Al netto delle polemiche sulla foto del settimanale Oggi che lo ritrae in tutt’altre faccende affaccendato, in acqua con la sua fidanzata, Luigi Di Maio ce la sta mettendo tutta nella campagna referendaria sui tagli ai seggi parlamentari per riprendersi davvero il ruolo di capo del movimento grillino, dopo la rinuncia all’incarico e alla cravatta a favore di Vito Crimi. Fra gli argomenti che va usando c’è quello secondo cui, dopo il fallimento di tutti i tentativi precedenti di far dimagrire le Camere, un no adesso seppellirebbe la questione. Non se ne parlerebbe più perché mai più i grillini -ha evitato di spiegare il ministro degli Esteri- avrebbero in Parlamento, per riprovarci, la forza di cui hanno disposto e dispongono in questa legislatura a dir poco anomala.
Un altro argomento cui ricorre Di Maio è la deplorazione dell’antigrillismo pregiudiziale dei no ai tagli, come se i grillini non avessero contestato altre riforme costituzionali per
avversione persino fisica, con
insulti veri e propri ai loro promotori. Mi riferisco naturalmente alla partecipazione pentastellata alla campagna referendaria del no nel 2016 alla riforma costituzionale varata dal governo e dalla maggioranza di Matteo Renzi. Che pure, oltre a un taglio di seggi parlamentari, prevedeva molte altre cose di cui si è ritoccata con mano la necessità nella pandemia virale: la revisione, per esempio, dei rapporti fra Stato e regioni dopo il riconoscimento generale, anche dei loro promotori, della riforma del titolo quinto della Costituzione improvvisata dal centrosinistra ulivista nel 2001. Essa era stata allora concepita al solo scopo, peraltro fallito, di strappare Umberto Bossi alla tentazione di rimettersi con Silvio Berlusconi dopo la rottura di fine 1994.
Di Maio ha cercato recentemente di far credere che il no grillino alla riforma costituzionale targata Renzi, tesa anche a diversificare competenze e ruoli delle due Camere, fosse stato motivato quattro anni fa dalla volontà di difendere il bicameralismo paritario o “perfetto”. Ma questa è solo tattica, nella illusione di poter nobilitare il carattere esclusivo e anti-castale del taglio grillino dei seggi parlamentari. Che da solo basterebbe ed avanzerebbe per rivitalizzare un Parlamento dequalificatosi solo per il suo carattere pletorico, non per il cattivo funzionamento determinato anche dalle competenze ripetitive delle due Camere. E’ risibile pensare che qualcuno davvero creda a questa rappresentazione.
Se c’è dell’antigrillismo, come onestamente in parte più o meno consistente c’è nella campagna del no, esso è pari -ripeto- all’antirenzismo che motivò moltissimo il no dei pentastellati nel 2016, anche a costo di ritrovarsi in compagnia del già allora odiatissimo Silvio Berlusconi. Così come l’antiberlusconismo aveva motivato nel 2001 il no del centrosinistra ulivista alla riforma costituzionale del centrodestra, anch’essa organica come quella successiva di Renzi: tanto organica da essere definita “federalista”.
Lo stesso Berlusconi, d’altronde, quattro
anni fa concorse al no alla riforma di Renzi, dopo averla assecondata per buona parte del tragitto parlamentare, solo perché egli aveva rotto nel frattempo col presidente del Consiglio sulla scelta del successore di Giorgio Napolitano al Quirinale.
Le riforme costituzionali risentono inevitabilmente del clima politico in cui maturano. Estranearle dal contesto è illusorio, o ingenuo.
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
momento e nella logica andreottiana del “tirare a campare per non tirare le cuoia”, il vecchio fondatore Eugenio Scalfari ha contrapposto un giudizio indulgente, “sostanzialmente positivo” su Conte. Che, non avendo alle spalle “un partito del quale sia il principale esponente”, data la condizione quanto meno caotica del movimento grillino che lo ha portato a Palazzo Chigi, si trova spesso in “gravi difficoltà”. Dalle quali si difende come può guidando così un “governo discreto”. Ce ne sono stati sì di “migliori” nella
storia “moderna” d’Italia “ma soprattutto di peggiori”, come si dovrebbe continuare a insegnare nelle scuole, se riusciranno davvero a riaprire nei tempi promessi dalla ministra competente Lucia Azzolina. Che -sia detto per inciso- a vederla e sentirla nei salotti televisivi mi fa pensare più a una imitatrice che alla ministra vera, autentica della Pubblica Istruzione.
quelli che si stampano in Italia: Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. Che, ancora entusiasta delle forbici e delle sagome
delle poltrone da tagliare esposte davanti a Montecitorio dai pentastellati dopo l’approvazione della loro riforma, ha liquidato le Camere attuali come un Parlamento dove “un terzo è di troppo”, composto da “assenti, peones e fannulloni”. A chi, come Romano Prodi, si è schierato per il no al referendum Travaglio ha prescritto addirittura la Tac.
in cui si voterà fra meno di un mese. Il “governatore” uscente e piddino Vincenzo De Luca nel sondaggio appena effettuato da Ipsos per il Corriere ha ben 21 punti di vantaggio sul candidato del centrodestra Stefano Caldoro e più di 34 sulla candidata grillina Valeria Ciarambino. Che non potrà certo sperare in chissà quale aiuto da visite, telefonate, incontri e persino qualche comizio promessole dal corregionale ministro degli Esteri
Luigi Di Maio, pubblicamente impegnatosi a sostenere le donne e gli uomini del suo movimento che corrono da soli, pur essendosi anche lui convertito negli ultimi tempi alle nuove simpatie per il Pd coltivate da Beppe Grillo in persona. Che cominciò la sua avventura politica -non dimentichiamolo- 11 anni fa in terra sarda iscrivendosi alla sezione del Pd di Arzachena, nel cui territorio il comico genovese ha una casa di vacanza. Vi si iscrisse puntando dichiaratamente a concorrere alle primarie per la successione al dimissionario Walter Veltroni dalla carica di segretario.
a Bologna un comizio per “vaffanculare” -parola sua- il Pd e tutti gli altri partiti e seminare in piazza un suo movimento. Col quale adesso Zingaretti, dopo avere fatto un accordo di emergenza l’anno scorso per evitare elezioni anticipate a sicura vittoria del centrodestra a forte trazione leghista, vorrebbe farne altri non più di emergenza e forzati, ma ordinari, di prospettiva nazionale e periferica.
Sera, dalla sua “prorompente personalità”, in edizione originaria e in versione imitata da Maurizio Crozza in televisione, ma anche dalla sua dichiarata, netta contrarietà alla linea politica di Zingaretti. Che lui ha sfidato a sottoporre ad una verifica congressuale dopo l’imminente turno elettorale di settembre, e prima di quello dell’anno prossimo riguardante un bel po’ di Comuni italiani importanti, fra i quali Napoli.
dovrebbe invitare il comandante dei vigili urbani della sua Benevento a fargli notificare una multa di 400 euro, giusto per essere seri ed equanimi. Non credo proprio che i due fiancheggiatori del sindaco ripresi nella foto siano suoi congiunti, nelle varie accezioni dei decreti del signor presidente del Consiglio dei Ministri, fortunatamente fermatesi sulla soglia dei congiuntivi.
e unanimemente apprezzata presidente della Camera, presidente di una delle commissioni bicamerali impegnatesi in una riforma non occasionale ma organica della Costituzione dopo decenni di applicazione rivelatori anche dei difetti, e non solo dei pregi, proprio insediandosi al vertice di Montecitorio nel 1979 sorprese anche il suo partito, un po’ troppo conservatore nel campo istituzionale, parlando del numero eccessivo dei parlamentari italiani. Ma lo fece senza sbandierare sagome e forbici, come avrebbe fatto dopo molti anni davanti al portone di Montecitorio Di Maio. Lo fece parlando nel contesto di una riforma ben più ampia della Costituzione e del Parlamento denunciando i danni sperimentati dalla sovrapposizione e ripetitività di due Camere aventi le stesse funzioni.
dall’articolo 72 della Costituzione, le inefficienze di una classe politica frammentata”. Che pertanto diventerebbe d’incanto efficiente e non frammentata disponendo di 600 seggi parlamentari elettivi anziché 945: elettivi, poi, per modo di dire perché, abolita anche la preferenza unica voluta dagli elettori nel referendum del 1991 contro le preferenze plurime, e bloccando ormai a doppia mandata le liste dei candidati, i seggi sono in realtà nella disponibilità delle segreterie dei partiti o dei movimenti, come preferiscono chiamarsi quelli che si sentono più dotati e innovativi. E, ridotti, sarebbero ancora più controllabili e disciplinati.
improvvisazioni, della nostra pazienza, come chiese ai suoi tempi Marco Tullio Cicerone a Lucio Sergio Catilina. Intanto essi incassano il no referendario ai tagli parlamentari anche di Romano Prodi: un falso “voltagabbana”, per stare al linguaggio del Fatto, non avendo egli votato la sforbiciata nel Parlamento di cui non fa parte.
loro risparmiato di “morire da sovranisti”, impedendo l’anno scorso le elezioni anticipate a sicura vittoria del centrodestra a trazione leghista, ora è impegnato di giorno e di notte a non condannarli a “vivere da grillini”. Con i quali, smettendo all’improvviso di mangiare
le riserve di pop-corn acquistati dopo la batosta elettorale del 2018 per godersi lo spettacolo della loro partita con Matteo Salvini, spinse l’anno scorso il Pd di cui faceva ancora parte ad allearsi al governo appunto per evitare le elezioni anticipate e il ricorso alle urne. Cui diversamente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, anche a costo di strappare con qualche consigliere, non avrebbe potuto sottrarsi, salvo forse guadagnare qualche altro mese con un governo tecnico, o giù di lì, magari affidato a Carlo Cottarelli, essendo ancora Mario Draghi impegnato al vertice della Banca Centrale Europea, per allestire o improvvisare la legge di bilancio imposta dalle scadenze costituzionali e dalla paura dei mercati finanziari.
Grillo, rimasto a corto di spettacoli anche per la paura dei contagi virali; per quanto insomma malmessi, i pentastellati conducono il gioco in Italia. Hanno imposto le loro “riforme”, prima a Salvini e poi al Pd, dalla prescrizione breve al taglio di 345 seggi parlamentari su 945 elettivi, e non hanno permesso nessuna delle misure compensative concordate: dalla riforma del processo penale, per renderne certi i tempi ed evitare che un imputato resti tale a vita, anche dopo essere stato paradossalmente assolto in primo grado, a quella dei regolamenti parlamentari, della legge elettorale e delle maggioranze qualificate per le cariche di garanzia, a cominciare da quella per la scelta del capo dello Stato.
autorevole senatore piddino come Luigi Zanda, già capogruppo a Palazzo Madama e tesoriere del partito, di votare per il No, come ha già annunciato di essere “orientato” a fare, senza con questo violare una indicazione o direttiva di partito. “Non l’ho mai fatto”, ha spiegato Zanda ottenendo subito da Zingaretti la pratica autorizzazione a farlo per la cornice ambigua -ripeto- della posizione da indicare alla direzione, visti gli adempimenti
Giuseppe De Tommaso ha felicemente definito sulla Gazzetta del Mezzogiorno “il fascino indiscreto del no”, ignori il principale vulnus politico e istituzionale di questa riforma fortemente voluta dai grillini. Che in Parlamento l’hanno imposta prima ai leghisti e poi, nel cambio della maggioranza di governo, al Pd che aveva votato contro nei primi tre dei quattro passaggi necessari fra Camera e Senato.
preventivamente da Mattarella la disponibilità a farsi rieleggere con l’impegno di dimettersi alla nascita del nuovo Parlamento, l’anno dopo, perché possa essere il nuovo a scegliere il successore. Ma neppure ci provano a questo passaggio i disinvolti grillini, decisi con i voti di cui dispongono oggi a Montecitorio e a Palazzo Madana ad eleggere un presidente alla cui scelta potrebbero contribuire ben più modestamente dopo le prossime elezioni, quando essi sono i primi a sapere di non poter tornare con le generose percentuali del 2018.
salvarsi l’anima col rifiuto
delle motivazioni della riforma addotte dai grillini. Egli infatti “odia” addirittura “il taglio” vantato dai pentastellati e trova “fasulla” la ragione del “risparmio” perché giustamente “non si risparmia sulle istituzioni”. In un certo senso il fronte fascinoso del no dovrebbe essere grato a Onida per gli ottimi argomenti che gli ha fornito dal fronte del sì parlandone a Repubblica.