Conte, ormai asserragliato a Palazzo Chigi, si barcamena tra sfide e rinvii

              Di fronte ai 620 morti di Covid registrati ieri in Italia, 206 in più del giorno prima, e l’annuncio di Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, che “la curva ha rallentato la decrescita” dei contagi, i più anziani sopravvissuti sinora alla pandemia saranno andati con la mente a Palazzo Venezia e ai comunicati di Benito Mussolini sulle “nuove postazioni difensive” delle truppe italiane nella seconda guerra mondiale. Ai meno anziani o più giovani, e fortunati, possono bastare le finestre di Palazzo Chigi illuminate di sera, dietro alle quali è di fatto asserragliato il presidente del Consiglio nella gestione della famosa, non voluta ma subìta verifica di governo. Egli si divide fra le riunioni sempre interlocutorie, ma anche sempre più burrascose, con i cosiddetti capi delle delegazioni dei partiti della maggioranza e gli “assistit”- come  li chiamano i suoi amici del Fatto Quotidiano- che gli arrivano inutilmente dall’estero per cercare di rafforzarne le difese sulle barricate del nuovo piano di utilizzo dei fondi europei della ripresa.

            Una volta c’era Donald Trump, che dalla Casa Bianca gli dava del “Giuseppi”. Ora che Trump è in uscita, e rovinato definitivamente anche nel ricordo di molti dei suoi amici per quell’assalto dei fans al Congresso da lui incoraggiato con dichiarazioni inequivocabili, che potrebbero costargli care, Conte deve accontentarsi di qualche telefonata di riservata consolazione della cancelliera tedesca Angela Merx e degli apprezzamenti espliciti di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea. Che, pur volendo, non potrebbe tuttavia unirsi ai senatori “responsabili” che da giorni vengono contattati direttamente o indirettamente da Conte per verificare la disponibilità a sostituire i 18 di Matteo Renzi passando dall’opposizione, prevalentemente di centrodestra, alla maggioranza in una eventuale resa dei conti, al minuscolo e al plurale, nell’aula di Palazzo Madama.

            Ma più Conte cerca aiuti in Italia e all’estero, più Renzi si incaponisce contro di lui e fa annunciare dalla sua ministra Teresa Bellanova che il tempo del presidente del Consiglio è “finito” o “scaduto”, che il governo è “al capolinea” e nessuno “è insostituibile”, e via chiudendo.  Alla Bellanova, di cui qualcuno ha tratto dagli archivi la foto che la propone mangiando voracemente una pizzetta come se fosse proprio la versione alimentare di Conte, lo stesso Renzi si aggiunge ogni tanto con interviste cui Massimo Gramellini sul Corriere della Sera, ancora e giustamente colpito dalle avventure di Trump negli Stati Uniti, ha ironicamente attribuito “il massimo brivido eversivo” procurato alla politica italiana.

            In questa situazione a dir poco anomala, che fa scrivere al pur mite, prudente e conciliante o conciliatore Paolo Mieli, sempre sul Corriere della Sera, di una “legislatura scombinata”, cui si vorrebbe lasciare persino il compito di eleggere l’anno prossimo il nuovo presidente della Repubblica, non stupisce solo la furia iconoclasta della difesa di Conte da parte dei suoi sostenitori. Che si sono spinti sul Fatto -e dove sennò?- ad accusare Renzi di avere “rotto” e a dargli nella vignetta di Vauro dello “strenzi” con voluto refuso. Stupisce che Conte, con la sua cultura, i suoi titoli accademici e tutto il resto, alterni disinvoltamente propositi battaglieri e rinvii, come la forse decisiva seduta del Consiglio dei Ministri prima annunciata per oggi e poi rinviata ad almeno martedì, secondo un titolo della Stampa.  Se quella di Renzi è lotta continua, quella di Conte sembra ormai agonia continua, intesa naturalmente in senso tutto politico.

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I guai americani si rovesciano come un fiume di fango sulla crisi italiana

             Le corna di bufalo esibite dal capo dei fanatici di Donald Trump nell’inaudito assalto al Congresso americano non rischiano di fare “sprofondare” solo gli Stati Uniti, come Stefano Rolli ci ha proposto di credere nella sua vignetta di prima pagina del Secolo XIX. Curiosamente, e non solo per il cognome italiano -Angeli- del capo di quei fanatici del presidente uscente degli Usa, rischia di sprofondare ancora di più la crisi di governo in maturazione in Italia. Sulla quale la vicenda americana si è rovesciata come un fiume di fango. E ciò per il tentativo da tutti compiuto, a destra, a sinistra e al centro, di usare il fattaccio di Washington a vantaggio della propria parte  nella sordida lotta in corso dietro e sotto le quinte romane per ridefinire gli equilibri politici o, se preferite, per una resa dei conti  dentro e persino fuori della maggioranza giallorossa.

            Hanno cominciato i renziani, con qualche sponda nel Pd, contestando la reticente deplorazione dell’assalto al Campidoglio americano espressa dal presidente del Consiglio Conte. Che non se la sarebbe presa direttamente con Trump perché ancora debitore dell’aiuto ricevuto da lui nell’estate del 2019. L’allusione è a quell’ormai famosissimo “Giuseppi” amichevolmente levatosi dalla Casa Bianca, ma anche al famoso, o più dimenticato, capitolo italiano -diciamo così- del cosiddetto Russiagate. Che fu uno dei tanti affaracci di Trump con tracce però italiane, sulle quali il ministro americano Barr venne a Roma per incontrare, con la necessaria o scontata autorizzazione di Conte, i vertici dei servizi segreti. “Ora capite perché la delega ai servizi segreti è un fatto di sicurezza nazionale, e non di poltrone”, ha detto Renzi tornando a contestare le resistenze opposte da Conte a delegare ad altri la materia. Contemporaneamente la ministra renziana Teresa Bellanova liquidava come “paginette” le tredici cartelle del nuovo piano di utilizzo dei fondi europei della ripresa cui formalmente è legata un’altra, decisiva tappa della verifica della maggioranza, con incontri e la convocazione del Consiglio dei Ministri.

            La ritorsione dei sostenitori di Conte è stata immediata. Renzi, per quanto dichiaratamente amico del presidente eletto Biden, è stato arruolato d’ufficio tra gli avversari. Il solito Fatto Quotidiano gli ha contestato di “usare pure Trump per attaccare Conte”, gli ha messo addosso gli indumenti del capo dell’irruzione al Congresso americano ed ha rafforzato il tutto con la “cattiveria” di giornata. Che dice: “E’ folle che una democrazia venga tenuta in pugno da una manciata di esaltati. Ma ora basta parlare di Renzi”.

            A destra, per sottolineare le differenze da Trump e dai suoi fans o simpatizzanti politici veri o presunti in Italia, da Matteo Salvini  a Giorgia Meloni e forse anche Conte per via di quel “Giuseppi”, l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sul Giornale di famiglia si è vantato di come si fosse comportato diversamente lui nel 2006. Allora egli perse le elezioni politiche contrassegnate -è ancora convinto- da brogli tempestivamente ma inutilmente segnalati. Ma prese ugualmente atto della proclamazione dei risultati passando la mano a Palazzo Chigi a Romano Prodi, che vi sarebbe rimasto per soli due anni, quasi quanto l’altra volta, una decina d’anni  prima. Egli ha tuttavia omesso di ricordare che a contrastare i controlli o riconteggi da lui reclamati furono insieme, sul piano politico e istituzionale, il “suo” ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu e l’allora capo dello Stato  Carlo Azeglio Ciampi.

 

 

 

 

 

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La crisi della democrazia da una parte all’altra dell’Oceano Atlantico

              Facciamo bene, per carità, a sorprenderci, indignarci e allarmarci, da amici ed alleati, per il colpo inferto alla democrazia americana con l’assalto dei “brigatisti” trumpiani al Congresso: un assalto per niente folcloristico, con 4 morti, 13 feriti e la guardia nazionale chiamata a fronteggiare quella che il presidente entrante Joe Biden ha definito “insurrezione”. Della quale Trump personalmente può essere considerato responsabile per averla prima incoraggiata e poi compresa in guanti neri,, ancora convinto che siano stati i brogli a negargli la rielezione.

              Non dimentichiamo tuttavia la crisi della democrazia italiana, e non solo di quella ancora virtuale del secondo governo di Conte, il Giuseppi” aiutato anche da Trump a rimanere a Palazzo Chigi dopo la rottura con la Lega di Matteo Salvini e l’intesa col Pd.

            Giusto per aiutare il presidente del Consiglio a ricomporre la maggioranza giallorossa attorno a un “Recovery plan” fatto riscrivere dal Ministro dell’Economia per recepire le richieste degli alleati, definite dallo stesso Conte “utili contributi” all’uso dei fondi europei della ripresa, Beppe Grillo sul suo blog personale si è in qualche modo travestito da Cicerone. E ha paragonato Matteo Renzi a Lucio Sergio Catilina, che congiurò contro la Repubblica romana nel 63 avanti Cristo, chiedendogli fino a quando intende abusare della pazienza altrui.

            Eppure era circolata voce che il comico fondatore e “garante” del Movimento 5 Stelle  fosse intervenuto su Conte per consigliargli di non irrigidirsi nella verifica della maggioranza. Evidentemente ha cambiato idea e ora, liquidando Renzi come un golpista, o una specie di Trump dei poveri, dà la sensazione di incoraggiare il presidente del Consiglio nell’uso del pallottoliere, per contare i senatori “responsabili”  delle opposizioni, cioè disponibili a sostituire nella maggioranza l’odiato gruppo di Renzi, o quel che ne rimarrebbe in caso di resa dei conti e di crisi.

            Grillo, avvolto metaforicamente nelle tuniche dei senatori dell’antica Roma dipinti nel 1880 da Cesare Maccari in un affresco esposto in una sala di Palazzo Madama, non pensa minimamente che qualcuno possa chiedere anche a lui sino a quando pretende di abusare della pazienza altrui, e delle varie emergenze che accompagnano quella della pandemia virale. Egli  impone da tempo le ragioni del suo tormentatissimo movimento, in crisi elettorale e identitaria, agli alleati e al governo paralizzandone praticamente l’azione. O confondendo la stabilità con l’immobilismo, come Renzi, il presunto Catilina dei nostri giorni, disse al Senato il 30 dicembre nella dichiarazione di voto pur favorevole al bilancio dello Stato sostanzialmente precluso alla discussione in un ramo del Parlamento destinato ormai a non toccare palla.

            E’ un’espressione, quest’ultima, già usata dalla presidente in persona del Senato altre volte per lamentare l’abitudine, ormai, del governo di aggirare, anzi evadere il cosiddetto bicameralismo paritario rimasto nella Costituzione dopo la bocciatura referendaria di una riforma targata proprio Renzi. Che fu scambiato già allora per Catilina da un Grillo disinvoltamente schierato nella campagna del no con Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni a destra e Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Ciriaco De Mita a sinistra. La disinvoltura fu reciproca, ma non per questo trasformabile in  coerenza.

 

 

 

 

 

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La sfida continua fra Renzi e Conte, o viceversa, sulla strada della crisi

                La sfida fra Matteo Renzi e Giuseppe Conte, ma anche al contrario per chi preferisce l’ordine alfabetico, è un po’ diventata una riedizione di quella che negli anni di piombo si autodefinì Lotta Continua. Ma per fortuna non siamo in tempi di terrorismo, a meno di non arruolarvi il Covid 19 alle prese adesso con una pasticciata -al solito- campagna di vaccinazione. Siamo solo in tempo di crisi virtuale di governo, congelata negli ultimi giorni del 2020, quando si interruppe la verifica subìta dal recalcitrante presidente del Consiglio, e ora scongelata nonostante il freddo e la neve.

               Renzi è irriducibile quanto il Conte che il manifesto ci propone in rosso col “pallottoliere” di nuovo fra le mani, alla ricerca di senatori “responsabili” e transfughi da varie parti disposti a sostituire nella maggioranza e persino nel governo il partito dell’ex presidente del Consiglio. Il quale in una lettera a militanti e simpatizzanti della sua Italia Viva ha liquidato come “chiacchiere” quelle raccolte dai giornali sul rimpasto, ed anche sul “rimpastone”, per placarne la presunta sete di potere. O più banalmente o meschinamente, come gli attribuisce sul Fatto Quotidiano il solito Marco Travaglio, per placarne la rabbia di fronte ad un presidente del Consiglio che sta per sorpassarlo nella classifica della durata a Palazzo Chigi. “Magari -ha scritto invece Renzi- avessimo un problema personale: noi abbiamo un problema politico con Conte”, che non potrebbe quindi cavarsela spostando ministri e nominandone di nuovi.

            Per uscire dall’assedio Conte -par di capire- dovrebbe o sottoporsi alle forche caudine di una vera e propria crisi per una nuova investitura, concordando la formazione di un suo terzo governo, o cercare un cambio di maggioranza con i “i responsabili di lady Mastella”, li ha ironicamente definiti Renzi. Che così si è procurato dalla moglie dell’ex ministro e attuale sindaco di Benevento, la senatrice Sandra Lonardo, l’accusa di “sessismo” o il rimprovero di non essere “né Sir né gentleman”.

            Ma alla sfida di Renzi di provarci con quel pallottoliere si è aggiunto un monito a Conte da parte del segretario del Pd Nicola Zingaretti. Che, pur nella “doppiezza” rimproveratagli in un titoletto dal  Foglio, ha affidato un messaggio d’avvertimento significativo in un articolo del Corriere della Sera firmato da Maria Teresa Meli simile a un’intervista. Con tanto di virgolettato, salvo smentite ovviamente, egli da una parte ha sollecitato Conte ad assumere “un’iniziativa” per sbloccare la verifica, lamentandone quindi  l’attendismo, e dall’altra lo ha diffidato dal gioco del pallottoliere, appunto, perché il Pd è contrario a “cambi di maggioranza o confuse soluzioni da condividere con la destra”.

            L’unico incondizionato appoggio a Conte è arrivato in una intervista a Repubblica da Massimo D’Alema. Che, “rottamato” con una spavalderia mista a doppiezza da Renzi dopo avergli fatto coltivare nel 2014 la speranza di un approdo alla presidenza della Commissione Europea, ha detto che “non si manda via l’uomo più popolare del Paese”, quale sarebbe appunto Conte, “per volere del più impopolare”, quale sarebbe appunto il senatore di Scandicci, o Rignano. Ma di quante “truppe” dispone oggi D’Alema?, chiederebbe forse la buonanima di Giuseppe Stalin con l’aria beffarda usata a proposito del Papa ridisegnando  a Yalta l’Europa del dopo-Hitler.

 

 

 

 

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Conte passa da gladiatore ad esploratore nello scenario della crisi

             Derivano dalla confusione politica, e non solo dagli sviluppi della pandemia, le incertezze delle famiglie interessate alla riapertura delle scuole e quelle degli italiani, più in generale, sulla riapertura del governo. Che non si riesce ancora a capire se, quando e come potrà riemergere dalla navigazione sommersa alla quale è costretto da qualche settimana per l’offensiva aperta da Matteo Renzi nella maggioranza giallorossa.

            Secondo le ultime notizie, che tuttavia variano di ora in ora, Giuseppe Conte sarebbe passato dal ruolo di gladiatore auspicato da quanti lo incitavano all’operazione di sfida totale a Renzi nell’aula del Senato, cercando di sostituirne il partito con un gruppetto di transfughi “responsabili” di varia provenienza, ma soprattutto dal centrodestra, a quello più prudente e forse salvifico, per lui, di esploratore marittimo. Così lo rappresentano d’altronde persino sul Fatto Quotidiano nella vignetta di prima pagina, in vista di una terra intesa come terzo governo da lui presieduto, dopo i due già collezionati in poco più di due anni e mezzo.  Ma Conte vi arriverebbe a maggioranza invariata, col “presunto alleato” Renzi, come lo definiscono nel giornale di Marco Travaglio. Dove, comunque, la soluzione dei “responsabili”, che avrebbe dovuto risparmiare a Conte  “rimpasti e concessioni” al senatore toscano, è finita in terza pagina, tra “i pareri” sullo sbocco della verifica, a firma di Andrea Scanzi.

            Potrebbe maturare persino un rimpastone, non un semplice rimpasto. Che, pur motivato con l’esigenza di “rafforzare” il governo e la maggioranza,  come gli fa dire il Corriere della Sera, in realtà ridimensionerebbe il peso sia di Conte a Palazzo Chigi sia dei grillini. Fra i quali la paura di elezioni anticipate, da cui uscirebbero a pezzi, sta prevalendo su ogni altra cosa: e con la paura anche le tensioni interne.  I cui sviluppi sono davvero imprevedibili, con un reggente peraltro come Vito Crimi nuovamente scaduto nell’incarico.

            Lo scoglio sommerso che insidia e preoccupa Conte sia come acrobata sia come esploratore,  secondo le vignette di prima pagina, rispettivamente, del Corriere della Sera e del Fatto Quotidiano, è il passaggio formale delle dimissioni del presidente del Consiglio reclamate da Renzi. Di cui a fidarsi poco, o a non fidarsi per niente, non è solo Marco Travaglio, il direttore del Fatto, ma anche Conte, per quanto praticamente obbligato dal Pd a “vedere”, cioè a trattare, rinunciando alla cosiddetta operazione dei “responsabili”. Che a parere non solo del capogruppo al Senato Andrea Marcucci, sospettato di renzismo sotterraneo, ma anche di Luigi Zanda e dello stesso segretario del Pd Nicola Zingaretti, sarebbe nient’altro che un ossimoro, dovendosi ritenere irresponsabile, nella situazione in cui si trova il Paese, il ricorso ad una soluzione pasticciata e persino incerta nei numeri.

           “Niente maggioranze raccogliticce”, fa dire Sergio Staino, nella sua vignetta sul Riformista, al mitico Bobo perché “di raccogliticcio ci basta il Parlamento”, com’è stato infatti ridotto dalle trasmigrazioni, dalla riduzione dei seggi imposta dai grillini e ratificata con tanto di referendum, dalla tonnara che ne è pertanto derivata, temendo più della metà dei deputati e senatori uscenti di non tornare la prossima volta, e dalla crisi cosiddetta identitaria, ma ancor più elettorale, degli stessi grillini, usciti dalle urne del 2018 addirittura come il partito più rappresentato nelle Camere.  

 

 

 

 

 

 

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Il Conte di Palazzo Chigi tra i brividi della crisi, ora tentato anche dall’odiato rimpasto

             Il Conte di Palazzo Chigi che Mario Makkox Dambrosio nella vignetta di copertina del Foglio ci propone con i brividi alla ricerca del suo portavoce viene invece proposto ai lettori di Repubblica come un uomo finalmente disposto a cedere a Matteo Renzi sul rovesciamento del piano d’impiego dei fondi europei per la ripresa e sulla rinuncia alla gestione diretta, senza delega,  dei servizi segreti. E persino pronto, se già non impegnato, a trattare l’odiato rimpasto ministeriale, che potrebbe portare Renzi -secondo alcune indiscrezioni- alla Farnesina, al posto del grillino Luigi Di Maio spostato all’Interno, al posto della “tecnica” Luciana Lamorgese.

            Quasi in sintonia con queste indiscrezioni, come per accreditarle, Di Maio è uscito da un certo ermetismo degli ultimi tempi, che aveva impensierito Conte, per definire una “follia” la rimozione dell’attuale presidente del Consiglio attribuita al piano di Renzi. Che, dal canto suo, in una intervista al Corriere della Sera ha praticamente detto a Di Maio che molto più concretamente egli potrebbe sostenere e difendere il posto di Conte rimuovendo il veto dei grillini all’uso del credito europeo di 36 miliardi di euro disponibile per il potenziamento del servizio sanitario nazionale. Le cui debolezze sono confermate in questi giorni anche delle previste difficoltà della campagna di vaccinazione anti-Covid.  

            Che la crisi stia arrivando su un binario favorevole più a Renzi che a Conte, a lungo elogiato per la decisione con la quale nell’estate del 2019 si liberò del “truce” alleato leghista Matteo Salvini, lo si capisce sul Foglio, oltre che dai brividi della vignetta di Makkox, dai commenti del direttore Claudio Cerasa e del fondatore Giuliano Ferrara. Il primo ha auspicato “più renzismo, meno grillismo”. L’altro, l’elefantino rosso che vigila sul suo giornale, si è un po’ compiaciuto della “ferocia dei morsi” di Renzi, da lui del resto apprezzato già prima del  famoso patto del Nazareno con quella specie di padre politico putativo che poteva essere ritenuto Silvio Berlusconi, “l’amor nostro” dei foglianti. Fu proprio Ferrara a coniare per Renzi la formula o immagine del “Royal baby” e a dolersi pubblicamente dell’opposizione del Cavaliere alla conferma referendaria della riforma costituzionale renziana: opposizione subentrata al mancato accordo sulla candidatura di Giuliano Amato al Quirinale nel 2015, quando Renzi gli preferì Sergio Mattarella.

            Il mio amico Giuliano si è spinto, con l’abitudine che ha di lanciare il cuore oltre l’ostacolo, a immaginare un Renzi sotto sotto deciso anche a provocare davvero le elezioni anticipate che invece esclude a parole, perché ne potrebbe uscire finalmente rafforzato per il logoramento, a dir poco, cui sarebbe destinato il Pd se davvero andasse alle urne alleato con i grillini, un’eventuale lista di Conte e la sinistra dei “liberi e uguali”.

            Marco Travaglio invece continua a sognare sul Fatto Quotidiano sia un Conte che, senza dimettersi dopo le eventuali dimissioni delle due ministre grilline, si presenta al Senato e ottiene la fiducia con l’aiuto dei cosiddetti “responsabili” transfughi del centrodestra o ex grillini, sia un Conte che si mette decisamente alla testa dei pentastellati e vince le elezioni, o comunque sconfigge un Pd ormai “in mano a Renzi e allo sbando”, come ha detto in una intervista Achille Occhetto proprio al Fatto. Dove tuttavia c’è ancora qualcuno che conta sui “pontieri Pd” disposti a “far ragionare” il senatore di Scandicci.  

 

 

 

 

 

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La crisi di governo in arrivo ormai nella calza della Befana

            La crisi anche del secondo governo di Giuseppe Conte, come quella del primo nel 2019, corre ormai con tale velocità o evidenza, destinata probabilmente ad arrivare al traguardo con o nella calza della Befana, che anche i più refrattari all’evento ne parlano e scrivono come di cosa praticamente scontata. E’ il caso del Fatto Quotidiano, che ne riferisce in rosso in apertura della prima pagina, sia pure la più ridotta possibile. O del Corriere della Sera.

            A far cadere le ultime illusioni di Conte su quella che pure Il Fatto definisce “la caccia ai senatori “responsabili” in fuga da FI”, intesa come Forza Italia di Silvio Berlusconi, “e da Iv”, intesa come Italia Viva di Matteo Renzi, è stato il chiarissimo avvertimento arrivato dal Pd per bocca del capogruppo al Senato Andrea Marcucci. Che ha detto: “Una follia andare avanti raccattando qualche senatore”, producendo cioè una maggioranza posticcia e indefinita, non certo all’altezza di compiti come la campagna di vaccinazione antivirale e l’impiego degli ingenti fondi europei per la ripresa o “ripartenza”, ha detto nel suo messaggio di Capodanno il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che al manifesto, ma non solo a questo giornale, con tanto di “gelo” sparato nel titolo di prima pagina, risulta anch’egli perplesso, se non decisamente contrario ad una soluzione così stentata e debole della crisi incombente,

            A fermare Renzi, dalle cui contestazioni della politica del governo sono partite prima la cosiddetta verifica e poi l’epilogo negativo che sta maturando, non sarà certo l’ironia o il sarcasmo di Sergio Staino, che peraltro non gli perdona di avere consentito da segretario del Pd la chiusura della “sua” Unità, la storica testata del Pci fondata da Antonio Gramsci. Nella vignetta pubblicata sulla prima pagina della Stampa egli cerca, in particolare, di mettere in difficoltà Renzi accusandolo di fare con la crisi un regalo al pur odiato Matteo Salvini, il leader della Lega contro la cui richiesta dei “pieni poteri” e delle elezioni anticipate lo stesso Renzi, ancora componente del Pd, promosse nell’estate del 2019 la formazione dell’attuale governo.

            A Renzi, contestandogli il diritto delegato a Maria Elena Boschi di parlare sprezzantemente dei transfughi del centrodestra che potrebbero servire da stampelle al presidente del Consiglio uscente, Marco Travaglio ha rinfacciato sul Fatto Quotidiano di non avere soltanto promosso la maggioranza giallorossa seguita a quella gialloverde, ma anche di aver fatto ingoiare al partito di cui allora faceva ancora parte, il Pd, la conferma di Conte a Palazzo Chigi, contro la “discontinuità” chiesta dal segretario Nicola Zingaretti. E poi -ha sostanzialmente rimproverato il sostenitore del governo uscente alla “masnada renziana”- transfughi in fondo sono anche i parlamentari di Italia Viva per essere usciti dal partito in cui erano stati eletti nel 2018.

            Si tratta tuttavia di polemiche ormai solo retoriche, diciamo così, o di furbizia politica, inutili di fronte al passo veloce di una crisi che, a meno di clamorose sorprese o di miracoli, toccherà gestire fra poco al preoccupatissimo capo dello Stato. Sul quale Conte- temo per lui- ha forse fatto troppo affidamento scommettendo sulla sua disponibilità a sciogliere le Camere e mandare gli italiani alle urne in pandemia ancora in corso pur di mantenerlo o salvarlo a Palazzo Chigi.

Scalfari riscrive la storia della Repubblica dando morto Berlinguer già nel 1978

            Beh, si rimane francamente trasecolati a leggere la lunga intervista del fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari al direttore Maurizio Molinari, catalogata peraltro come “cultura” e non politica, visto forse il deprezzamento o discredito della seconda in questo passaggio a dir poco confuso e tormentato del Paese, dove gli equilibri fra i partiti e gli schieramenti, e all’interno di essi, sembrano dei birilli.

            Scalfari -con la complicità silenziosa dell’intervistatore, interessato ad accreditare una certa continuità della sua direzione rispetto alla linea e persino agli umori del fondatore, non foss’altro per smentire quanti invece sottolineano e a volte lamentano differenze imposte da una nuova linea dettata dall’altrettanto nuova proprietà Elkann-Agnelli-  ha riproposto il riformismo e il liberalsocialismo come riferimenti costanti della sua lunga attività giornalistica. Ed è tornato a inserire il compianto Enrico Berlinguer, che soleva frequentare a casa, sua o del portavoce Antonio Tatò, tra i riformisti più convinti e apprezzabili, erede quasi di Carlo Rosselli e forse anche di Filippo Turati, pur non menzionato quest’ultimo. Così come non è stato mai menzionato nell’intervista l’inviso Bettino Craxi, che pure ebbe proprio sul riformismo uno scontro durissimo con Berlinguer, conclusosi storicamente e politicamente, secondo esponenti del vecchio Pci come Piero Fassino in un libro autobiografico, a vantaggio del leader socialista. Che vide prima e contro un certo conservatorismo berlingueriano la necessità, fra l’altro, di una riforma istituzionale.

            Ma la memoria, diciamo così, ha tirato un altro brutto, anzi bruttissimo scherzo a Scalfari. Che è tornato, fra l’altro, ad attribuire al povero Moro, parlando di un incontro avuto con lui “poco prima” del giorno del suo tragico sequestro ad opera delle brigate rosse, il progetto di una vera e propria alleanza col Pci “per due legislature”, e non di una tregua di breve durata, espressasi con l’astensione e poi il voto di fiducia vera e propria dei comunisti a un governo interamente democristiano presieduto da Giulio Andreotti. Peccato, per Scalfari, che proprio in quei giorni Moro da presidente della Dc aveva chiuso una lunga trattativa col Pci sbarrandogli la porta del governo socchiusa invece da Andreotti e dall’allora segretario democristiano Benigno Zaccagnini con l’ipotesi di nomina a ministri di due indipendenti di sinistra eletti nelle liste comuniste.

            Moro non solo chiuse quella porta ma si oppose anche all’estromissione dal governo di due democristiani contro cui il Pci aveva posto il veto: Carlo Donat-Cattin e Antonio Bisaglia. La loro conferma provocò una tale irritazione fra i comunisti da mettere in discussione il voto di fiducia appena concordato. Solo il sequestro di Moro, la mattina del 16 marzo 1978, arrestò la rivolta nel Pci ed evitò la riapertura della crisi.

            In quei giorni, secondo i ricordi di Scalfari, addirittura Enrico Berlinguer sarebbe già morto, con sei anni di anticipo. Almeno questa, forse, l’intervistatore poteva risparmiargliela al fondatore interrompendolo, o intervenendo dopo. Invece ha preferito lasciargliela lì. Tanto, specie in questi tempi tutto fa cultura, e non solo politica. 

 

 

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Renzi aggancia la corda della crisi al messaggio di Mattarella come a un chiodo

            Immagino la smorfia di Sergio Mattarella leggendo l’astuto commento di Matteo Renzi al suo messaggio di Capodanno. Che l’ex presidente del Consiglio ha interpretato e usato come un chiodo al quale agganciare sulla parete della crisi la corda con la quale sta cercando di arrivare alla vetta. Che, secondo anticipazioni virgolettate attribuitegli sulla Stampa il 31 dicembre e non smentite, è costituita da questa alternativa: “O un governo retto da uno del Pd o arriva Mario Draghi”.

             Un’altra variante, che Renzi considera tuttavia la più conveniente per lui perché gli consentirebbe dall’opposizione di crescere finalmente nella parte rimanente della legislatura, potrebbe essere quella sognata masochisticamente da Conte sostituendo Italia Viva nella maggioranza con un po’ di transfughi del centrodestra ed ex grillini: una soluzione appesa in Senato a numeri ancora più modesti e pericolanti di adesso.

            Ma veniamo al commento di Renzi al messaggio presidenziale di Capodanno, che avrebbe “rappresentato totalmente lo spirito di un Paese ferito ma pronto a ripartire”. “Il richiamo di Mattarella alla scienza e all’Europa mostra con chiarezza- ha detto Renzi- i due pilastri che permetteranno di uscire dal tunnel della pandemia: i vaccini e l’aiuto economico comunitario”. Che l’ex presidente del Consiglio teme venga invece “sperperato” dal governo, come ha detto nell’aula del Senato pur approvando il bilancio, con una politica troppo assistenzialistica, di mance e sussidi, imposta a Conte dai grillini insieme al rifiuto di usare i 36 miliardi di credito del cosiddetto Mes per il potenziamento del servizio sanitario. Di fronte alla convergenza, secondo Renzi, fra le contestazioni sulle quali egli sta facendo maturare la crisi e le necessità indicate nel suo messaggio da Mattarella “Italia Viva ringrazia il presidente della Repubblica”.

            La conclusione logica di questa lettura del messaggio del capo dello Stato proiettata sulla crisi si trova in un passaggio dell’intervista concessa da Renzi nei giorni scorsi al giornale spagnolo El Pais. Alla cui domanda sul rischio di elezioni anticipate, avvalorato da indiscrezioni giornalistiche sulle intenzioni del Colle, Renzi rispose: “Il Quirinale in Italia non parla. Quelle sono fonti attribuite a chi vuole che dica una certa cosa. Ma in Italia il sistema prevede che il presidente della Repubblica debba verificare se in Parlamento ci sono i numeri per formare un altro governo. E se si trovano, è fatta. Altrimenti si vota”.

            Questa affidata da Renzi al giornale spagnolo, parlando delle prerogative del capo dello Stato, è la stessa logica applicata proprio da Mattarella nel 2017 contro le elezioni anticipate chiestegli da Renzi, reduce dalla sconfitta nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Cui erano seguite le sue dimissioni da presidente del Consiglio e la successione del collega di partito Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi.

            In quell’occasione Mattarella non ebbe bisogno di cercare un altro governo, essendosi a lui convertito Gentiloni, a sorpresa di Renzi ancora segretario del Pd.  Se non si vuole pensare persino a una vendetta, considerando che nel 2015 era stato Renzi a selezionare Mattarella per il Quirinale, si può ben dire che in politica accade di vedere posizioni intrecciarsi e capovolgersi. Adesso è Renzi a contrastare il voto anticipato e Mattarella disposto -secondo alcuni- a concederlo sperando così di rafforzare la posizione assai in pericolo di Conte.  

 

 

 

 

 

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Sergio Mattarella infastidito dalla crisi incombente di governo

            Non credo proprio che sia stata casuale la scelta del presidente della Repubblica di salutare l’anno nuovo, senza rimpianti per quello orribile in uscita, rinunciando all’ambiente un pò intimo o familiare del salotto, ed anche alla scrivania del suo ufficio, per pronunciare il proprio messaggio in piedi, con la solennità di un intervento istituzionale, come per sottolinearne l’importanza. E non credo sia stata casuale neppure la scelta di ignorare, senza dedicarle neppure un inciso, la crisi incombente di governo. Che potrebbe impegnarlo fra pochi giorni o poche settimane, e chissà per quanto.

            Sergio Mattarella ha dato l’impressione, almeno ad un vecchio cronista politico come me, che ha perso ormai il conto dei messaggi presidenziali di fine anno da raccontare o commentare, di essere tanto infastidito, a dir poco, dai confusi sviluppi dei rapporti fra la maggioranza e le opposizioni, e al loro interno, da voltare lo sguardo altrove. Se ne può capire la delusione per le risposte negative ricevute da tutti i suoi precedenti appelli alla concordia, all’unità e simili.

            Più che alla sorte del governo uscente, d’altronde neppure nominato una volta, e al colore o alla formula di quello che potrebbe succedergli, si vedrà se per cercare di portare a termine in via ordinaria la legislatura o se per gestirne l’interruzione sulla strada delle elezioni anticipate, cui il Quirinale non ha mai smentito di essere pronto a ricorrere in caso di crisi, il capo dello Stato è sembrato interessato al fatto che il 2021 diventi l’anno della “ripartenza”. Così lui l’ha chiamata, dopo avere ricordato i danni procurati dalla pandemia e dalle altre emergenze che sono seguite, aggravate da vari tentativi non certamente sfuggiti al presidente della Repubblica di ricavarne “vantaggi di parte”, se non addirittura personali. Mattarella si è pietosamente fermato a parlare di “parte”, non nominando neppure i partiti, oltre che il governo.

            Tutti hanno fatto finta di non capire, visti gli apprezzamenti generali espressi sul messaggio di Mattarella, ciascuno impegnato ad allontanare da sé ogni sospetto di essere tra i demolitori e non fra i “costruttori” reclamati dal capo dello Stato. Ma il gioco delle ipocrisie avrà il fiato corto. Nessuno potrà nascondersi più di tanto una volta aperta la crisi, come sembra ormai scontato, o difficile da evitare, essendovisi troppo avvicinati sia Matteo Renzi minacciandola sia Giuseppe Conte -si, anche lui- usando come un bastone l’apparentemente corretta parlamentarizzazione della cosiddetta verifica. Che d’altronde è stata malvolentieri accettata dallo stesso Conte dopo avere cercato di sottrarvisi, e addirittura di negarne il nome pur consolidato da decenni di pratica politica.

             Ripeto: pratica politica, non criminale, come da anni cercano di far credere, parlando del passato, i presunti innovatori, rivoluzionari e simili, approdati alle Camere -ricordate ?- per aprirle come scatole di tonno e svuotarle divorandone il contenuto, magari solo per il gusto poi di vomitarlo, secondo un’espressione usata una volta da Beppe Grillo  – e da chi sennò- contro gli odiati giornalisti che lo infastidivano facendo il loro mestiere. Che è quello di raccontare e fare domande, non di nascondere, tacere e ridere a comando, anche quando ci sarebbe da piangere.

 

 

 

 

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