Per puro caso -voglio almeno sperare per non dargli del blasfemo, dopo quell’”Elevato” che si è attribuito più volte da solo nel movimento da lui stesso fondato- Beppe Grillo per il suo “conclave con i big” pentastellati, come lo ha definito l’informatissimo Fatto Quotidiano, ha scelto e confermato questa
seconda domenica di Quaresima. La cui antifona dice: “Cercate il mio volto”. La prima lettura dalla Genesi ripropone invece la prova di fedeltà chiesta da Dio ad Abramo, e alla fine risparmiatagli, col sacrificio del figlio. Il vangelo secondo Marco ripropone, dal canto suo, l’invito di Dio, avvolto nella luce su un ”alto monte”, a “adorare il figlio mio, l’amato”. Che è infine anche l’antifona alla Comunione.
Più modestamente di Dio, pur con quella faccia esageratamente michelangiolesca da giudizio universale che assume a volte in teatro e fuori, Grillo è all’opera per raccomandare all’adorazione tutta politica del suo “popolo” l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Cui il comico vorrebbe affidare
la sua creatura alle prese con una crisi identitaria ed elettorale dalla quale egli ha umilmente riconosciuto di non poterlo tirare fuori da solo. Ma la sua, quella cioè di Grillo, è un’umiltà molto relativa perché anche con Conte -indifferentemente come presidente o primus inter pares in un futuro comitato direttivo, grazie ad opportune e ulteriori modifiche allo statuto e il solito passaggio digitale della piattaforma intestata dalla famiglia Casaleggio alla buonanima di Jean Jacques Rousseau- il cosiddetto “Elevato”, garante e quant’altro gli rimarrebbe sopra come in una nuvola.
Francamente, il povero Conte mi sembra messo assai male, nonostante il gradimento popolare che gli viene ancora attribuito, la nostalgia che ne hanno in almeno una parte dell’ormai malandato Pd e la mano
che cercano di dargli quelli del già citato Fatto Quotidiano dipingendo il suo successore a Palazzo Chigi, Mario Draghi, come un uomo predestinato all’insuccesso. Cui persino un sostenitore come Massimo Giannini, sulla Stampa, ha appena chiesto “subito un colpo d’ala” per non sembrare forse troppo appiattito nei suoi riguardi.
Se fossi in Conte, mi terrei ben stretto l’incarico appena ripreso di professore di diritto privato all’Università di Firenze, senza altre tentazioni politiche, dopo
le due avventure di segno opposto vissute a Palazzo Chigi in meno di tre anni. E mi terrei anche lontano dalla “finestra” dietro alla quale lo ha rappresentato oggi sul Secolo XIX Stefano Rolli a contemplare “un’altra” stella cadente: non so se la penultima o proprio ultima delle cinque del MoVimento col quale Beppe Grillo si è divertito per una decina d’anni, facendo prima ridere e poi piangere un crescente numero dei suoi stessi spettatori.
Professore, ma chi glielo fa fare, a parte le sollecitazioni o attese di Rocco Casalino, sempre
commosso a vederLa e a sentirLa, di prestare sempre di più il suo volto, mettendolo addirittura
nel “nuovo simbolo”, al movimento anticipato in un titoletto di prima pagina dal Messaggero? Per non parlare dell’epica attesa di Emanuele Buzzi, sul Corriere della Sera, di un passaggio che segni addirittura, nel movimento grillino e dintorni, “l’inizio di una nuova era”. E “con Grillo pronto a fare da pontiere”, ha aggiunto Buzzi con un’altra dose di…. vaccino dell’ottimismo.
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
attenderebbe Grillo in persona, con i vertici veri o presunti del MoVimento 5 Stelle, per offrirgliene praticamente la guida. E ciò pur o proprio per lo stato confusionale in cui lo stesso
MoVimento si trovava, in verità, già prima, quando in quella stessa villa si permise nell’estate del 2019 l’alleanza di governo col Pd, ma che è degenerata in casino -scusate il termine- dopo la formazione del governo di Mario Draghi. Che è anch’esso a partecipazione pentastellata insieme con lo stesso Pd ma pure con le indigeste Lega di Matteo Salvini, Forza Italia di Silvio Berlusconi e Italia Viva di Matteo Renzi, sopravvissuta all’”asfalto” -ricordate?- di Rocco Casalino. Dovevano provvedere ad asfaltarla i “volenterosi, “responsabili” e quant’altri di centro, vero e presunto, tutti naturalmente passati da Conte a Draghi dalla sera alla mattina.
tanto di mascherina accademica addosso e qualche contestazione esterna dei soliti centri “collettivi”, è la politica messa nella sua lezione su “tutela della salute -testuale- e salvaguardia dell’economia”. Non credo proprio ch’egli sia riuscito a smontare le critiche alluvionali non all’uso ma all’abuso dei suoi decreti presidenziali noti ormai con l’acronimo dpcm. La cui “agilità” avrebbe dovuto essere pari a quella del virus da combattere. Via, non
si possono sottrarre sistematicamente alla verifica parlamentare manomissioni delle libertà personali.
l’ha definita il manifesto. Egli ha riconosciuto che le cose non potranno proseguire come sono andate sinora, ciascuno pensando alla propria “parte” anziché al “collettivo”, come si diceva ai tempi del Pci. Di cui stavolta Zingaretti non ha ripetuto il lapsus di adottare il nome al posto di quello assegnato nel 2007 alla formazione nata dalla fusione fra i Democratici di Sinistra, cioè i post-comunisti guidati allora da Piero Fassino, e la Margherita dei post-democristiani, liberali, radicali e ambientalisti di Francesco Rutelli.
dai 23 esponenti del secondo governo Conte, fra ministri, vice ministri e sottosegretari, a nove, in lettere. E ogni giorno lo stesso Zingaretti deve inseguire Matteo Salvini, contestandone dichiarazioni ed atteggiamenti, per contrastarne il tentativo di fare apparire, data anche la crisi del Movimento 5 Stelle, la Lega come il partito pilota della nuova e ben più vasta maggioranza subentrata a quella giallorossa. Il partito di Salvini, d’altronde, pur avendo perduto una decina di punti rispetto al 34 per cento dei voti conseguito nelle elezioni europee del 2019, ai tempi del governo gialloverde con i grillini, è pur sempre nei sondaggi a livello nazionale, e nei risultati delle elezioni amministrative svoltesi negli ultimi tre anni, “il primo partito italiano”, come non a caso si vanta quasi ogni giorno il suo leader. Ed ha conseguentemente 12 posti nel governo contro i 9 del Pd ricordati da Zingaretti.
particolare, a predirgli il Quirinale già per l’anno prossimo, alla scadenza del mandato di Sergio
con le dimensioni e la centralità parlamentare di quella che era stata per tanti decenni la Democrazia Cristiana. Ora sembra un ammasso di rovine che il comico in una vignetta del Fatto Quotidiano mette a disposizione di Giuseppe Conte.
centrodestra. O alle tensioni vecchie e nuove del Pd, che il segretario Nicola
Zingaretti con un lapus suicida ha appena scambiato per il Pci. Il “suo” Goffredo Bettini nega di avergli mai consigliato un’alleanza “strategica” con i grillini e censura l’”intergruppo” con le 5 Stelle annunciato al Senato. Penso, ancora, alla polverizzazione di quell’area metastasiana di centro che, come l’Araba Fenica, dove sia nessun lo sa.
all’insegna della “solidarietà nazionale” prima l’astensione e poi la fiducia ai governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti.
chiedersi per i tanti punti ancora oscuri del suo tragico sequestro, tra il sangue della scorta sgominata il 16 marzo a poche centinaia di metri da casa- volle che il presidente della Dc
facesse la fine orribile che sappiamo. E neppure Leone, che aveva cercato disperatamente di aiutarlo davvero nei 55 giorni della prigionia nelle mani delle brigate rosse, riuscì a portare a termine regolarmente il suo mandato, punito forse proprio per quel tentativo di salvare l’amico e collega di partito predisponendo la grazia per una detenuta compresa nell’elenco dei 13 “prigionieri” indicati dai terroristi per scambiarli con l’ostaggio.
Hanno giustamente fatto scandalo gli insulti a Giorgia Meloni che sono costati una meritatissima sospensione al professore universitario Giovanni Gozzini, purtroppo non nuovo a questi infortuni. Che non sono solo di lingua, ma – lasciatemelo scrivere – anche di testa. E che hanno spinto, fra l’altro, Walter Veltroni sul Corriere della Sera a lamentarsi del troppo odio che da troppo tempo circola anche in politica. Esso si vende a modico prezzo non a chili, non a quintali ma temo ormai a tonnellate.
di salute, nonostante una condanna definitiva subìta per “induzione indebita” contestagli negli anni in cui era presidente della giunta regionale abruzzese ed entrò in conflitto col re della sanità privata locale. Un immobile del valore di 250 mila euro, di proprietà sempre di Del Turco, è stato spacciato per una ricchezza inaudita, sempre allo stesso scopo. Neppure sulla soglia della morte, tra tumore, morbo di Alzheimer e non so cos’altro, si finisce di essere odiati dagli avversari in questo allucinante paese che è diventato l’Italia.
politiche del già carissimo movimento pentastellato, prima del presunto o scoperto impazzimento di Beppe Grillo, mette il governo di Mario
Draghi. Del quale se i ministri sono mostri, tecnici o politici che si vogliano considerare, i sottosegretari appena nominati, compreso evidentemente il capo della Polizia Franco Gabrielli destinato alla delega dei servizi segreti, sono “sottomostri”, prodotti non nelle ore serali così abituali anche per le sedute consiliari dell’ultimo governo di Giuseppe Conte, ma nelle “tenebre”. E non fra le solite discussioni, i soliti contrasti, i soliti conteggi e maneggi partitici e correntizi, ma nella più biasimevole “rissa”. E i più antipatici di questi “sottomostri” vengono selezionati per il fotomontaggio di giornata su cui potere sputare, o su cui fare allenare solitariamente il sospeso professore Gozzini.
con un taglio di 14 miliardi di euro in progetti “senza copertura finanziaria”, colpevolmente concessi dall’ex ministro dell’Economia al “piano Ciao” del “riganese” Matteo Renzi; i malcapitati colleghi di Repubblica, dicevo, sono diventati “repubblichini” nella prosa editoriale di Marco Travaglio. E nessuno ha nulla da scrivere e da dire, sinora neppure nel giornale fondato da Eugenio Scalfari, che esce non in una Salò tornata agli anni di Benito Mussolini ma a Roma: la Roma di Sergio Mattarella e di Mario Draghi.
il povero Antonio Catricalà, un grande servitore dello Stato uccisosi a casa per depressione e rimpianto forse con troppo dolore da mostri e sottomostri, o dai loro capi, a cominciare naturalmente dal solito “pregiudicato” e “amico dei mafiosi” di nome Silvio e di cognome Berlusconi.
la vita all’ambasciatore d’Italia nella Repubblica del Congo Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, addetto alla sua sicurezza. Le cui salme sono state accolte a Roma dal presidente del Consiglio. Silenzio sull’autista, ignorato anche nelle espressioni di cordoglio e di esecrazione delle autorità italiane solo perché congolese e nero. Si chiamava Mustapha Milambo, si è poi saputo.
motivazioni dell’indignazione della giornalista di Libero. Secondo la quale “i neri, per i buonisti, meritano misericordia solo in qualità di migranti clandestini, allorché si tratta di accoglierli per poi scaricarli sulle strade come spazzatura, o quando c’è da inginocchiarsi in tv o nelle aule parlamentari per rendere omaggio alla memoria di George Floyd, afroamericano soffocato la scorsa estate da un poliziotto durante un arresto”.
sensibilità, di sostenere il dovere di soccorrere i migranti di colore, diciamo così, che spesso finiscono sulla strada come “spazzatura” fuggendo spontaneamente dai luoghi di raccolta, e non cacciati da aguzzini di Stato.
Una dei quali -Raffaella Andreola- ha contestato la legittimità del reggente scaduto del movimento 5 Stelle, Vito Crimi. Che invece ha fatto subito da spalla a un Grillo furente e buttafuori, riproponendosi nell’urticante definizione di “gerarca minore” affibbiatagli dal compianto e storico direttore e conduttore di Radioradicale Massimo Bordin. Erano i tempi in cui Crimi da sottosegretario di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi era mobilitato contro l’emittente creata da Marco Pannella.
naturalmente con l’Italia Viva di Renzi, pur avendo entrambe lo stesso acronimo che dannatamente può spingere all’errore quando se ne parla, è relegata ormai tra le frattaglie d’archivio del Senato. Ma potrebbe risultare utile ai dissidenti grillini, specie a quelli che ancora ricordano gli eccellenti rapporti d’amicizia e di lavoro avuti a suo tempo da Di Pietro con il cofondatore del movimento delle 5 stelle Gianroberto Casaleggio.
in crisi di consensi. E poi, essi sembravano francamente attratti più che dagli ex, dai
magistrati ancora in servizio, come il pubblico ministero di Palermo Nino Di Matteo. Che spopolava come ospite fra i grillini, pur essendo destinato a procurare loro cocenti delusioni o imbarazzi, per esempio contestando pubblicamente come consigliere superiore della Magistratura il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che gli aveva offerto la direzione del Dipartimento penitenziario all’arrivo in via Arenula ma poi preferì un altro. Poco mancò che la faccenda non costasse il posto all’allora guardasigilli, una volta esploso il caso, per la solita tempestività con la quale Renzi lo cavalcò, salvo rinunciarvi, sempre come al solito, all’ultimo momento.
politica ed essendo stato invece un altro -l’allora presidente del Consiglio in persona Giulio Andreotti- l’obiettivo grosso delle ricerche condotte da Di Pietro come sostituto procuratore della Repubblica a Milano. Era sull’Andreotti punto sostanziale di riferimento delle imprese che si spartivano gli appalti, specie nei territori controllati dalla mafia, che Di Pietro pensava di poter mettere clamorosamente e metaforicamente la mani addosso.
segnalarvi l’editoriale di Domenico Quirico sulla Stampa per essenzialità e autorevolezza professionale, viste le tante guerre che è capitato all’autore di seguire e raccontare rischiando anche la pelle.
degli “ultimi affiliati al Califfato”- come li chiama Quirico- che volevano probabilmente solo sequestrarli per ricavarne altri finanziamenti al terrorismo variamente operoso, ma anche delle carenze di scorta e altro della missione delle Nazioni Unite, si rimane senza fiato a leggere queste righe quasi scolpite, più che stampate: “I rivoluzionari e i ribelli sono in realtà banditi, i governativi indossano uniformi ma si battono non per la paga, che nessuno gli dà, ma
anche loro per il bottino, le donne da violentare”. “E i soldati dell’Onu?”, si chiede Quirico commentando così la loro missione: “la più grande e fallimentare operazione di pace della storia”, con “ventimila uomini e un miliardo di dollari l’anno”. “Da vent’anni -ha raccontato Quirico con meritoria franchezza- sono lì, frustrati spettatori di una pace metafisica che non c’è, caschi blu arruolati in Paesi ancor più poveri di questo, mercenari della miseria”, a dispetto – aggiungerei- della ricchezza delle riserve naturali delle loro terre.
è Mario Draghi, che
presentandosi alle Camere ha tenuto a indicare nelle Nazioni Unite, oltre che nei vincoli europei e atlantici, un caposaldo della politica estera del nostro Paese. C’è solo da augurarsi che anche su questo, oltre che su altri terreni, il nuovo presidente del Consiglio voglia e sappia ora stupire per “discontinuità”, diciamo così, gli italiani da troppo tempo condannati ai danni del conformismo. Cui appartiene anche questa fiducia sostanzialmente illimitata nelle Nazioni Unite, nonostante i tanti fatti che gridano vendetta: dai Balcani al Congo. E scusate se non è poco.
a ragione. Essi si trovano peraltro nella insperata e forse anche immeritata circostanza di avere un loro uomo alla testa del Ministero degli Esteri. A meno che Luigi Di Maio, catalogato come un “governista di ferro” nella toponomastica attuale del suo MoVimento, non decida pure lui di mettere la testa sotto la sabbia, come uno struzzo qualsiasi.
fredda, e di verità, addosso a Giuseppe Conte. E a chi, sotto le cinque stelle ma anche altrove, per esempio nel Pd, lo rimpiange e, magari, si commuove come il suo portavoce Rocco Casalino nel rivedere le foto del commiato da Palazzo Chigi con la fidanzata.
magari di vederlo naufragare nella lotta alla pandemia. “Alla destra si perdona sempre tutto e subito, alla sinistra niente”, ha osservato il politologo Piero Ignazi su Domani, desolato come Molinari per altro verso sul giornale di Marco Travaglio, pensando al ruolo aumentato dei leghisti di Matteo Salvini e dei forzisti di Silvio Berlusconi.
Bonafede. Che ha riproposto
sul Fatto Quotidiano – e dove senno?, anche questa volta- di affidare al professore e avvocato amico il compito di “rifondare” e capeggiare, si presume, il tormentatissimo MoVimento 5 Stelle. E ciò anche per smentire due ex grillini come
prima pagina. Eccola: “A proposito di espulsioni, fanno prima se dai 5Stelle vanno via Crimi e Di Maio, restano tutti gli altri”, compreso Bonafede evidentemente, ospitato con tanta generosità dal giornale di Travaglio anche ora che non è più il ministro della Giustizia e tanto meno il capo della delegazione grillina al governo.
Egli partecipa a suo modo a quella trasformazione del movimento che, pur sospetta agli occhi di Travaglio, ha così rappresentato nel suo editoriale su Repubblica l’ex direttore Ezio Mauro: “Grillo, l’antistato diventa sistema”. Vasto programma, avrebbe detto il sempre compianto generale Charles De Gaulle.
la
violazione delle regole commessa dal reggente peraltro scaduto Vito Crimi attivando le procedure di espulsione di quanti hanno negato la fiducia parlamentare al governo di Mario Draghi. I quali rischiano pertanto di essere aggiunti arbitrariamente alla novantina dei 338 parlamentari eletti nelle liste delle 5 Stelle e già usciti di loro o cacciati dal movimento nei meno dei tre anni trascorsi dalle elezioni politiche del 2018.
giornale che è stato abitualmente il suo punto di riferimento, a volte persino di ispirazione, diretto da Marco Travaglio. Che, sempre più deluso dall’uscita
repentina di scena di Giuseppe Conte, di cui ormai scrive al passato sulla sua Repubblica anche il buon Eugenio Scalfari, ha già messo una scopa nelle mani del successore Draghi nel solito fotomontaggio di prima pagina per accusarlo di nascondere i problemi sotto il tappeto e di praticare lo sport, chiamiamolo così, dei rinvii già contestato a Conte dagli avversari. E che ne hanno provocato
grillino Alessandro Di Battista, insorto in difesa degli amici ora sotto procedura di espulsione, contava di poter entrare se a Conte fosse riuscito il tentativo di una terza riedizione della sua esperienza a Palazzo Chigi.
ministeri, molto
accreditati e sostenuti, appunto, dal Fatto. Ma nella polemica che ne è seguita Travaglio si è un po’ tradito, diciamo così, scrivendo che i precedenti delle nuove parti politiche della maggioranza, liquidate come “magna magna” o colluse la mafia, potrebbero giustificare le sorprese temute da Mieli. E concludendo, testualmente, che se lo stesso Mieli “sa qualcosa di indagini già aperte e tenta di screditarle o bloccarle preventivamente, lo dica e lasci perdere il Fatto”. Che evidentemente vuole gustarsi lo spettacolo pseudogiudiziario senza farselo guastare da nessuno.