Quella di Giuseppe Conte doveva essere, dopo la rottura con Matteo Renzi, una corsa per l’allargamento della maggioranza ai “volenterosi” di varia provenienza, prevalentemente dal centrodestra ma anche dall’area
degli ex grillini e dello stesso partito renziano, ma strada facendo la velocità si è ridotta. Così anche la sua “influenza” sui senatori indecisi, per usare il termine che ha acceso la fantasia ironica del vignettista Stefano Rolli sul Secolo XIX.
Il presidente del Consiglio non ha potuto essere aiutato più di tanto da quanti si sono offerti nella ricerca di appoggi sostitutivi dell’ormai odiatissimo Renzi: né Clemente Mastella, né il più paludato Bruno Tabacci, né il vecchio ma volenterosissimo Eugenio Scalfari. Che proprio oggi sulla Repubblica, pur non perdendo l’occasione per
ripetere la sua devozione laica a Papa Francesco, si è vantato di avere avuto e di avere “la chance di dare un aiuto a Conte” perché “se lo merita e buona parte dei problemi italiani dipende da lui”.
Fra questi problemi ce ne sono di grandissimi -come la pandemia e la campagna di vaccinazione ostacolata dai ritardi delle aziende farmaceutiche, che avranno adesso la possibilità di
sperimentare Conte anche come avvocato, e non solo come presidente del Consiglio- e di apparentemente
modesti ma pur sempre importanti sul piano politico, come i rapporti di Palazzo Chigi coi partiti alleati di governo. Fra i quali c’è un Pd che proprio a causa delle difficoltà di Conte sta andando o è già andato “a pezzi”, come ha ammesso e denunciato in rosso sulla prima pagina l’amichevole Fatto Quotidiano.
“Il 27 – spiega sempre in prima pagina il giornale di Marco Travaglio- IV (spaccata) e Udc votano sulla giustizia con FI-Lega-FDI. Il n.2 dem chiede al guardasigilli fantomatici “segnali” e mezzo Pd riapre
a Renzi”. Che è il capo di IV intesa come Italia viva, per fortuna non come la scomparsa Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Il “n 2 dem” è naturalmente il vice segretario piddino Andrea Orlando, che da ex ministro della Giustizia conosce bene il pasticcio combinato dal suo successore grillino Alfonso Bonafede inserendo nella legge “spazzacorrotti” della maggioranza gialloverde la prescrizione breve. Essa finisce con il primo grado di giudizio e reclama la necessità, snobbata -diciamo così- da Bonafede, di garantire davvero con una riforma la “ragionevole durata” dei processi imposta dalla Costituzione. Chiedere che vi si provveda finalmente significherebbe lanciare a Bonafede, “Fofò per gli amici, “fantomatici segnali”. Mi sembra quanto meno curioso.
L’improbabilità che Bonafede, peraltro capo della delegazione grillina al governo, superi la votazione annunciata per mercoledì al Senato sulla sua relazione annuale sullo stato della giustizia in Italia è tale che se ne sta tentando un rinvio, ma solo di un giorno. Nel frattempo si spera, anche nel Pd, o in una sua “metà”, che il presidente del Consiglio
si renda finalmente conto di non potercela fare ad allargare la maggioranza con le procedure della crisi-non crisi sinora praticate e si decida alle dimissioni per l’apertura di una crisi vera e propria, da lasciare gestire al presidente della Repubblica, nella
prospettiva magari anche di un suo terzo governo, negoziato su nuove basi, e non chiuso ermeticamente, a più mandate, a Renzi. Lo ha suggerito al presidente del Consiglio anche il buon Tabacci ricordandogli che “dobbiamo dire messa con i frati che abbiamo”, compreso evidentemente frà Matteo di Rignano.
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
quant’altro, non credo proprio che sia stato confortante a Palazzo Chigi leggere sul Corriere della
Sera del sondaggio appena effettuato dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli. Che ridimensiona alquanto la popolarità di Giuseppe Conte abbassando al 40 per cento il favore alla prosecuzione del suo ormai abborracciato governo e portando l’auspicio di un’”alternativa” ad un altrettanto 40 per cento, per cui si può ben parlare di un paese spaccato a metà.
del governo: una percentuale aggravata, per il presidente del Consiglio, da una forte partecipazione -il 35,9%- di elettori abituali del Pd. All’interno del quale, come anche fra gli stessi grillini secondo alcune
della delegazione grillina al governo Alfonso Bonafede, guardasigilli e scopritore politico dell’avvocato di stanza a Palazzo Chigi, sullo stato della giustizia e sulla riforma assai divisiva che ha in mente di portare avanti. L’ostinato e sostanziale rifiuto di modificare la prescrizione breve, sino alla sola sentenza di primo grado, introdotta
come una supposta nella legge nota come “spazzacorrotti” e in vigore ormai da più di un anno, ha già indotto quella specie di matricola della nuova maggioranza che può considerarsi la moglie di Clemente Mastella, la senatrice Alessandrina Lonardo, ad avvertire che l’esperienza familiare nei tribunali le impedisce di votare la relazione di Bonafede.
ridato a Conte il suo voto di fiducia scartando l’astensione da cui pure era tentato per non rompere con i renziani. Grazie ai quali nel 2019 egli aveva potuto costituire un gruppo autonomo col doppio nome del Psi e di Italia viva.
rispetto e non correre il rischio di guai di ogni tipo, è che certa magistratura è sfortunata per la frequente coincidenza di retate, arresti e avvisi di garanzia con passaggi politici di una certa importanza. A Cesa, dimessosi da segretario dell’Udc per essere stato infomato delle indagini a suo carico per associazione a delinquere
aggravata dal metodo mafioso, era capitato in questi giorni di partecipare alla cerchia dei “volenterosi” cercati dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte per l’allargamento della maggioranza. “Ma aveva rifiutato”, si è giustificato Gratteri mostrando di non leggere i giornali, che riferivano di contatti ancora in corso dopo un primo rifiuto, appunto.
giunta delle autorizzazioni a procedere della Camera, con tutte le fughe di notizie del caso, mentre i partiti della maggioranza confermata dalle urne, sia pure con margini ridotti, si apprestavano a formalizzare la designazione del leader socialista alla guida del nuovo governo. Cui il nuovo capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro sbarrò la strada dopo avere inusualmente allargato le consultazioni di rito a Borrelli ricavandone l’impressione, quanto meno, che Craxi stesse vicino al coinvolgimento in Tangentopoli, formalizzato tuttavia sei mesi dopo.
nuovo inciampo giudiziario nella sua lunga esperienza politica per tirarsi fuori dalla ragnatela di Giuseppe Conte. Che sta cercando di catturare come insetti i centristi post democristiani, come quelli post liberali, post socialisti riformisti e altro ancora per allargare quel che di relativo, assai relativo, specie al Senato, gli è rimasto della
maggioranza improvvisata attorno al suo secondo governo nell’estate del 2019, dopo la rottura con Matteo Salvini. Adesso il presidente del Consiglio sta facendo i conti, al plurale, con l’altro Matteo della politica: Renzi.
Democrazia Cristiana, pensate un po’, di Alcide De Gasperi, Attilio Piccioni, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giulio Andreotti, per fermarci ai morti, e non tutti. Oltre ad essersela cavata, sia pure fortunosamente, nella tempesta lontana di Tangentopoli grazie alla saggia e ostinata condotta processuale del compianto Gianni Prandini, che pure lui aveva contribuito in modo decisivo a fare arrestare, Cesa può contare questa volta sulla facilità all’errore del magistrato che in Calabria gli ha contestato l’associazione a delinquere aggravata dal metodo mafioso.
per strada un bel po’ di indagati e imputati. L’infortunio più recentemente certificato di questo magistrato d’accusa, che peraltro Matteo Renzi avrebbe voluto nel 2014 ministro della Giustizia nel suo governo, trattenuto con fermezza dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, è l’assoluzione dell’ex presidente della Calabria Mario Oliverio.
quella che sui giornali
è diventata “la bomba Cesa”, la senatrice si è fatta più prudente ed ha ripiegato su una “riflessione” più lunga, impostale però dalla furia solita degli altrettanto soliti grillini. Che si sono levati come un sol uomo, pur divisi come sono tra di loro, contro la contaminazione che rischiano accettando nella coalizione di governo persone non solo come Cesa ma anche come la Binetti, appunto.
salendo al Colle ha potuto raccogliere dal capo dello Stato non consigli, dopo tutti quelli già fornitigli e forse non ascoltati, ma “preoccupazioni”. Che francamente non possono considerarsi infondate di fronte alla fiducia “risicata e avventurosa” -parole sempre di Breda- ottenuta dal presidente del Consiglio al Senato. Dove -sia detto per inciso, non pescando nell’articolo del quirinalista del Corriere della Sera- si parla ormai non più o non solo del “governo Conte-Mastella”, dalla consorte del sindaco di Benevento che ha votato a favore mentre il marito continua a cercare altri aiuti per il futuro, ma del “governo Conte-Ciampolillo”, dal senatore ex grillino Alfonso, arrivato all’ultimissimo istante in soccorso di Palazzo Chigi e noto per la convinzione che col sapone si possa curare tutto: dalla malattia degli ulivi al Covid. E’ uno che dopo avere conquistato con la sua corsa le prime pagine dei giornali si è anche divertito a candidarsi a ministro dell’Agricoltura, raccogliendo l’interim assunto da Conte dopo le dimissioni della renziana Teresa Bellanova.
chiesto Breda- fra pochi giorni, quando il Guardasigilli Bonafede, capo della delegazione grillina al governo, presenterà il suo “divisivo” progetto di riforma della giustizia? Il governo “cercherà un’impervia fiducia anche allora?”.
parlandone alle Camere come di una cosa “aperta” dopo l’uscita delle due ministre renziane e la conferenza stampa esplicativa dello stesso Renzi, non ha voluto per niente aprire con le dimissioni. Pertanto il presidente della Repubblica ha dovuto starsene alla finestra, in paziente attesa che il presidente del Consiglio seguisse il percorso preferito alle tradizionali consultazioni al Quirinale, eventuale rinvio alle Camere o conferimento dell’incarico per risolverla.
della crisi, sicuro di raccogliere fuori dai confini originari del suo secondo governo tanti voti da mettere definitivamente fuori gioco l’ex sindaco di Firenze, ex presidente del Consiglio, ex segretario del Pd e ora leader della piccola ma non travolta formazione parlamentare di Italia viva. Cui personalmente attribuisco la colpa, quanto meno, di avere restituito alle cronache politiche una sigla –Iv– che era scomparsa con la fine non proprio gloriosa dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro.
passaggio del precedente articolo sul fantasioso sindaco di Benevento- colpisce la indiscutibile debolezza considerando la gravità dei problemi ancora aperti nel Paese: oltre alla crisi non crisi di governo, la perdurante pandemia, le incognite della campagna di vaccinazione, una sostanziale recessione economica, l’aumento degli squilibri sociali, le perduranti difficoltà nei rapporti con l’Unione Europea. Dove un commissario pur ben disposto verso l’Italia come l’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha fatto già sapere che il piano di utilizzo dei fondi continentali della ripresa non va bene neppure con le modifiche migliorative apportate al testo originario contestato da Renzi.
la loro provenienza. Vi hanno contribuito, in particolare, due forzisti aggiuntisi all’ultimo momento, fra cui Mariarosaria Rossi, potentissima e alla fine contestata ex segretaria di Silvio Berlusconi, e tre senatori a vita. Che hanno, per carità, gli stessi diritti degli altri ma l’inconveniente di non essere stati eletti, di non rappresentare quindi nessuna delle forze politiche che si contendono nelle urne la guida del Paese.
in una conferenza stampa dallo stesso Renzi con attacchi di tale durezza e slealtà nei suoi riguardi da renderlo irrecuperabile. Ma quando e dove si è davvero aperta questa crisi per evitare la cui formalizzazione
non vogliamo chiamarlo imbroglio.
assoluta potranno arrivare in seguito. “I numeri seguono il governo”, ha detto con ottimismo Clemente Mastella, guadagnatosi in questi giorni la figura, il ruolo e quant’altro di arruolatore dei “volontari” invocati dal presidente del Consiglio.
in scadenza perderà la prerogativa dello scioglimento delle Camere prima della scadenza del loro mandato. Proprio in quel semestre Conte, per quante telefonate potrà spendersi col nuovo presidente americano Joe Biden, che ha già sostituito nel suo cuore il Donald Trump del “Giuseppi”, potrà rischiare più di quanto non gli sia capitato nelle settimane scorse, da quando Matteo Renzi, prima con l’appoggio del Pd e poi da solo, gli contestò dentro la maggioranza metodi e contenuti dell’azione di governo.
proposta del presidente del Consiglio. Ma ciò accadde perché la Dc, guidata da Arnaldo Forlani con la sinistra interna all’opposizione, lasciò isolati i ministri
protestatari, cioè li scaricò, come ricorda bene Mattarella essendo stato uno dei loro. Italia viva, il partito di Matteo Renzi che inutilmente in questi giorni Conte ha cercato di spaccare irrigidendosi e proclamando “mai più al governo”, non ha sconfessato le ministre dimissionarie, e tanto meno il suo leader. Che sarà antipatico e indebolito ma è ancora lì, sul campo.
di Silvio Berlusconi e ministro della Giustizia col centrosinistra di Romano Prodi.
e spavalderia succursali, a seconda delle circostanze e degli interlocutori, del Quirinale e di Palazzo Chigi. “Io sono il medico della crisi”, ha appena dichiarato facendo non so se sobbalzare o ridere il presidente della Repubblica, che in questo campo si sente probabilmente, e non a torto, l’unico a poter emettere ricette, prescrivere cure ed eseguire interventi chirurgici come lo scioglimento delle Camere.
Lo ha conosciuto solo in ottobre del 2019, con De Mita ed altri amici della disciolta Dc, alla commemorazione di Fiorentino Sullo, affidata in un teatro di Avellino proprio a Conte dal presidente dell’omonima fondazione Gianfranco Rotondi, deputato di Forza Italia. Che avrebbe voluto consegnare all’oratore, al termine del discorso, una tessera della Dc se avesse potuto disporne. E Conte sorrise, compiaciuto e disponibile ad altre commemorazioni che potessero
ulteriormente accreditarlo nel filone dei cattolici impegnati in politica, estimatore come si era già dichiarato del compianto e conterraneo Aldo Moro. Cui anche Mastella lo ha in qualche modo paragonato in questi giorni, pur considerandolo a lui inferiore, un po’ “figlio ‘e entrocchia” quale Moro dall’alto della sua autorevolezza non si poteva certamente bollare.
al seguito, per dare a Massimo D’Alema i numeri parlamentari necessari a garantirgli la maggioranza nella successione a Romano Prodi a Palazzo Chigi, dopo che Fausto Bertinotti lo aveva fatto cadere da sinistra. Gli “straccioni” di Cossiga e Mastella invece venivano dal centrodestra. E seppero far vincere D’Alema come quelli veri di Valmy nel 1792 procurarono alla Francia rivoluzionaria e malmessa una clamorosa vittoria sulle truppe prussiane e austriache lanciate verso Parigi.
nel governo Conte eventualmente rimpastato, non riescono a capacitarsi: del fatto che Pd e grillini, beneficiari delle terapie di Clemente, vogliano a Benevento impedirne la rielezione a sindaco in primavera. Ingrati che non sono altro.
la “durezza” nelle fasi successive, in vista delle quali tuttavia “il medico della crisi”, come si è autodefinito Clemente Mastella, cercherà di “tirarlo dentro”
sotto le 5 stelle, come dimostrano i titoli e gli articoli del Fatto Quotidiano che raccoglie gli umori dei parlamentari grillini meglio e più di ogni altro giornale per assonanze di cuore e di cervello.
anche di Luigi Di Maio. Neppure Grillo però riesce ormai a controllare davvero la sua creatura politica, diventata una tonnara quasi quanto il Parlamento da quando ne sono stati ridotti i seggi e nessuno ne vuole anticipare la prossima edizione a ranghi appunto ridotti.
personale dallo svizzero Jean-Jacques Rousseau, caro ai Casaleggio, all’inglese e meno antico Bertrand Russell, secondo il quale “là dove l’ambiente è stupido, o prevenuto, o crudele, è un segno di merito essergli di contrasto”. E basta poco, con Grillo, perché qualcuno diventi stupido, forse anche Conte.