Il bastone e la carota del Foglio al sempre “truce” Matteo Salvini

            Ancora due parole, quasi due, su Matteo Salvini, stavolta dopo la sua “missione” a Catania, dove con l’aiuto di Giulia Bongiorno è riuscito a strappare al giudice dell’udienza preliminare, senza neppure chiederglielo, e a dispetto della “merda” gridatagli in piazza dagli avversari, la significativa convocazione di Giuseppe Conte e di un bel po’ di ministri come testi, per ora, sulla controversa vicenda della nave Gregoretti. Dove da ministro dell’Interno egli avrebbe addirittura “sequestrato” cento e più migranti in attesa di destinazione verso più paesi europei.

            Le due parole, o quasi, sono dedicate stavolta al bastone e alla carota del Foglio al leader leghista, più in generale, per la sua linea politica e le prospettive della Lega. Il direttore in persona del giornale fondato da Giuliano Ferrara ha bastonato Salvini in prima pagina con questo titolo di “aperturina” assegnato al suo editoriale: “Fuori dall’aula di giustizia c’è un altro processo che vede Salvini imputato- Non solo Catania. Le ambiguità sull’Europa, l’euro, la Nato e i punti di riferimento internazionali mettono in discussione la leadership del Capitano. Una resa dei conti tutta all’interno del centrodestra”, dietro naturalmente la facciata unitaria in piazza della coalizione.

            In fondo alla stessa prima pagina del Foglio si trova il richiamo di una lunghissima e un po’ ammiccante intervista di Annalisa Chirico, che il fondatore del giornale, Giuliano Ferrara, suole chiamare spiritosamente “Chirichessa”, allo stesso Salvini per dargli la possibilità di esporre la sua “verità” su Europa, euro, governo e immigrazione. All’interno, nel sommario del titolo, si fa a dire al leader leghista, a dispetto delle cose contestategli dal direttore Claudio Cerasa: “Questa Europa non ci convince, mi dispiace, ma se l’Europa dovesse aiutare gli italiani ben venga l’Europa. Le mie idee sull’euro? Abbiamo chiarito: stiamo in Europa, stiamo nell’euro”.

            Il bastone in prima pagina, la carota a fondo pagina e all’interno. Non foss’altro per dovere o cortesia d’ospitalità, non doveva accadere il contrario? Ai lettori l’ardua sentenza.

La Via Crucis, e forse persino giudiziaria, del MoVimento 5 Stelle

            Non è per tigna, come dicono a Roma, ma è solo per l’attenzione dovuta a quella che gli elettori due anni e mezzo fa hanno voluto far diventare la principale forza politica del Paese, attorno alla quale ruotano gli equilibri, o squilibri, di questa assai curiosa legislatura, che si è costretti a parlare e a scrivere ogni giorno dei grillini. E di quella che è ormai diventata la loro Via Crucis, decisamente fuori stagione liturgica, verso una meta ancora indefinita. Che non vorrei diventasse, come d’altronde è d’uso in Italia da qualche tempo a questa parte, una meta giudiziaria: fra carte bollate, denunce, diffide, cause e via litigando.

            L’ultima notizia sotto le 5 Stelle, con le maiuscole dovute all’anagrafe politica, è quella della diffida a Davide Casaleggio, per ora solo mediatica, da parte dei “vertici” del MoVimento, come Il Fatto Quotidiano chiama i garanti, a cominciare naturalmente dall’”Elevato” Beppe Grillo dietro le quinte,  a non usare più il blog ufficiale pentastellato per sortite “personali” e “arbitrarie” come quella ancora visibile agli internauti. E’ la protesta del figlio del mitico cofondatore del MoVimento Gianroberto Casaleggio, proprietario e gestore della “piattaforma Rousseau” che ne è un po’ il sistema venoso, contro il tentativo che si starebbe compiendo di trasformare quella creatura magica, quasi cosmica, voluta dal padre in un banale, anzi banalissimo partito. Che è stato a lungo sinonimo per Grillo, amici e seguaci di poltronificio immondo, costruito sul trasformismo. E’ una prospettiva che fa inorridire Davide Casaleggio, tanto poco interessato alle poltrone -ha rivelato nella sua sortita sul blog- da avere rifiutato un posto di ministro offertogli dal MoVimento, sempre con le dovute maiuscole anagrafiche, quando gli è capitato, forse per disgrazia, visto come stanno andando le cose, di arrivare al potere.

            La protesta di Davide Casaleggio è forte, diciamo pure fortissima, anche se francamente un po’ contraddittoria perché al partito si arriverebbe ancora più dritti e velocemente se prevalesse la causa per la quale egli si sta spendendo in questi giorni. Che è la corsa di Alessandro Di Battista alla guida del MoVimento, in alternativa alla gestione o direzione collegiale, inevitabilmente movimentista appunto e confusa, preferita dai “vertici” indicati dal giornale di Marco Travaglio. Che naturalmente è contro la coppia Casaleggio-Di Battista, accusata di volere “fuggire col pallone”, facendo una scissione, perché contraria alla stabilizzazione, chiamiamola così, dei rapporti di collaborazione e alleanza col Pd, “la morte nera” dei grillini secondo le previsioni, le paure, le convinzioni e quant’altro di “Dibba”: il cosiddetto Che Guevara non dei popolari Noantri -i romani di Trastevere- ma della borghesissima e benestante Vigna Clara.

            In questo bailamme grillino, e conseguente scontro tra i sostenitori “puri” del limite dei due mandati consentiti e quelli “impuri” del terzo mandato e anche più, si perde per aria come coriandoli tutto il resto della politica: persino l’allarme istituzionale appena lanciato dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati sulle colonne del Corriere della Sera contro la paralisi della politica, appunto, lo svilimento delle Camere, la mancanza di un Progetto, con la maiuscola, per l’Italia, lo stato di incertezza generale nella perdurante pandemia virale e l’incapacità, se non peggio, del governo di avere in circostanze così gravi un rapporto doveroso e degno di questo nome con le opposizioni.

 

 

 

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Spettacolo osceno, e autolesionistico, a Catania contro il leader della Lega

            Due parole, quasi due, sui contorni mediatici e politici, chiamiamoli così, dell’udienza preliminare svoltasi a Catania per il processo proposto dal tribunale dei ministri contro Matteo Salvini. Il quale ordinò da ministro dell’Interno l’anno scorso di trattenere a bordo per quattro giorni  a bordo della nave Gregoretti cento e più migranti, in attesa che venisse concordata la loro distribuzione fra più paesi europei.

            Saranno stati pure “4 gatti” i simpatizzanti di Salvini raccoltisi nella città siciliana, come ha titolato in prima pagina irridendoli Il Fatto Quotidiano, impegnatosi allo spasmo sul fronte giornalistico perché il Senato autorizzasse nei mesi scorsi questo passaggio giudiziario. Ma, a prescindere dal giudizio politico che si può avere del leader leghista, meglio quei “4 gatti” degli altri quattro, o due, che hanno opposto ai manifestanti leghisti e, più in generale, del centrodestra quel cartello che dava a Salvini della “merda”. Che tanto merda, poi, non deve essere apparso non solo al pubblico ministero, che ha proposto l’archiviazione del caso non vedendovi l’ombra del “sequestro”o altro reato ravvisato invece dal tribunale dei ministri, ma anche al giudice. Che ha prudentemente convocato a testimoniare, per ora, mezzo governo di cui Salvini faceva parte, a cominciare dal presidente del Consiglio, più la ministra attuale dell’Interno Luciana Lamorgese, prima di decidere il rinvio a giudizio o no.

            Chi di sterco ferisce, di sterco può anche perire, o almeno restare schizzato.

La coda velenosa della campagna elettorale d’autunno sotto le 5 stelle

            Luigi Di Maio vi aveva molto scommesso con un impegno “pancia a terra” in questa coda elettorale d’autunno, ma non credo che i 54 ballottaggi comunali in corso gli consentiranno di opporre al suo collega di partito Alessandro Di Battista una rappresentazione più consolante, o meno “disfattista”, come lamenta Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, delle condizioni del Movimento 5 Stelle. Che si sono d’altronde aggravate in questi  giorni proprio per l’offensiva interna di Di Battista.

            Anche se i pochi candidati comuni del Pd e dei grillini giunti al secondo tempo della partita elettorale dei municipi, specie nei territori campani o, più in generale, meridionali più cari o vicini a Di Maio, dovessero farcela o perdere dignitosamente, con pochi punti di distacco dai rivali, la situazione dei pentastellati rimarrebbe quella che è: ai limiti di una scissione. Ora essi non possono neppure contare più di tanto sull’appuntamento congressuale dei cosiddetti Stati Generali per comporre le loro diatribe perché il contestato Davide Casaleggio ha un po’ chiuso i rubinetti, per ragioni forse ritorsive di cassa, della sua piattaforma digitale Rousseau. Che è necessaria per queste evenienze: un’altra complicazione nel movimento che in due anni e mezzo di legislatura si è persa per strada una buona metà del proprio elettorato governando prima con i leghisti e poi con il loro opposto: il Pd.

            A questa realtà, che ha indotto Di Battista a proporsi alla guida del movimento per una svolta, il grande suggeritore, protettore e non so cos’altro dei grillini ortodossi Marco Travaglio ha opposto oggi, nell’editoriale del giornale che dirige, questa domanda che voleva essere forse retorica, dalla risposta cioè scontata nel senso da lui voluto: “sono più importanti la Spazzacorrotti, la Bloccaprescrizione, le manette agli evasori, il reddito di cittadinanza, il decreto legge Dignità, il blocco delle trivelle, il taglio dei parlamentari e dei vitalizi, o qualche punto percentuale?”. Beh, comunque si vogliano giudicare le leggi elencate da Travaglio come medaglie al petto dei grillini per la guerra condotta nella presunta fogna politica e sociale strappata in eredità ai predecessori sconfitti nel 2018, mi sembra francamente esagerato, diciamo pure risibile, liquidare come “qualche punto percentuale” la perdita, all’ingrosso, di metà di quel 32 per cento e rotti di voti conquistato due anni e mezzo fa. Sarebbe come dire e scrivere che è “un po’” sprofondata quella casa travolta dalle acque la cui foto molti giornali hanno oggi pubblicato in prima pagina, in alternativa a quelle dei pronti crollati, come emblematica degli effetti del maltempo abbattutosi nelle ultime ventiquattro ore sull’Italia del Nord Ovest.

            Né mi sembra funzionare a favore dello stesso obbiettivo postosi da Travaglio a favore della prosecuzione, anzi del consolidamento dei rapporti col Pd “rispettoso” dei grillini la rappresentazione al passato che egli ne ha proposto per dimostrare quanto esso sia cambiato forse proprio grazie a loro: un Pd -ha raccontato Travaglio- che “prendeva ordini da Re Giorgio o dal Giglio magico, governava con Monti, Berlusconi, Alfano e Verdini, copiava le ricette di Confindustria e delle banche d’affari, tentava di scassare un terzo della Costituzione e affogava negli scandali”, non so se al netto o al lordo delle assoluzioni giudiziarie spesso sopraggiunte alle condanne mediatiche. Non credo che Nicola Zingaretti possa riconoscersi nell’ affresco di Travaglio, che in fondo lo coinvolge con buona parte del gruppo dirigente del Pd pur affrancato, diciamo così, dalla scissione di Matteo Renzi.

 

 

 

 

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La sveglia cordiale del Foglio al segretario del Pd Nicola Zingaretti

            Ora al Foglio di Giuliano Ferrara fondatore e Claudio Cerasa direttore è il turno di Nicola Zingaretti. Sul cui risveglio, dopo un lungo insonnolimento, il quotidiano di quello che Alessandro Di Battista chiama “estabilishment” ha scommesso per l’evoluzione degli equilibri politici. Che sarebbero migliorati rispetto all’anno scorso grazie al ritorno del “truce” Matteo Salvini all’opposizione, ma non per questo del tutto encomiabili o accettabili a causa della natura ancora troppo indefinita e liquida del movimento grillino. Di cui Silvio Berlusconi, considerato sempre “l’amor nostro” dai foglianti di maggiore anzianità di scrittura o lettura, avrà pur esagerato a parlare come di una propaggine nazista ma non si può neppure dire che sia una propaggine liberale. Non a caso Giuliano Ferrara scrive di “grillozzi”, piuttosto che di grillini.

            A svegliare un po’ Zingaretti e/o a dargli qualche carta o occasione in più da giocare all’interno della maggioranza nella quotidiana partita con i grillini -lasciatemi chiamarli ancora così- sono stati secondo Il Foglio i risultati delle elezioni regionali del 20 e 21 settembre. Che avendo limitato alle sole Marche le perdite del Pd, scongiurando quelle delle Puglie ma soprattutto della Toscana, avrebbero salvato il fratello del commissario Montalbano. E dato maggiore spessore a quella che Il Foglio ha definito “la leadership-non leadership” di Zingaretti, capace adesso ancor più di prima di “sapersi adattare alle situazioni che si presentano -ha scritto ieri, in particolare, Cerasa- e trarre il massimo anche dalle condizioni più avverse”. Il Tempo si è spinto ancora più in là facendo di Zingaretti un ragno in prima pagina.

            Ora che i grillini sono ulteriormente dimagrati elettoralmente dopo un anno di governo col Pd, per quanto aiutati a sopravvivere grazie anche all’aiuto di buona parte dei piddini con quel sì referendario alle Camere  sforbiciate, “il dinamismo del poco dinamico Zingaretti” potrebbe o dovrebbe “fare squadra con Renzi”, già cullato a suo tempo dal Foglio come il “royal baby” di Berlusconi, “per allontanare la rotta del governo dalla palude del grillismo”, ha scritto Cerasa. “Caro Renzi, torna nel Pd”, ha pungolato oggi Ferrara in persona, concorrente di Goffredo Bettini alle orecchie piddine e renziane.

            Al Foglio immaginano già il momento in cui sarà possibile “valutare, a un certo punto della storia, se la maggioranza più adatta a guidare la stagione del Recovery fund -ha scritto Cerasa- sia quella che non ha la forza di attivare il Mes, ovvero quella attuale, o sia invece quella che avrebbe la forza di attivare il Mes, ovvero parte di quella attuale con l’aggiunta di Forza Italia, come sognano Gianni Letta e anche Zinga”.

            Vasto programma, direbbe la buonanima di Charles De Gaulle: un programma che mette nel conto, oltre al recupero del Cavaliere ”amor nostro” sottraendolo a Matteo Salvini e a Giorgio Meloni , una scissione dei grillini. Alla quale potrebbe portare un altro “dinamismo”, come lo chiama Cerasa: quello di Alessandro Di Battista. Che ieri sera, sulla rete televisiva 9, per quanto contrastato da Andrea Scanzi, del Fatto Quotidiano, è tornato a prevedere per il movimento 5 Stelle, proseguendo col Pd, la fine dell’Udeur “poltronara” di Clemente Mastella: “estinta in una retata”, secondo la perfida rievocazione sfuggita in prima pagina al giornale di Marco Travaglio, anche a costo di dare in fondo ragione al ribelle Di Battista. Che in ogni caso -ha riferito sempre Il Fatto virgolettandolo- è “pronto all’uscita dal M5S”.   

 

 

 

 

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Come Alessandro Di Battista ha denudato la crisi dei grillini “poltronari”

Per quanto sorpresi dalla sua vocazione, adesso, anche ad insegnare giornalismo dopo l’apprendistato da falegname nel Viterbese, dobbiamo ad Alessandro Di Battista il merito di avere denudato la crisi del suo movimento politico. E di consentirci, ora che ha fatto davvero piazza pulita, in senso non solo televisivo, della coppia con Luigi Di Maio, di capire meglio contorni e contenuti dello scontro in atto fra i grillini, forse anche accelerandone gli sviluppi.

Il poltronificio nel quale egli ritiene che si sia ormai trasformato il movimento 5 Stelle, sino a confondersi con l’estinta Udeur di Clemente Mastella, è un’immagine di per sé indicativa di quello che i suoi amici dovrebbero fare per salvare l’anima: tornare all’opposizione. Vi è ancora troppo estabilishment da abbattere, secondo Di Battista, per pensare di poter convivere con la sua parte più accettabile o redimibile. E per giunta preferendo alla guida cui lui si è proposto una direzione collegiale del movimento.

La rappresentazione ch’egli ha infine fatto dell’Unione Europea, anche di quella della svolta solidaristica avvertita negli ultimi tempi, come di una discoteca dove si è ammessi solo per pagare consumazioni a prezzi altissimi, fa piazza pulita -di nuovo- della presunta uscita del movimento pentastellato dal sovranismo condiviso con la Lega all’epoca della maggioranza gialloverde.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Piazza pulita della coppia grillina Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio

            La piazza pulita della coppia politica Di Battista-Di Maio, in ordine rigorosamente alfabetico, intestatasi dall’omonima trasmissione televisiva di Corrado Formigli con un’intervista dell’ex parlamentare 5 Stelle ha riproposto al ricordo dei cronisti tantissime fotografie di quelli che sembravano i dioscuri grillini. Fra i quali lo stesso Beppe Grillo si era per po’ mostrato indeciso a scegliere il preferito.

            La più significativa foto di quella serie è forse quella scattata tra le impalcature metalliche di una manifestazione estiva del movimento in cui Dibba, come Alessandro Di Battista è chiamato dagli amici, appoggia la sua mano protettiva sulla testa di Di Maio, quando non poteva nemmeno immaginare di doverla poi tagliare, per quanto metaforicamente, per farla rotolare come si divertiva, a suo modo, a ordinare Robespierre. Che però Clemente Mastella, il sindaco di Benevento al quale Di Maio è stato paragonato per amore delle poltrone, ha liquidato nel caso di Di Battista come “Robespierre dei miei stivali”.  Tuttavia va riconosciuto che Mastella è stato ministro del Lavoro del centrodestra di Silvio Berlusconi e poi ministro della Giustizia del secondo governo di cosiddetto centrosinistra di Romano Prodi, come il conterraneo Di Maio è stato vice presidente e pluriministro del governo gialloverde di Giuseppe Conte prima di diventarne ministro degli Esteri nella opposta edizione politica giallorossa.

            Guadagnatosi non a caso la parte satirica della prima pagina del Foglio, dove sono rimasti spiazzati nella generosa o spericolata scommessa della capacità evolutiva di quelli che il fondatore del giornale Giuliano Ferrara chiamava una volta “grillozzi”, Di Battista ha avuto il merito, col suo affondo contro Di Maio, pur non facendone peraltro il nome ma solo quello della sua  Udeur, di mettere davvero a nudo la situazione del movimento attorno al quale da più di due anni e mezzo ruotano -ahimè- gli equilibri o squilibri politici, come sarebbe meglio definirli, del Parlamento e del Paese. Dove si vorrebbe estendere a livello locale la formula centrale di governo.

             Non si tratta solo di faide personali, per quanto vi abbiano il loro peso, per carità. Il movimento grillino è diviso fra la voglia di diventare un partito di governo davvero, sia pure con la massima disinvoltura possibile, passando inopinatamente da un alleato all’altro, secondo le convenienze del momento, e quella di rimanere un movimento di opposizione, paradossalmente anche quando gli capita di stare al governo, o addirittura di condurlo, come sta accadendo da più di due anni e mezzo con Giuseppe Conte. Che, per quanti sforzi faccia di darsi una sua fisionomia, è un grillino emerito, diciamo così, non a caso designato a Palazzo Chigi dai pentastellati, promosso presidente del Consiglio da semplice ministro della funzione pubblica -l’ennesimo ministro della riforma burocratica- quale risultava nella “lista” dell’eventuale governo monocolore depositata prima delle elezioni del 2018 al Quirinale nelle mani del Segretario Generale-

             Allora il capo dello Stato si sottrasse giustamente ad una così inusuale incombenza. Che avrebbe potuto tradursi solo in un aiuto ulteriore d’immagine al movimento 5 Stelle, dopo quello involontariamente fornitogli negando poco più di un anno prima all’ormai ex presidente del Consiglio ma ancora segretario del Pd Matteo Renzi lo scioglimento anticipato delle Camere per effetto della bocciatura referendaria della riforma costituzionale, diventatane l’unica finalità.

 

 

 

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Il convitato di pietra degli incontri italiani di Mike Pompeo è Beppe Grillo

            Al netto, molto al netto delle buone parole spese dal segretario di Stato americano Mike Pompeo dopo gli incontri col presidente del Consiglio Giuseppe Conte e col ministro degli Esteri, e di quelle pronunciate da costoro sulla grande, solida e quant’altro amicizia con l’alleato “storico” d’oltre Oceano, è facile immaginare la realtà molto diversa  avvertita dall’ospite statunitense a Roma, peraltro di origini italiane.

            Mike Pompeo, secondo Il Fatto Quotidiano impegnato solo in una missione elettorale sulle due sponde del Tevere per aiutare Donald Trump a vincere anche la seconda corsa alla Casa Bianca, è venuto a reclamare più prudenza, quanto meno, nei rapporti con la Cina sulla cosiddetta via della Seta, e dintorni o connessi. Egli tuttavia conosce bene le condizioni di ambiguità in cui si trova su questo versante il governo italiano, tollerate d’altronde da Trump in persona con quel “Giuseppi” dato amichevolmente a Conte in una circostanza molto utile al presidente del Consiglio, mentre rischiava l’anno scorso di perdere Palazzo Chigi nel cambio di maggioranza dopo la rottura con Matteo Salvini.  

            I rappresentanti diplomatici degli Stati Uniti in Italia avranno sicuramente fornito al loro governo notizie più particolareggiate di quelle dei giornali italiani sull’abitudine che ha il fondatore, garante, elevato e quant’altro del maggiore movimento di governo, il comico di professione Beppe Grillo, di andare a colloquio e a colazione con l’ambasciatore di Pechino ogni volta che scende a Roma dalla  Liguria per cercare di mettere ordine nel suo quasi partito, peraltro senza mai riuscirvi. Risalgono quanto meno al 2013 questi rapporti di Grillo, quando c’era ancora Gianroberto Casaleggio, che lo accompagnava personalmente nelle visite all’ambasciata cinese in Italia.   

            E’ difficile pensare che uno come Grillo, ora tra i soci -e che socio- della maggioranza di governo, ben reputabile come un convitato di pietra di tutti i vertici e sottovertici giallorossi, vada a trovare l’ambasciatore Li Junhua per raccontargli barzellette e battute dei suoi spettacoli sospesi o diradati dalle misure più o memo di sicurezza imposte dall’epidemia virale, d’importazione proprio cinese. Ed è difficile pensare che un racconto del genere sia potuto risultare credibile al Segretario di Stato americano se qualcuno ha avuto la disinvoltura di farglielo, tra la Farnesina e Palazzo Chigi.

 

 

 

 

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