Il buon Paolo Mieli nell’editoriale sul Corriere della Sera, spalleggiando la cronaca di Alessandro Trocino sui
cambiamenti in corso
nel Pd, ha in qualche modo attinto persino al libro della Genesi per scrivere che “in una sola settimana -tanto è trascorso da quando è stato eletto segretario- Enrico Letta è riuscito a fare cose che sembravano impossibili”. In una sola settimana, ripeto, compreso il settimo giorno riservatosi da Dio per riposarsi e al tempo stesso contemplare ciò che aveva fatto.
L’ultima “sfida” di Letta e quant’altro, sempre stando ai titoli dei giornali, è consistita nell’ordine al partito di calzare scarpe femminili, col tacco, presumo rigorosamente in rosso: il colore felicemente
scelto in tutti i manifesti, locandine e bozzetti delle sacrosante campagne contro i troppi omicidi di donne. Cui il povero segretario nuovo del Pd ritiene di non avere abbastanza
riparato, almeno rispetto al maschilismo incautamente praticato dal predecessore, osservando la cosiddetta parità di genere nella nomina prima dei due vice segretari, e poi dell’intero ufficio di segreteria.
No, tanto per non essere scambiato per un Orbàn qualsiasi, come lui stesso ha spiegato in una intervista, Letta ha chiesto ai due capigruppo parlamentari del partito, al Senato e alla Camera, di rinunciare alle loro cariche -dopo avere tuttavia graziato il capo della delegazione piddina al Parlamento Europeo- per lasciare eleggere due donne, appunto. O due femmine, come preferite. E pazienza se entrambi -Andrea Marcucci al Senato e Graziano Delrio alla Camera- sono provenienti dalla corrente
renziana, pur non avendo seguito nel 2019 l’uscita del senatore di Scandicci, ex segretario ed ex presidente del Consiglio, dal Pd in cui si sentiva troppo ristretto. Eppure egli aveva appena convinto il buon Nicola Zingaretti a rinunciare al preventivo passaggio elettorale cui si era impegnato pubblicamente per sostituire immediatamente la Lega al governo alleandosi col MoVimento 5 Stelle. E per giunta lasciando a Palazzo Chigi Giuseppe Conte, dopo avere reclamato “discontinuità” al primo accenno dell’operazione proposta da Renzi per impedire un ricorso anticipato alle urne destinato, secondo tutti i sondaggi disponibili sul mercato, a far vincere un centrodestra a ormai fortissima trazione leghista, anzi salviniana: da Matteo Salvini, naturalmente, quello del Papete, del mojto e dei “pieni poteri” imprudentemente chiesti agli elettori per poter governare spedito, alla sua maniera, fra tute più o meno militari, rosari, immaginette della Madonna e crocifissi appesi al collo, o baciuchiati sui palchi dei comizi.
La femminizzazione completa del Pd almeno ai vertici dei gruppi parlamentari, prestatasi per la comune origine correntizia dei presidenti uscenti alla lettura di una purga dipinta di rosa, come si legge
in un titolo ironico ma non troppo della Verità di Maurizio Belpietro, ha creato malumori, e non solo sorpresa, fra i polli, chiamiamoli così, destinati alla mensa quasi pasquale, visto che siamo ormai prossimi alla fine della Quaresima. Delrio è stato il più rapido ed
esplicito a lamentare l’”autonomia” compromessa dal cambio della guardia, anzi delle guardie, chiesto dal segretario, anche se -a dire il vero- una certa autonomia dei gruppi parlamentari, intesa in senso largo, è compromessa già da molti anni. Lo è, in particolare, da quando si va alle elezioni con le liste bloccate, per cui deputati e senatori sono nominati dal segretario di turno dei rispettivi partiti, prima ancora che eletti.
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
virale sottopostosi promozionalmente al controverso vaccino AstraZeneca appena riammesso alla campagna di immunizzazione. Quella divisa per intero serve solo per
consentire ad una coppia immaginaria di medici di sfottere il generale, diciamo così. Cioè, di dargli praticamente dell’esibizionista. Un altro vignettista che non mi ha fatto oggi né ridere né sorridere è Stefano Rolli, sul Secolo XIX, che ha voluto scherzare sulla “mira” del generale “alla sua età”, che poi non è neppure di 60 anni compiuti, per l’obiettivo propostosi di “500 mila vaccini al giorno”.
generale incoraggiando il pubblico a offrirsi alle “dosi eccedenti” del vaccino nei 1800 punti di raccolta provocando “resse” e mandando “in tilt” tutto il sistema. Che è già compromesso peraltro
da disfunzioni, pasticci e simili delle regioni più o meno disgraziatamente provviste di competenze sanitarie con tanto di bolli costituzionali.
col Renato delle brigate rosse, ritratti insieme alla Cecchignola mentre andavano a vaccinarsi, o ne uscivano, vignettisti e titolisti hanno dato l’aria -specie nel giornale diretto da Marco Travaglio- di compiacersi delle difficoltà in cui si trova, e potrebbe trovarsi ancora di più nei prossimi
giorni, il governo di Mario Draghi. La cui colpa principale per costoro rimane quella di avere sostituito l’indimenticabile, impareggiabile, prezioso secondo governo di Giuseppe Conte. Il quale sarebbe adesso costretto a mettere le sue doti di giurista, organizzatore e portafortuna, addirittura, al servizio di una causa ancora più disperata di quella del governo di un paese assediato, come tanti altri, dalla pandemia: la rifondazione e la guida del MoVimento 5 Stelle, per incarico diretto dell’”Elevato”, “garante” e quant’altro Beppe Grillo.
ormai da settimane, di statuti, contratti e simili del MoVimento e associazioni più o meno collegate per venirne in qualche modo a capo e sciogliere la riserva con la quale accolse l’incarico di rifondatore e capo una domenica mattina, in
un albergo romano con vista sui ruderi dei Fori imperiali. Ruderi sicuramente più affascinanti e comunque storici delle polveri di stelle appena offerte all’ospite da Grillo in casco bianco da astronauta, o da marziano sbarcato con ritardo rispetto ai bei tempi -quelli sì- di Ennio Flaiano. Erano tempi di pace rispetto a questi di guerra che stiamo attraversando alle prese con quel nemico invisibile e mobilissimo che è il Covid 19, e varianti.
generalmente positivo dei giornali
sull’esordio del presidente Mario Draghi ad una conferenza stampa dopo una seduta non certamente facile del Consiglio dei Ministri. “La sensazione -ha scritto Massimo Franco nel suo commento sul Corriere della Sera- è stata quella di una persona molto sicura di sé e di quello che deve fare, e anche
per questo in grado di trasmettere fiducia a un’Italia che la miscela di crisi economica e pandemia rende spaventata e disorientata”. Tanto più perché, ricorrendo anche all’ironia, Draghi si è mostrato “molto più a suo agio di quanto si
potesse immaginare di fronte alle domande, a tutte le domande”, anche a quelle rivoltegli con la malizia o comunque il proposito, del resto legittimo, di metterlo in difficoltà.
di cose fosse spesso il precedente e da lui tanto apprezzato e intervistato presidente del Consiglio. “Anche lui di sera”, si è spinto a contestare a Draghi il direttore del Fatto non risparmiandosi neppure il
solito fotomontaggio da copertina per rappresentare lo stesso Draghi e il leader leghista Matteo Salvini nel braccio di ferro svoltosi pur a distanza, non facendo parte Salvini personalmente del governo, sul problema delle cartelle esattoriali da rottamare. Sarebbe, secondo i critici, un “condono” bello e buono, per fortuna -secondo loro- alla fine contenuto dallo stesso Draghi grazie alle valorose resistenze del Pd e dintorni entro i cinquemila euro, e non i diecimila pretesi dai leghisti, e soprattutto limitato ai titolari dei redditi non superiori ai 30 mila euro l’anno. E pazienza -anche qui- se gli esperti sanno benissimo che almeno il novanta per cento del contenzioso di questo tipo si risolve nella inesigibilità, a spese naturalmente dello Stato.
tuttavia il gusto di denunciare, delle “bandierine”. Che, specie in una maggioranza larga come quella formatasi attorno al suo governo, senza che egli facesse molti sforzi per favorirla, ogni partito cerca di sventolare in ogni discussione, o di mettere su ogni fetta di un singolo provvedimento.
fra i suoi poteri di commissario straordinario anche quello di esonerare da ogni tipo di fila il giovane ministro degli
Esteri italiano, di neppure 35 anni, che compirà solo a luglio, e di fargli iniettare le necessarie dosi di un vaccino a sua scelta, preferibilmente però AstraZeneca. Che funzionerebbe anche di promozione, visti gli intoppi pur rimossi e “il ritorno di fiala” felicemente annunciato in prima pagina dal manifesto dopo la pronuncia liberatoria della competente agenzia europea.
Draghi a succedergli, Di Maio non riuscì a resistere alla tentazione di incontrare l’ex presidente della Banca Centrale Europea. E, anche a costo di aumentare la diffidenza di Conte, non del tutto convinto delle assicurazioni del suo portavoce Rocco Casalino sui propositi e sui progetti inoffensivi dell’ex capo politico del movimento grillino, tenne ad annunciare e
spiegare la buona, anzi ottima impressione ricavata da quell’incontro. Draghi, insomma, aveva fatto colpo anche su Di Maio, cui evidentemente non era bastato, per farsene un’idea giusta, ciò che di “SuperMario” si diceva già in tutto il mondo, o almeno in Europa, per averne saputo e voluto peraltro salvare la moneta. Persino Trump oltre Atlantico, ancora imperante alla Casa Bianca, ne aveva apprezzato e invidiato le doti confrontandole col governatore della Banca Centrale americana.
il suo certificato di apprezzamento anche a Enrico Letta, subentrato a Nicola Zingaretti alla guida del Pd. Con cui i grillini, o ciò che ne resterà alla fine del caos in cui si dibatte il MoVimento 5 Stelle, dovrebbero stringere secondo Di Maio forti rapporti “non solo elettorali”.
Che gli potrebbero consentire di apprezzarne pubblicamente le doti quando verrà il momento di rivedere a tutti gli effetti i giudizi su Silvio Berlusconi e il berlusconismo, non limitandosi più a sopportarne la comune partecipazione all’avventura politica e istituzionale di Draghi: avventura intesa in senso buono, naturalmente.
tre anni di vita e chissà quante potrà ancora produrne nei due che le mancano
alla scadenza ordinaria, nel 2023, salvo naturalmente uno scioglimento anticipato nell’ultimo anno, dopo il mese di febbraio del 2022. Non prima, perché dalla prossima estate il capo dello Stato Sergio Mattarella entrando nell’ultimo semestre del suo settennato -semestre perciò definito “bianco”- non potrà avvalersi di quell’arma formidabile concessagli dall’articolo 88 della Costituzione. Che dice: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse”.
della prima, almeno alla seconda. Il cui merito, secondo Armaroli, è stato quello di avere fatto praticare col bipolarismo l’alternanza al governo fra il centrodestra e il centrosinistra, più in particolare fra Silvio Berlusconi e Romano Prodi. Anche se quest’ultimo, quando gli è toccato di andare a Palazzo Chigi ha saputo o potuto restarvi al massimo per due anni, sgambettato dagli alleati nel 1998 e nel 2008.
vicaria Irene Tenagli e
Giuseppe Provenzano, Beppe per gli amici. Tutti, nonostante la giovane età di entrambi i nominati, l’una di 46 anni e l’altro di 38, si sono affrettati a spulciare le loro “provenienze”, appunto, per capire il nuovo corso del partito. E hanno attribuito la paternità politica della prima non so se più a Luca di Montezemolo o a Mario Monti, e del secondo a Emanuele Macaluso. Pochi si sono soffermati sulle loro posizioni di fronte ai problemi, per esempio, sociali ed economici che attanagliano il paese, specie nella morsa di una pandemia non ancora domata. Dopo la la quale, comunque, niente potrà rimanere o tornare come prima.
sull’ipotesi di un “ritorno a casa”, ha risposto, sornione, che non vorrebbe creare all’amico Enrico, che gli fu vice segretario al Nazareno, un altro
problema oltre a quelli che ha ereditato da Zingaretti. Ma poi, ricorrendo alle sue note e in fondo anche simpatiche iperboli amplificate dalle imitazioni di Maurizio Crozza, ha aggiunto: “A chi servirebbe una fusione di vertice? Non possiamo tirarci su per le stringhe delle scarpe da soli. Sarebbe un errore. Dove vanno soggetti troppo piccoli e deboli”, fra i quali il suo movimento “Articolo 1” inglobato nella sinistra dei liberi e uguali, “e un Pd che appare più respingente che attrattivo ?”, evidentemente anche dopo l’elezione del nuovo segretario.
che cosa Bersani è tornato a riproporre, come già nei giorni precedenti in alcuni salotti televisivi? La ricerca di un’altra, nuova “Cosa”, come Achille Occhetto da segretario chiamò la riedizione del Pci cercata dopo il crollo del muro di Berlino, cioè del comunismo.
davanti al monumento che ricorda in via Fani il sequestro di Aldo Moro, a 43 anni esatti dalla tragica operazione delle brigate rosse. Essa costò la vita subito ai cinque agenti della scorta, macellati dai proiettili, e dopo 55 giorni di prigionia allo stesso presidente della Dc.
campioni di Dna a più di 10 persone, tra le quali gli ex br toscani Giovanni Senzani e Paolo Baschieri”. Ancora Senzani, a 78 anni compiuti nello scorso mese di novembre, dei quali 17 trascorsi in carcere e 5 in libertà condizionata dopo essere stato condannato all’ergastolo per il sequestro e il delitto di Roberto Peci, fratello del
brigatista pentito Patrizio, e per il sequestro dell’assessore regionale democristiano in Campania Ciro Cirillo? Sì, ancora Senzani in questo giallo interminabile che è il caso Moro. Su cui ormai si è perso il conto, diciamo così, delle indagini e dei processi: un giallo ancora più giallo di quello che negli Stati Uniti porta il nome dello storico presidente Jhon Fitzgerald Kennedy, assassinato a Dallas il 22 novembre 1963.
altolocato, diciamo così, per imprese successive all’agguato di via Fani, il nome di Senzani ricorre ogni tanto anche in quella vicenda per impulsi soprattutto parlamentari.
soprattutto dopo che un magistrato del prestigio e dell’esperienza antiterroristica come Tindari Baglione aveva risposto pressappoco così, in quella commissione, alla domanda
se il rapimento di Moro dovesse essere attribuito più alla preparazione delle brigate rosse o alla impreparazione dello Stato: “Francamente non so, ma certo è che disponevamo dello stesso consulente”. E si riferiva appunto a Senzani, di cui egli si era occupato a Firenze proprio per fatti di terrorismo.
in qualche modo dei sospetti della commissione parlamentare auspicando un chiarimento del ruolo di Senzani nella vicenda Moro e raggiunto da una querela dell’interessato per diffamazione, aveva dovuto chiudere la causa col patteggiamento. Vi aveva contribuito un rifiuto pur amichevolmente oppostomi dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga di testimoniare sulla controversa circostanza di avere disposto come ministro dell’Interno di una consulenza pure di Senzani, appunto, nella gestione del sequestro Moro, fra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978.
contro quella linea non fosse pienamente consapevole di ciò che scriveva. Moro invece non difese sino all’ultimo soltanto la sua vita, ma anche le sue idee, la sua idea della politica. Ne fu convinto sin da allora, fra i pochi, il presidente della Repubblica Giovanni Leone predisponendosi a quella grazia ad una detenuta -Paola Besuschio- compresa nell’elenco dei 13 “prigionieri” con i quali i terroristi avevano proposto di scambiare l’ostaggio.
a caso al Cremlino il presidente Vladimir Putin per accreditare il vaccino scoperto in Russia e chiamato Sputnik in onore dello storico successo sovietico nella corsa allo spazio oltre la Terra, se lo fece iniettare pubblicamente fra i primi, se non per primo.
Donald Trump si fece iniettare il vaccino su cui aveva scommesso nella lotta al Covid. La democraticità degli Usa, nonostante l’assalto al Campidoglio e il suo sistema elettorale molto atipico, per cui un presidente può trovarsi eletto senza la maggioranza dei voti dei cittadini, è dimostrata proprio dal fatto che Trump non è più il presidente, essendo stato battuto dal suo rivale Joe Biden.
Sergio Mattarella, recandosi disciplinatamente di persona all’ospedale romano Spallanzani, si è vaccinato sulla soglia, diciamo così, degli 80 anni regolamentari, che compirà il 23 luglio prossimo. Il presidente del Consiglio ne ha compiuto solo 73 il 3 settembre scorso. Non parliamo poi, per la Francia, di Emmanuel Macron, che ha compiuto solo 43 anni nello scorso mese di dicembre.
di quel bravo….Figliuolo del generale di Corpo d’Armata degli alpini, ancora fresco di nomina a commissario straordinario dell’emergenza pandemica, per fare iniettare una dose di quel vaccino da medici e infermieri militari ad un Draghi disposto pure lui a saltare il turno nell’interesse superiore del Paese. Che lo stesso Draghi è stato chiamato a governare dal capo dello Stato con tanto di fiducia regolarmente concessagli poi dal Parlamento. Con un tale onere sulle spalle, il signor Presidente del Consiglio avrà pure il diritto e il dovere di cautelarsi e cautelarci.
sorpasso su Forza Italia con la conseguente assunzione della leadership del centrodestra, Salvini ha obbiettive difficoltà ad aggiornarsi, diciamo così, anche sui problemi sollevati dal nuovo segretario del Pd. Che egli considera né urgenti né condivisibili, anche se molti dei suoi elettori, specie al Nord, faticano a capire perché i compagni scuola con i quali i loro figli giocano e parlano in italiano, spesso pure in dialetto, non abbiano il diritto di aspirare alla cittadinanza italiana solo perché nati da immigrati.
a coinvolgere nel problema il governo sentendolo minacciato dal nuovo segretario del Pd, e dimenticando che il tema non è stato minimamente toccato nel programma esposto alle Camere dal nuovo presidente del Consiglio, per cui è stato lasciato alla sola valutazione o dialettica parlamentare.
telefonico aperto dal segretario uscente e dimissionario, 23 persone su cento preferivano ancora una conferma di Nicola Zingaretti, per quanto sapessero della dichiarata irreversibilità delle sue dimissioni. Diciotto risultavano preferire già Letta, 12 Dario Franceschini, 6 Stefano Bonaccini, il presidente della regione Emilia-Bologna contro la cui potenziale candidatura in un congresso anticipato si era forse mosso Zingaretti prendendolo di contropiede, 13 per altri. Ventotto, cioè la maggioranza relativa, risultavano sostanzialmente indifferenti, dividendosi tra il “non sa” e “non risponde”, nonostante il clima di emergenza creato, volente o nolente, da Zingaretti dimettendosi per denunciare, anzi per “vergognarsi” delle condizioni di un partito diviso in correnti solo per spartirsi poltrone e sgabelli.
ancora il risultato del sondaggio di Demos, quando dal suo quartiere di Testaccio è andato al vicino Ghetto per richiamarsi al recente monito della senatrice a vita Liliana Segre a non cadere nella tentazione dell’indifferenza, appunto.
Antonio Gramsci. Che ben prima della senatrice Segre, nel lontano 1917, aveva gridato dalle sponde comuniste il suo “odio” per gli indifferenti.
segreteria, e di scontato nuovo segretario, col ricordo di Enrico -pure lui- Berlinguer. Che è rimasto nel cuore della componente post-comunista del Pd e che fu certamente il teorizzatore del “compromesso storico” con la Dc, e l’ultimo interlocutore di Aldo Moro sino al tragico sequestro dello statista democristiano, ma prima del ritorno all’alternativa addirittura “morale” allo scudocrociato.