Di fronte ai 620 morti di Covid registrati ieri in Italia, 206 in più del giorno prima, e l’annuncio di Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, che “la curva ha rallentato la decrescita” dei contagi, i più anziani sopravvissuti sinora alla pandemia saranno andati con la mente a Palazzo Venezia e ai comunicati di Benito Mussolini sulle “nuove postazioni
difensive” delle truppe italiane nella seconda guerra mondiale. Ai meno anziani o più giovani, e fortunati, possono bastare le finestre di Palazzo Chigi illuminate di sera, dietro alle quali è di fatto asserragliato il presidente del Consiglio nella gestione della famosa, non voluta ma subìta verifica di governo. Egli si divide fra le riunioni sempre interlocutorie, ma anche sempre più burrascose, con i cosiddetti capi delle delegazioni dei partiti della maggioranza e gli “assistit”- come li chiamano i suoi amici del Fatto Quotidiano- che gli arrivano inutilmente dall’estero per cercare di rafforzarne le difese sulle barricate del nuovo piano di utilizzo dei fondi europei della ripresa.
Una volta c’era Donald Trump, che dalla Casa Bianca gli dava del “Giuseppi”. Ora che Trump è in uscita, e rovinato definitivamente anche nel ricordo di molti dei suoi amici per quell’assalto dei fans
al Congresso da lui incoraggiato con dichiarazioni inequivocabili, che potrebbero costargli care, Conte deve accontentarsi di qualche telefonata di riservata consolazione della cancelliera tedesca Angela Merx e degli apprezzamenti espliciti di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea. Che, pur volendo, non potrebbe tuttavia unirsi ai senatori “responsabili” che da giorni vengono contattati direttamente o indirettamente da Conte per verificare la disponibilità a sostituire i 18 di Matteo Renzi passando dall’opposizione, prevalentemente di centrodestra, alla maggioranza in una eventuale resa dei conti, al minuscolo e al plurale, nell’aula di Palazzo Madama.
Ma più Conte cerca aiuti in Italia e all’estero, più Renzi si incaponisce contro di lui e fa annunciare dalla sua ministra Teresa Bellanova che il tempo del presidente del Consiglio è “finito” o “scaduto”, che il
governo è “al capolinea” e nessuno “è insostituibile”, e via chiudendo. Alla Bellanova, di cui qualcuno ha tratto dagli archivi la foto che la propone mangiando voracemente una pizzetta come se fosse proprio la versione alimentare di Conte, lo stesso Renzi si aggiunge ogni tanto con interviste cui Massimo Gramellini sul Corriere della Sera, ancora e giustamente colpito dalle avventure di Trump negli Stati Uniti, ha ironicamente attribuito “il massimo brivido eversivo” procurato alla politica italiana.
In questa situazione a dir poco anomala, che fa scrivere al pur mite, prudente e conciliante o conciliatore
Paolo Mieli, sempre sul
Corriere della Sera, di una “legislatura scombinata”, cui si vorrebbe lasciare persino il compito di eleggere l’anno prossimo il nuovo presidente della Repubblica, non stupisce solo la furia iconoclasta della difesa di Conte da
parte dei suoi sostenitori. Che si sono spinti sul Fatto -e dove sennò?- ad accusare Renzi di avere “rotto” e a dargli nella vignetta di Vauro dello “strenzi” con voluto refuso. Stupisce che Conte, con la sua cultura, i suoi titoli
accademici e tutto il resto, alterni disinvoltamente propositi battaglieri e rinvii, come la forse decisiva seduta del Consiglio dei Ministri prima annunciata per oggi e poi rinviata ad almeno martedì, secondo un titolo della Stampa. Se quella di Renzi è lotta continua, quella di Conte sembra ormai agonia continua, intesa naturalmente in senso tutto politico.
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ancora debitore dell’aiuto ricevuto da lui nell’estate del 2019. L’allusione è a quell’ormai famosissimo “Giuseppi” amichevolmente levatosi dalla Casa Bianca, ma anche al famoso, o più dimenticato, capitolo italiano -diciamo così- del cosiddetto Russiagate. Che fu uno dei tanti affaracci di Trump con tracce però italiane, sulle quali il ministro americano Barr venne a Roma per incontrare, con la necessaria o scontata autorizzazione di Conte, i vertici dei servizi segreti. “Ora capite perché la delega ai servizi segreti è un fatto di sicurezza nazionale, e non di poltrone”, ha detto Renzi tornando a contestare le resistenze opposte da Conte a delegare ad altri la materia. Contemporaneamente la ministra renziana Teresa Bellanova liquidava come “paginette” le tredici cartelle del nuovo piano di utilizzo dei fondi europei della ripresa cui formalmente è legata un’altra, decisiva tappa della verifica della maggioranza, con incontri e la convocazione del Consiglio dei Ministri.
del presidente eletto Biden, è
stato arruolato d’ufficio tra gli avversari. Il solito Fatto Quotidiano gli ha contestato di “usare pure Trump per attaccare Conte”, gli ha messo addosso gli indumenti del capo dell’irruzione al Congresso americano ed ha rafforzato il tutto con la “cattiveria” di giornata.
Che dice: “E’ folle che una democrazia venga tenuta in pugno da una manciata di esaltati. Ma ora basta parlare di Renzi”.
si è vantato di come si fosse comportato diversamente lui nel 2006. Allora egli perse le elezioni politiche contrassegnate -è ancora convinto- da brogli tempestivamente ma inutilmente segnalati. Ma prese
ugualmente atto della proclamazione dei risultati passando la mano a Palazzo Chigi a Romano Prodi, che vi sarebbe rimasto per soli due anni, quasi quanto l’altra volta, una decina d’anni prima. Egli ha tuttavia omesso di ricordare che a contrastare i controlli o riconteggi da lui reclamati furono insieme, sul piano politico e istituzionale, il “suo” ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu e l’allora capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi.
guardia nazionale chiamata a fronteggiare quella che il presidente entrante Joe Biden ha definito “insurrezione”. Della quale Trump personalmente può essere considerato responsabile per averla prima incoraggiata e poi compresa in guanti neri,, ancora convinto che siano stati i brogli a negargli la rielezione.
dallo stesso Conte “utili contributi” all’uso dei fondi europei della ripresa, Beppe Grillo sul suo blog personale si è in qualche modo travestito da Cicerone. E ha paragonato Matteo Renzi a Lucio Sergio Catilina, che congiurò contro la Repubblica romana nel 63 avanti Cristo, chiedendogli fino a quando intende abusare della pazienza altrui.
possa chiedere anche a lui sino a quando pretende di abusare della pazienza altrui, e delle varie emergenze che accompagnano quella della pandemia virale. Egli impone da tempo le ragioni del suo tormentatissimo movimento, in crisi elettorale e identitaria, agli alleati e al governo paralizzandone praticamente l’azione. O confondendo la stabilità con l’immobilismo, come Renzi, il presunto Catilina dei nostri giorni, disse al Senato il 30 dicembre nella dichiarazione di voto pur favorevole al bilancio dello Stato sostanzialmente precluso alla discussione in un ramo del Parlamento destinato ormai a non toccare palla.
referendaria di una riforma targata proprio Renzi. Che fu scambiato già allora per Catilina da un Grillo disinvoltamente schierato nella campagna del no con Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni a destra e Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Ciriaco De Mita a sinistra. La disinvoltura fu reciproca, ma non per questo trasformabile in coerenza.
meno di non arruolarvi il Covid 19 alle prese adesso con una pasticciata -al solito- campagna di vaccinazione. Siamo solo in tempo di crisi virtuale di governo, congelata negli ultimi giorni del 2020, quando si interruppe la verifica subìta dal recalcitrante presidente del Consiglio, e ora scongelata nonostante il freddo e la neve.
presunta sete di
potere. O più banalmente o meschinamente, come gli attribuisce sul Fatto Quotidiano il solito Marco Travaglio, per placarne la rabbia di fronte ad un presidente del Consiglio che sta per sorpassarlo nella classifica della durata a Palazzo Chigi. “Magari -ha scritto invece Renzi- avessimo un problema personale: noi abbiamo un problema politico con Conte”, che non potrebbe quindi cavarsela spostando ministri e nominandone di nuovi.
d’avvertimento significativo in un articolo del Corriere della Sera firmato da Maria Teresa Meli simile a un’intervista. Con tanto di virgolettato, salvo smentite
ovviamente, egli da una parte ha sollecitato Conte ad assumere “un’iniziativa” per sbloccare la verifica, lamentandone quindi l’attendismo, e dall’altra lo ha diffidato dal gioco del pallottoliere, appunto, perché il Pd è contrario a “cambi di maggioranza o confuse soluzioni da condividere con la destra”.
detto che “non si manda via l’uomo più popolare del Paese”, quale sarebbe appunto Conte, “per volere del più impopolare”, quale sarebbe appunto il senatore di Scandicci, o Rignano. Ma di quante “truppe” dispone oggi D’Alema?, chiederebbe forse la buonanima di Giuseppe Stalin con l’aria beffarda usata a proposito del Papa ridisegnando a Yalta l’Europa del dopo-Hitler.
di Marco Travaglio. Dove, comunque, la soluzione dei “responsabili”, che avrebbe dovuto risparmiare a Conte “rimpasti e concessioni” al senatore toscano, è finita in terza pagina, tra “i pareri” sullo sbocco della verifica, a firma di Andrea Scanzi.
a Palazzo Chigi sia dei grillini. Fra i quali la paura di elezioni anticipate, da cui uscirebbero a pezzi, sta prevalendo su ogni altra cosa: e con la paura anche le tensioni interne. I cui sviluppi sono davvero imprevedibili, con un reggente peraltro come Vito Crimi nuovamente scaduto nell’incarico.
le vignette di prima pagina, rispettivamente, del Corriere della Sera e del Fatto Quotidiano, è il passaggio formale delle dimissioni del presidente del Consiglio reclamate da Renzi. Di cui a fidarsi poco, o a non fidarsi per niente, non è solo Marco Travaglio, il direttore del Fatto, ma anche Conte, per
perché “di raccogliticcio ci basta il Parlamento”, com’è stato infatti ridotto dalle trasmigrazioni, dalla riduzione dei seggi imposta dai grillini e ratificata con tanto di referendum, dalla tonnara che ne è pertanto derivata, temendo più della metà dei deputati e senatori uscenti di non tornare la prossima volta, e dalla crisi cosiddetta identitaria, ma ancor più elettorale, degli stessi grillini, usciti dalle urne del 2018 addirittura come il partito più rappresentato nelle Camere.
presidente del Consiglio attribuita al piano di Renzi. Che, dal canto suo, in una intervista al Corriere della Sera ha praticamente detto a Di Maio che molto più concretamente egli potrebbe sostenere e difendere il posto di Conte rimuovendo il veto dei grillini all’uso del credito europeo di 36 miliardi di euro disponibile per il potenziamento del servizio sanitario nazionale. Le cui debolezze sono confermate in questi giorni anche delle previste difficoltà della campagna di vaccinazione anti-Covid.
direttore Claudio Cerasa e del fondatore Giuliano Ferrara. Il primo ha auspicato “più renzismo, meno grillismo”. L’altro, l’elefantino rosso che vigila sul suo giornale, si è un po’ compiaciuto della “ferocia dei morsi” di Renzi, da lui del resto apprezzato
già prima del famoso patto del Nazareno con quella specie di padre politico putativo che poteva essere ritenuto Silvio Berlusconi, “l’amor nostro” dei foglianti. Fu proprio Ferrara a coniare per Renzi la formula o immagine del “Royal baby” e a dolersi pubblicamente dell’opposizione del Cavaliere alla conferma referendaria della riforma costituzionale renziana: opposizione subentrata al mancato accordo sulla candidatura di Giuliano Amato al Quirinale nel 2015, quando Renzi gli preferì Sergio Mattarella.
un Renzi sotto sotto deciso anche a provocare davvero le elezioni anticipate che invece esclude a parole, perché ne potrebbe uscire finalmente rafforzato per il logoramento, a dir poco, cui sarebbe destinato il Pd se davvero andasse alle urne alleato con i grillini, un’eventuale lista di Conte e la sinistra dei “liberi e uguali”.
dopo le eventuali dimissioni delle due ministre grilline, si presenta al Senato e ottiene la fiducia con l’aiuto dei cosiddetti “responsabili” transfughi del centrodestra o ex grillini, sia un Conte che si mette decisamente alla testa dei pentastellati e
vince le elezioni, o comunque sconfigge un Pd ormai “in mano a Renzi e allo sbando”, come ha detto in una intervista Achille Occhetto proprio al Fatto. Dove tuttavia c’è ancora qualcuno che conta sui “pontieri Pd” disposti a “far ragionare” il senatore di Scandicci.
Befana, che anche
i più refrattari all’evento ne parlano e scrivono come di cosa praticamente scontata. E’ il caso del Fatto Quotidiano, che ne riferisce in rosso in apertura della prima pagina, sia pure la più ridotta possibile. O del Corriere della Sera.
politica, inutili di fronte al passo veloce di una crisi che, a meno di clamorose sorprese o di miracoli, toccherà gestire fra poco al preoccupatissimo capo dello Stato. Sul quale Conte- temo per lui- ha forse fatto troppo affidamento scommettendo sulla sua disponibilità a sciogliere le Camere e mandare gli italiani alle urne in pandemia ancora in corso pur di mantenerlo o salvarlo a Palazzo Chigi.
Scalfari al direttore Maurizio Molinari, catalogata peraltro come “cultura” e non politica, visto forse il deprezzamento o discredito della seconda in questo passaggio a dir poco confuso e tormentato del Paese, dove gli equilibri fra i partiti e gli schieramenti, e all’interno di essi, sembrano dei birilli.
liberalsocialismo come riferimenti costanti della sua lunga attività giornalistica. Ed è tornato a inserire il compianto Enrico Berlinguer, che soleva frequentare a casa, sua o del portavoce Antonio Tatò, tra i riformisti più convinti e apprezzabili, erede quasi di Carlo Rosselli e forse anche di Filippo Turati, pur
non menzionato quest’ultimo. Così come non è stato mai menzionato nell’intervista l’inviso Bettino Craxi, che pure ebbe proprio sul riformismo uno scontro durissimo con Berlinguer, conclusosi storicamente e politicamente, secondo esponenti del vecchio Pci come Piero Fassino in un libro autobiografico, a vantaggio del leader socialista. Che vide prima e contro un certo conservatorismo berlingueriano la necessità, fra l’altro, di una riforma istituzionale.
l’altro, ad attribuire al povero Moro, parlando di un incontro avuto con lui “poco prima” del giorno del suo tragico sequestro ad opera delle brigate rosse, il progetto di una vera e propria alleanza col Pci “per due legislature”, e non di una tregua di breve durata, espressasi con l’astensione e poi il voto di fiducia vera e propria dei comunisti a un governo interamente democristiano presieduto da Giulio Andreotti. Peccato, per Scalfari, che proprio in quei giorni Moro da presidente della Dc aveva chiuso una lunga trattativa col Pci sbarrandogli la porta del governo socchiusa invece da Andreotti e dall’allora segretario democristiano Benigno Zaccagnini con l’ipotesi di nomina a ministri di due indipendenti di sinistra eletti nelle liste comuniste.
agganciare sulla parete della crisi la corda con la quale sta cercando di arrivare alla vetta. Che, secondo anticipazioni virgolettate attribuitegli sulla Stampa il 31 dicembre e non smentite, è costituita da questa alternativa: “O un governo retto da uno del Pd o arriva Mario Draghi”.
pandemia: i vaccini e l’aiuto economico comunitario”. Che l’ex presidente del Consiglio teme venga invece “sperperato” dal governo, come ha detto nell’aula del Senato pur approvando il bilancio, con una politica troppo assistenzialistica, di mance e sussidi, imposta a Conte dai grillini insieme al rifiuto di usare i 36 miliardi di credito del cosiddetto Mes per il potenziamento del servizio sanitario. Di fronte alla convergenza, secondo Renzi, fra le contestazioni sulle quali egli sta facendo maturare la crisi e le necessità indicate nel suo messaggio da Mattarella “Italia Viva ringrazia il presidente della Repubblica”.
sul rischio di elezioni anticipate, avvalorato da indiscrezioni giornalistiche sulle intenzioni del Colle, Renzi rispose: “Il Quirinale in Italia non parla. Quelle sono fonti attribuite a chi vuole che dica una certa cosa. Ma in Italia il sistema prevede che il presidente della Repubblica debba verificare se in Parlamento ci sono i numeri per formare un altro governo. E se si trovano, è fatta. Altrimenti si vota”.
ancora segretario del Pd. Se non si vuole pensare persino a una vendetta, considerando che nel 2015 era stato Renzi a selezionare Mattarella per il Quirinale, si può ben dire che in politica accade di vedere posizioni intrecciarsi e capovolgersi. Adesso è Renzi a contrastare il voto anticipato e Mattarella disposto -secondo alcuni- a concederlo sperando così di rafforzare la posizione assai in pericolo di Conte.
credo sia stata casuale neppure la scelta di ignorare, senza dedicarle neppure un inciso, la crisi incombente di governo. Che potrebbe impegnarlo fra pochi giorni o poche settimane, e chissà per quanto.
lui- usando come un bastone l’apparentemente corretta parlamentarizzazione della cosiddetta verifica. Che d’altronde è stata malvolentieri accettata dallo stesso Conte dopo avere cercato di sottrarvisi, e addirittura di negarne il nome pur consolidato da decenni di pratica politica.