I giorni che il presidente del Consiglio per “continuare il suo lavoro”, come è tornato ad auspicare
sul Corriere della Sera l’ormai
immancabile oracolo del Pd Goffredo Bettini, ha voluto prendersi prima del “Rischiatutto” sulla fiducia di martedì al Senato, dove i numeri sono rimasti assai incerti, hanno prodotto più confusione che chiarimento, più veleno che altro.
La ricerca di “costruttori” tra le opposizioni -quelli che una volta si chiamavano voltagabbana o venivano derisi per la qualifica di “responsabili” autoassegnatasi- ha esposto gli interessati agli
immancabili sospetti di trasformismo, a dir poco. Che il ministro della Cultura Dario Franceschini, capo della delegazione del Pd al governo, condividendo una tesi esposta prima di lui da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, ha considerato per niente deplorevole in un sistema elettorale proporzionale, quale di fatto sarebbe già quello in vigore, anche se in attesa di un miglioramento o potenziamento.
Solo col sistema maggioritario bi o tripolare, presupponendosi la formazione degli schieramenti prima del voto, con tanto di designazione preventiva dei due o tre maggiori candidati alla presidenza del Consiglio, sarebbe
giustificata la deplorazione dei parlamentari in transito nel corso della legislatura da una parte all’altra. Ma sarebbe stata a questo punto condivisibile, secondo il ragionamento di Franceschini, la richiesta grillina già in epoca del maggioritario, contrastata invece dal Pd, del cosiddetto vincolo di mandato da introdurre modificando l’articolo 67 della Costituzione. Che dice dal 1948: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, appunto.
Peraltro, pur rivalutando il mandato parlamentare senza vincolo all’ombra di un preteso e già completo
ripristino del sistema proporzionale modificato nel 1993, il giornale di Travaglio è tornato a bollare come “campagna acquisti”, o mercato delle vacche, i passaggi avvenuti in questi giorni, e possibili anche nei prossimi, dai banchi grillini a quelli dell’odiatissima Lega di Matteo Salvini. Sono quindi le destinazioni a fare la differenza. Il giudizio dipende da chi può trarne beneficio. Se è Salvini, come nel 2010 fu l’allora presidente del Consiglio Berlusconi , l’operazione è marcia. Se è Conte o il Pd, dove un renziano è appena tornato forse precedendo altri molto corteggiati in queste ore per dare a Renzi la lezione che meriterebbe, avendo ritirato la sua delegazione dal governo, l’operazione è eccellente, salvifica. E’ la solita storia dell’opportunismo preferito all’opportunità, o dell’ipocrisia preferita alla franchezza.
Franchezza per franchezza, o viceversa, è da segnalare il silenzio opposto alla rivelazione fatta
da Renzi dopo essere stato bollato come “inaffidabile” dal segretario del Pd per la sua vis polemica contro
il governo. “Curioso. Ho utilizzato verso Conte -ha raccontato l’ex presidente del Consiglio alla Stampa del 15 gennaio- parole molto più gentili di quelle che usava Zingaretti su di lui nei nostri colloqui
privati”. Ma per agitare le acque nel Pd stimolandone “gli irresponsabili” avvertiti o denunciati da Travaglio, l’ex presidente del
Consiglio ha ugualmente proposto al partito di Zingaretti di assumere in un nuovo governo un ruolo “fondamentale”, diventato “centrale” nel titolo dell’intervista al Corriere della Sera.
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di una “crisi in incognito”- a permettere al presidente del Consiglio di presentarsi alle
Camere per verificare la fiducia al suo governo anche senza dimettersi, come se lo avesse fatto e il presidente della Repubblica lo avesse rinviato al Parlamento, bisognerebbe leggere con attenzione il quirinalista che va, peraltro meritatamente, per la maggiore. Che è Marzio Breda, abituato a frequentare il Quirinale come casa sua.
Sandra Lonardo ad uscire da Forza Italia e dal centrodestra e a transitare di fatto verso la maggioranza contiana raccogliendo e sviluppando tradizioni di famiglia, tutte praticate per “amore” dell’Italia e della politica, secondo le dichiarazioni rilasciate in questi giorni dall’ex portavoce di Ciriaco De Mita, ex ministro del Lavoro di Silvio Berlusconi, ex ministro della Giustizia di Romano Prodi, ex attendente di Francesco Cossiga alla guida degli emuli degli “straccioni di Valmy”. Che nel 1998 consentirono la formazione del primo governo di Massimo D’Alema. Per adesso egli è riuscito, in questa stagione, a riscalare le prime pagine dei giornali rivalutando i “vietcong” e rivendicando “la dignità delle amanti”.
da modesta componente del gruppo misto del Senato in una scialuppa di salvataggio. Vi è già saltato dentro l’ex forzista Raffaele Fantetti con la sua associazione “Italia 23”, dall’anno della fine ordinaria della legislatura, che potrebbe diventare addirittura il nome di una lista di o per Conte, se il professore volesse partecipare alle prossime elezioni.
indeterminatezza chiesto da Mattarella a Conte per travestire da maggioranza continua una maggioranza in realtà diversa, o discontinua. Ne è infatti appena uscita l’Italia viva di Renzi, o ciò che ne resterà dopo questa operazione che potrebbe togliere anche ad essa qualche senatore.
così, ma hanno diritto ad una loro dignità.
Sansonetti, si è scoperto che pochi giorni fa è stato concesso da Palazzo Chigi il finanziamento di un maxi parcheggio controverso di Benevento per 7 milioni di euro. Potrebbero sembrare pochi, come i giorni che mancano a martedì prossimo, ma sono pur sempre quasi 14 miliardi delle vecchie lirette. E hanno pur sempre un loro significato in quello che potrebbe anche essere chiamato il mercato dei costruttori politici a vari livelli, nazionale e locale.
lo stesso Conte il giorno prima, scendendo dal Colle dopo un altro incontro, aveva riconosciuto che non si potesse o dovesse fare. Essi dovranno ritrovarsi, come ha spiegato Breda, in un unico e nuovo gruppo. Che però al Senato per costituirsi ha bisogno di assumere il simbolo e la denominazione di un partito presentatosi alle ultime elezioni politiche. Renzi lo fece nel 2019 accasandosi nel Psi di Riccardo Nencini, dichiaratosi però anche lui in questa circostanza fra i “costruttori”.
gioverebbe, vista la sua già forte esposizione critica- segna sicuramente una vittoria di Conte nel primo tempo della partita di una crisi che a questo punto non si sa neppure più come chiamarla, non essendo stata formalmente aperta. E’ una crisi “tutta mediatica”, ha scritto un compiaciuto Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. E’ una crisi “in incognito”, ha scritto più autorevolmente su Repubblica il costituzionalista Michele Ainis mostrando però perplessità, non compiacimento, per l’ossimoro del Quirinale.
sorpreso il capo dello Stato, avendoci addirittura scommesso secondo l’ironica rappresentazione che ne ha fatto il vignettista del Foglio– per capire quello che bolle in pentola bisogna guardare al Quirinale. Dove non a caso, in vista proprio dell’annuncio di Renzi, il presidente del Consiglio è salito ieri “all’ora di pranzo”, ha raccontato Marzio Breda sul Corriere della Sera, uscendone alquanto diverso da come vi era arrivato: con minore prosopopea, disposto ad aprire ciò che aveva chiuso il giorno prima avvertendo praticamente: mai più con quello lì.
si salvò così da una crisi predisposta addirittura dal presidente della Camera Gianfranco Fini. “Mattarella -ha ricordato Breda- ha sempre evocato il bisogno di maggioranze solide e con un perimetro ben chiaro, altrimenti qualsiasi governo rischia di essere costruito sulla sabbia”.
significativamente con parole di fiducia nei riguardi del Capo dello Stato. Nel cui messaggio di Capodanno, d’altronde, il senatore di Scandicci, o di Rignano, ormai
raffigurato da Vauro Senesi sulla prima pagina del Fatto Quotidiano come una “variante” del Covid 19, si era già affrettato a riconoscersi totalmente, come per agganciarvi la fune della sua scalata sulla parete della crisi.
il nuovo scostamento di bilancio necessario a finanziare altri interventi per i danneggiati dalla pandemia virale, che intanto continua a mietere vittime. Ma prima o dopo, se Conte dovesse procrastinare con furbizia le dimissioni, o altre iniziative di chiarimento, temo che il capo dello Stato sbotterà, come ha fatto capire Breda al termine della sua corrispondenza dal Quirinale, E in modo clamoroso, come solo i pazienti, tolleranti e simili riescono a fare quando, appunto, sbottano, anche a costo di essere scambiati per matti.
Giovanni Floris, sulla 7. Parlo naturalmente di interessati nel senso di non contrari, fiduciosi
intestardito a mettere in
discussione il presidente del Consiglio. Evidentemente, avendogli accordato la fiducia un anno e mezzo fa, avendone anzi promosso la permanenza a Palazzo Chigi dopo la rottura con Salvini, egli si sarebbe dovuto sentire impegnato a condividerne tutte e sempre le decisioni e la condotta. Eppure anche i matrimoni hanno finito da tempo di essere indissolubili.
del Consiglio non
si è dichiarato “impaziente” e non si è messo a “correre”. Ma lo ha fatto puntando ad arrivare nell’aula del Senato per sostituire i renziani con un po’ di transfughi “responsabili” dal centrodestra, raccolti più o meno alla spicciolata. Come se una maggioranza di questo tipo, peraltro contestata a Silvio
Berlusconi nel 2010, in tempi meno preoccupanti di adesso, fosse più adeguata alle varie emergenze in corso e Mattarella fosse disponibile a consentirla senza il passaggio formale di una crisi.
anziché viva a meno del 3 cento dei voti sottolineato dal vignettista Giannelli sul Corriere della Sera, ma quelle del Pd. Il cui vice segretario Andrea Orlando non più tardi di domenica scorsa ha cercato di spegnere l’incendio della crisi invocando due precedenti, ma da autorete, come vedremo.
che sicuramente non si amavano. Senza
tornare indietro a Togliatti
e De Gasperi”, che comunque ruppero nel 1947 senza mai più riconciliarsi, “basta ricordare Craxi e De Mita. Gli stessi Prodi e D’Alema non si amavano alla follia”, come Conte e il Renzi vichingo di queste ore.
aspettare un anno
per succedergli, e durare solo 13 mesi. L’altrettanto sordida partita tra Prodi e D’Alema sfociò nell’autunno del 1998 con la defenestrazione di Prodi, sempre da Palazzo Chigi, anche se D’Alema ne prese il posto per durare solo un anno e mezzo, e con ben due governi. Roba, se evocata oggi, da scongiuri per Conte.
opposto, mettiamo che a Sergio Mattarella riesca il miracolo annunciato un po’ da tutti
chiedere ai partiti della maggioranza di approvarlo comunque, accontentandosi i renziani – pur sfottuti come arresi dal Fatto Quotidiano- delle tante modifiche già ottenute rispetto al testo originario.
i problemi di fine legislatura ce ne sia uno politico e istituzionale grande come una casa: l’elezione fra un anno del presidente della Repubblica, scadendo il mandato di quello attuale, come lo stesso Mattarella ha ricordato -forse non a caso- nel suo messaggio di fine anno a reti unificate, e in piedi davanti ad una vetrata del Quirinale. Mi chiedo se questa maggioranza così scombinata, pur in un rinnovato governo
sta cercando di trattenere sino a quando non sarà approvato dal Parlamento il piano d’impiego dei fondi europei della ripresa. Ma poi le loro dimissioni
obbligherebbero davvero Giuseppe Conte a una decisione: dimettersi ed aprire ufficialmente la crisi, con tutti i riti e rischi del caso, o cercare di imitare Giulio Andreotti. Che nel 1990 -come ha significativamente ricordato oggi Il Fatto Quotidiano filocontiano- sostituì ben cinque ministri democristiani dissidenti, fra i quali Sergio Mattarella, e col consenso dell’allora capo dello Stato Francesco Cossiga continuò sulla sua strada.
presidente del Consiglio. Uno è Massimo D’Alema, secondo il quale Conte è l’uomo più popolare d’Italia e Renzi il più impopolare. L’altro è Goffredo Bettini, marchigiano di origini aristocratiche, 68 anni compiuti il 5 novembre scorso, entrato nelle
cronache della verifica con interviste quasi quotidiane- l’ultima è di oggi al Corriere della Sera- tese a indirizzare il suo partito, il Pd, pur essendo lui solo uno dei 217 esponenti della direzione nazionale. A promuoverlo mediatore è stato addirittura Renzi, che ha rivelato di avergli mandato biglietti, lettere, appunti e quant’altro, facendo forse chissà quali e quante telefonate, per cercare di smuovere da arroccamenti, ambiguità e quant’altro non solo o non tanto il segretario del Pd quanto Conte in persona. Di cui
pertanto sarebbe diventato il consigliere principale e fra i più adoranti, visto che non si lascia scappare occasione, come quella di oggi sul Corriere, per tessere le lodi del presidente del Consiglio e descrivere con tinte fosche qualsiasi scenario che non lo contempli ancora a Palazzo Chigi.
da Bettini e non
capisco perché, visto che non ha nessun incarico nel partito”. Minzolini ha anche attribuito a Bettini un soprannome che si sarebbe guadagnato in romanesco nel Pd: “er monaco”, speriamo senza allusioni a Rasputin, che fece una brutta fine, a dir poco, senza parlare della corte dello Zar che aveva frequentato.
rivelato in una intervista a Repubblica dal senatore ex grillino e ora leghista Ugo Grassi, professore universitario di diritto privato e in qualche modo amico -o adesso ex amico, chissà- del presidente del Consiglio. Dal quale, invitato
in ufficio e fatto accomodare “nel salotto, sul divano, forse per creare subito un clima più informale”, si vede “guardare in faccia” e chiedere subito, “per entrare -dice lo stesso Conte- nel cuore del nostro incontro”, se vuole “qualche incarico”. E provate a immaginare che cosa verrebbe ridetto e gridato contro il Cavaliere di Arcore.
direttamente ai tentativi in corso di sostituire nella maggioranza i senatori evidentemente irresponsabili di Matteo Renzi con altri “responsabili” provenienti dall’opposizione, hanno
Conte come approdo dell’uscita dai grillini, di cui evidentemente lo stesso Conte era informato. Un presidente del Consiglio che cerca di smistare il traffico dei dissidenti 5 Stelle indirizzandolo verso il partito di Nicola Zingaretti non so se sia più imbarazzante per lui, per i grillini o per il segretario del Pd.
avuta una cocente vedendo -e leggendone le motivazioni in una intervista- fra i centomila e più firmatari
dell’appello alla sfiducia al governo promosso da Giorgia Meloni persino Luca Moro, il nipote del presidente della Dc ucciso dalle brigate rosse nel 1978. Cui Conte ha orgogliosamente detto più volte di ispirarsi, immagino con quanta soddisfazione da parte di un improbabile moroteo come Beppe Grillo. Ai cui spettacoli Moro non avrebbe neppure sorriso.