa ingenuità per essere presa per buona.

            Il segretario dimissionario del Pd può lamentarsi a ragione delle critiche formulate alla sua gestione della crisi anche da quelli che nelle sedi opportune l’hanno a suo tempo approvata, tenendosi per sé le eventuali riserve per vigliaccheria o furbizia, appunto. Ma deve farne anche i nomi, come lo ha sfidato sul Mattino Umberto Ranieri pur chiamandolo amichevolmente Nicola. E non può francamente negare di avere drammatizzato il sostegno a Giuseppe Conte. Non ha detto “Conte o morte” -è vero, come ha osservato nel collegamento televisivo con la D’Urso- ma politicamente gli è molto assomigliato, quanto meno, quel “disastroso Conte o elezioni” rimproveratogli anche da Ranieri.

            Questo è tanto vero che il politologo Piero Ignazi su Domani, il nuovo quotidiano di Carlo De Benedetti, glielo ha rinfacciato, dal versante opposto, contestando la sua pronta adesione al governo Draghi. Cui egli avrebbe dovuto continuare a preferire le elezioni scontrandosi direttamente anche col presidente della Repubblica: l’unico a poter sciogliere anticipatamente le Camere.  

 

 

 

 

 

 

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