Nonostante l’autorizzazione a procedere appena concessa dal Senato con 149 voti contro 141, non si può ancora dare per certo un processo all’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini per
la vicenda della nave spagnola “Open Arms”. Dove circa 150 migranti, soccorsi a più riprese in mare, furono trattenuti a bordo in agosto di un anno fa per una ventina di giorni in acque italiane, con divieto di approdo e di sbarco.
Esaurite le procedure del cosiddetto tribunale dei ministri, intervenuto nella fase preliminare delle indagini per la tutela prevista dalla Costituzione quando finiscono sotto inchiesta azioni appunto di un ministro, la magistratura ordinaria di Palermo potrebbe in teoria – molta teoria, direte- non ravvisare gli estremi per rinviare a giudizio il leader della Lega, accogliendone gli argomenti a difesa respinti invece col loro voto dalla maggioranza dei senatori.
Se però si dovesse arrivare al processo, non so francamente chi avrebbe più motivo di temerlo o sul piano giudiziario o sul piano politico, o su entrambi. Su entrambi, oltre a Salvini, potrebbe avere qualche timore il presidente del Consiglio. Che d’altronde l’ex ministro si è già proposto di trascinare in giudizio contestandone la pretesa estraneità alla gestione di quella vicenda sviluppatasi in coincidenza con la crisi e dissoluzione della maggioranza gialloverde.
Agli atti risulta solo una lettera a Salvini in cui Conte gli intimava di fare sbarcare i minorenni, scesi poi effettivamente dalla nave. Per il resto dei migranti che vi erano bloccati il presidente del Consiglio informò il ministro dell’Interno dei contatti in corso a livello europeo per una loro distribuzione, conformemente
ad altre vicende analoghe, a cominciare da quella relativa alla nave “Diciotti” della Guardia Costiera nel 2018. Che finì anch’essa sotto le lenti della magistratura con una richiesta di autorizzazione negata però dall’allora maggioranza gialloverde, pur tra i mal di pancia dei grillini superati con una consultazione digitale dei militanti e iscritti alla piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio. Essi riconobbero che lo sbarco dei migranti era stato “ritardato” per giusti motivi, non impedito.
Sul piano politico chi rischia di pagare di più un eventuale processo a Salvini per l’affare “Open Arms” è Matteo Renzi, che francamente esce dal passaggio parlamentare come
peggio non poteva guadagnandosi -una volta tanto- il plauso del Fatto Quotidiano per avere colpito il “pugile suonato” della Lega. I voti renziani sono stati determinanti sia
quando sono mancati in giunta facendo bocciare la richiesta della magistratura sia quando sono arrivati in aula a favore dell’autorizzazione contro il “capitano di sventura”, secondo la definizione del Manifesto.
I voti renziani stati annunciati e motivati da Renzi in persona, che non ha ravvisato nella gestione di quell’affare l’”interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” né “il perseguimento
di un preminente interesse pubblico” richiesti da un’apposita legge costituzionale per sollevare un ministro nell’esercizio delle sue funzioni dalle responsabilità penali e sottrarlo a un processo. Ma è anacronistico, a dir poco, non vedere un interesse superiore o rilevante della collettività nazionale nella distribuzione dei migranti fra i diversi paesi d’Europa, di cui i nostri porti hanno l’’inconveniente di essere la frontiera meridionale.
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
del Senato che in quella veste qualche anno fa negò -per esempio- la concessione di una sala di Palazzo Madama, o dell’attiguo Palazzo Giustiniani, alla presentazione di un libro contenente le lettere inviate dal compianto Enzo Tortora alla sua compagna durante la detenzione per presunto spaccio di droga e associazione camorristica. Eppure quella del celebre conduttore televisivo, e poi parlamentare del partito radicale di Marco Pannella, è la storia emblematica di una giustizia amministrata nel peggiore dei modi, inseguendo e coltivando pentiti inattendibili e premiando nelle carriere magistrati rivelatisi così chiaramente e scandalosamente non all’altezza dei loro compiti, giustamente sconfessati alla fine della lunga vicenda processuale costata comunque a Tortora la salute.
Palazzo Madama per cercare di mandare sotto processo l’ex ministro dell’Interno e tuttora leader leghista Matteo Salvini per sequestro di persona nella vicenda della nave “Open Arms”. Dalla quale il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si limitò l’anno scorso, durante la crisi di governo, ad ordinare lo sbarco dei minori, consentendo quindi il trattenimento a bordo degli altri, in attesa di una loro distribuzione fra più paesi europei, e tuttavia negando a Salvini la copertura del governo nella diatriba giudiziaria che ne è derivata.
soprattutto della presidente di turno dell’Unione e cancelliera tedesca Angela Merkel, la presidente del Senato rinfrescò moniti e memoria con una intervista al Messaggero. Il cui titolo, proiettato sui passaggi successivi a quel vertice, compreso quello relativo alla proroga dello stato di emergenza, non poteva essere più netto e chiaro: “Il premier non faccia da solo. L’ultima parola è delle Camere”.
seguire una votazione, giusto per chiarire il cambiamento di musica. Il punto fu successivamente ribadito con una intervista al Messaggero di monito a Conte a “non fare da solo” perché “l’ultima parola è delle Camere”.
anche di telefonata di Matteo Salvini al presidente della Repubblica in persona, il governo si è dovuto accontentare di soli 157 voti e registrare il no di un altro dissidente grillino. I 157 “sì” sono stati sufficienti per far passare la mozione sulla proroga dell’emergenza virale con annessi e connessi – stavolta tuttavia non col via libera ai soliti decreti del presidente del Consiglio dei Ministri caduti come pioggia nei mesi scorsi direttamente sui cittadini, saltando le Camere- ma non lo sarebbero per l’approvazione del nuovo sforamento di bilancio per altri 25 miliardi appena proposto dal governo. Occorrono per questo almeno 160 voti, pari alla maggioranza assoluta.
di piazza e dimissioni di ministri, preparò il centro-sinistra, col trattino, guadagnandosi l’astensione dei socialisti. I quali sarebbero entrati in modo “organico” nella maggioranza e nel governo con Aldo Moro solo nell’autunno del 1963.
della campagna elettorale del 2018: il Pd non più di Renzi ma di Nicola Zingaretti, spinto tuttavia a quell’accordo dallo stesso Renzi. Che si era stancato di mangiare pop-corn sui banchi dell’opposizione, o si era spaventato -disse- per uno scenario di elezioni anticipate dominato da una Lega già ben oltre il 34 per cento dei voti guadagnato nel rinnovo del Parlamento europeo.
di Luigi Di Maio alla carica di “capo” e la sua rimozione dalla guida della “delegazione” al governo, gli “Stati Generali” pentastellati sono stati rinviati all’autunno prossimo col pretesto dell’epidemia virale: pretesto, perché nel Movimento delle 5 Stelle confronti e decisioni sono digitali, per cui potrebbero bastare e avanzare i computer, fortunatamente immuni da coronavirus. Ma già la scadenza autunnale, coincidendo peraltro con le elezioni regionali e comunali, e il referendum confermativo della riduzione del numero dei seggi parlamentari, è stata messa in discussione. E sembra destinata a un rinvio.
a suo tempo, e la maggioranza di governo che rinvia a settembre un numero crescente di appuntamenti col Parlamento, stremata dalle prove cui non ha potuto proprio sottrarsi in questa fine di luglio per rinviare al 15 ottobre la imminente scadenza dello stato di emergenza virale e per sforare subito di altri 25 miliardi di euro il deficit di bilancio.
considerare pure questa un’incombenza della maggioranza, per quanto rivendicata da quella attuale, dovendo essa considerarsi invece estranea. Tutti dovrebbero essere considerati liberi, in passaggi del genere, da vincoli di gruppo o di partito. Invece i renziani, tentati già nella competente giunta dalla pur ovvia libertà di coscienza, sono oggi guardati a vista come possibili traditori dai loro alleati nella coalizione giallorossa.
di Massimo Franco. La cui coda è stata la più velenosa di tutti i passaggi precedenti perché ha colto, diciamo così, in flagranza di contraddizione il presidente del Consiglio in persona, talmente “narciso della popolarità” guadagnatasi nella gestione dell’emergenza virale, nel vertice europeo di Bruxelles e nei sondaggi da non volerla mettere alla prova con decisioni che potrebbero comprometterla. Ma non è per niente detto che proprio i rinvii alla fine la compromettano in modo irreparabile col classico incidente di percorso. Il mitico generale Agosto, che una volta tutto preveniva e risolveva, si fece già sorprendere l’anno scorso con l’esplosione della maggioranza gialloverde.
trasmissione televisiva della Rai e poi della Procura di Milano. Disgraziatamente, non so francamente se più per Fontana, per il suo partito, per gli inquirenti e per i giornalisti arrivati prima di loro sulla polpetta, chiamiamola così, gli sviluppi dell’indagine sono esplosi in questa fine di luglio col coinvolgimento diretto del “governatore”. Le virgolette sono d’obbligo perché i costituzionalisti storcono il muso quando si chiama così, all’americana, il presidente di una giunta regionale in uno Stato che non è federale come la Repubblica d’oltre Oceano.
torrida estate politica, contro la cosiddetta “giustizia ad orologeria”. La cui campana batte i colpi in coincidenza con una crisi, o minaccia di crisi, o una formazione di governo, o una campagna elettorale. Il direttore del Fatto Quotidiano ha sfidato, diciamo così, Salvini a “spiegare quali sarebbero gli eventi elettorali influenzati dall’indagine” su Fontana, “visto che siamo a fine luglio”, appunto.
grillini, dando dei “MEStatori” ai sostenitori del credito europeo di circa 37 miliardi di euro immediatamente disponibili -ripeto- per il boccheggiante sistema sanitario italiano.
un Conte più indeciso che
deciso a tutto dietro il paravento della “task force” annunciata per la gestione dei crediti europei di là da venire. Che in ogni caso -ha ricordato la presidente del Senato in una intervista
al Messaggero– non potrà togliere “l’ultima parole alle Camere”. Lo stesso Eugenio Scalfari, d’altronde, nel suo consueto appuntamento festivo con i lettori ha scritto un po’
troppo acrobaticamente di una debolezza di Conte che sarebbe anche la sua forza. Ma forza di che?, mi chiedo leggendo l’editoriale in cui vengono associati all’”autocontraddittorietà” del presidente del Consiglio “molti suoi ministri e quasi tutti i partiti che giocano sul tabellone italo-europeo”: un tabellone un po’ di cartapesta.
dopo avere verificato in tutti i sondaggi di essere col suo nuovo partito sotto quella soglia, egli non riconosce più questa urgenza e ha stoppato alla Camera, dove pure i suoi voti non sono decisivi per la tenuta della maggioranza, il tentativo del Pd di portare in aula e approvare entro l’estate la riforma elettorale, almeno nel suo primo passaggio parlamentare. L’urgenza spetterebbe a ben altro, con la sopraggiunta emergenza virale e l’uso dei soccorsi finanziari europei, sia pure non immediati.
Stampa, l’uomo considerato più vicino
a Zingaretti, che è Goffredo Bettini, convinto che Conte “guiderà l’Italia sino alla fine della legislatura”. Peccato, per Conte, che Bettini abbia dimenticato, diciamo così, di aggiungere l’aggettivo “ordinaria” alla fine di questa legislatura. Che pertanto potrebbe anche avere un epilogo anticipato.
dell’Economia Roberto Gualtieri, del Pd, ha indicato come necessario per “ragioni di cassa” anche ai fini dello sforamento al bilancio per 25 miliardi appena proposto dal governo alle Camere. E che al Senato non potrà materialmente passare senza l’appoggio almeno della componente berlusconiana dell’opposizione di centrodestra. Il Pd insomma continua a rivolgere ai 37 miliardi del Mes, acronimo del meccanismo europeo di stabilità, quell’”attenzione morbosa” lamentata da un Conte che ha paura di scontrarsi col movimento grazie al quale si trova a Palazzo Chigi.
l’anno scorso proprio dai grillini, e proprio al Parlamento europeo, partecipando alla maggioranza formatasi attorno alla nuova presidente della Commissione di Bruxelles, la tedesca Ursula von der Leyen. Che, dal canto suo, si è fatta appena sentire con una intervista nella quale ha ammonito che “ora tocca all’Italia” saper usare la “solidarietà” finanziaria ottenuta dall’Unione, anche col prestito per il sistema sanitario.
volta che gli europarlamentari grillini si sono ritrovati con i leghisti fuori o contro la “maggioranza Ursula”, come usa chiamarla l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, contento peraltro di potervi includere Berlusconi anche per le prospettive romane.
nell’aula di Montecitorio né il 27 luglio né il 4 agosto, quando avrebbe voluto il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Al quale rimane solo la soddisfazione di un bel titolo in rosso del Foglio a sostegno generoso e forse un pò intempestivo della sua “miracolosa” leadership.