L’imprevisto passaggio di Luca Palamara dalle forbici al rasoio…

             Di Luca Palamara nel salotto televisivo di Massimo Giletti, in orario non protetto per la buona abitudine dei genitori di mandare in tempo a letto i bambini, mi sono rimaste impresse due cose resistendo più volte al sonno per l’ora non po’ troppo avanzata anche per la mia ormai tarda età. Una è la barba che si è tagliata il magistrato sotto indagine a Perugia, l’altra l’uso ch’egli fa del rasoio anche fuori dal bagno, ora che ha sostituito le forbici, per parlare di chi lo tiene sotto tiro, fra la Procura di Perugia, il Consiglio Superiore del Palazzo dei Marescialli e i  giornali.

            Senza barba l’uomo è diventato più vicino alla sua effettiva età -51 anni compiuti- di quanto apparisse prima, quando forse quella massa compatta di nerume contribuiva ad aumentare anche Palamara ieriil peso che si era procurato fra Palamara oggile toghe, ma pure all’esterno, da domino delle loro carriere. La porta del suo ufficio, prima di presidente dell’associazione nazionale dei magistrati e poi di consigliere superiore nel Palazzo dei Marescialli, era diventata per sua stessa ammissione il terminale di una fila di aspiranti, o questuanti. Che vedevano in lui più il dominus -ripeto- che il “mediatore” fra correnti e quant’altro, com’egli stesso ha voluto modestamente rappresentarsi in televisione

            Di solito il ricorso alla barba o la sua rimozione, quando la si è tenuta a lungo, denota stanchezza o fastidio, e voglia di cambiare davvero pagina nella propria vita. Lo dico anche per esperienza personale, avendo fatto ricorso alla barba dopo una troppo faticosa esperienza professionale, che mi aveva procurato più amarezze che soddisfazioni, come se avessi fatto con troppo ritardo il servizio militare che mi ero risparmiato all’età giusta per un’esenzione da occhiali: gli stessi che, sempre in gioventù, mi avevano precluso un’assunzione alla Rai -pensate un po’- guadagnatami con tanto di concorso. Poi quella barba me la tagliai sentendomi peggio di prima.

            Non so se, a parti rovesciate, farà così anche Palamara. Di cui non so neppure se riuscirà a rimanere in magistratura, o dovrà cambiare mestiere. So però che il rasoio al quale è tornato l’ha usato -nel salotto di Giletti, che non è l’arena, come dice il titolo della trasmissione, ma molto vi assomiglia-  è passato un po’ pesante sul volto dei magistrati che, indagandolo per corruzione, prima gli hanno infilato nel telefonino quel maledetto “trojan”, trasformandolo in una specie di ordigno nucleare, o in una spia in servizio permanente effettivo, e poi ne hanno diffuso il materiale col ventilatore di ciò che una volta, parlando della politica, il mio caro amico Rino Formica definì impietosamente “sangue e merda”.

            Di fronte allo spettacolo prodotto dalla diffusione di questo materiale, altamente  nocivo anche per noi giornalisti, spesso risultati più spalle che cronisti o osservatori dei magistrati in carriera, anzi in carrierismo, Palamara ha promesso a Giletti, ai telespettatori e ai suoi ancora colleghi in toga, ma forse anche ai politici affrettatisi a farne il solito uso improprio, oltre che proprio, che non si farà trasformare in “capo espiatorio”. Ma così Palamara si è forse assegnato il compito più difficile davvero della sua vita: un compito da far tremare le vene ai polsi. Vasto programma, avrebbe detto la buonanima del generale Charles De Gaulle.

 

 

 

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Matteo Renzi gioca adesso a scacchi, non a carte, con la politica

             Credo che ci sia ben poco da leggere della “Mossa del cavallo” di Matteo Renzi in arrivo nelle librerie, viste le tante anticipazioni affidate ai giornali dell’ultima domenica di maggio. Che le hanno pubblicate anche con evidenza: qualcuno con malanimo, come La Verità di Maurizio Belpietro. Che ne ha affidato a Daniele Capezzone una stroncatura.. radicale Libro di Renzicome il passato del recensore.

             A Belpietro è rimasto forse indigesto il ruolo a torto o a ragione attribuito a Renzi nel suo brusco allontanamento dalla direzione di Libero, un altro quotidiano dell’area di centrodestra, in occasione dell’allora incipiente campagna referendaria del 2016  sulla riforma costituzionale. Ai cui contenuti Belpietro era contrario, diversamente dall’editore Antonio Angelucci ben disposto, nonostante la contrarietà annunciata dal suo partito, Forza Italia. Che pure all’avvio, quanto meno, di quella riforma aveva contribuito con il cosiddetto “patto del Nazareno”, naufragato nel 2015 per l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, non concordata dall’allora presidente del Consiglio con Silvio Berlusconi, tifoso invece di Giuliano Amato.

              Sembra preistoria politica, nonostante siano trascorsi solo 5 anni, mica i 26 dalla nascita della cosiddetta seconda Repubblica dopo il crollo della prima con l’esplosivo metaforico delle indagini giudiziarie sul finanziamento illegale e generalizzato di partiti, correnti, leader, leaderini e aspiranti, spesso -ma non sempre, come ritenuto dalle Procure- con la coda della corruzione.

              Renzi dalle anticipazioni del suo libro mi sembra ossessionato dai sondaggi, convinto che essi non siano “il vaccino” di cui ha bisogno “il populismo”, oltre al coronavirus che ci ha spinto verso una recessione spaventosa. “I sondaggi ti dicono quanto sei simpatico, i dati Istat quanto sei capace”, ha scritto l’ex segretario del Pd e ora leader di Italia Viva accingendosi -temo- ad attribuire all’attuale governo, pur partecipandovi con una “delegazione”, come si dice in gergo tecnico, anche quella parte di responsabilità che non ha nell’arrivo dello tsumani economico da tutti previsto. E anche dei “forconi” evocati, sempre nella maggioranza, da quel centrista e democristiano per definizione che è l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini. Il quale è tornato al Senato due anni fa non a caso come ospite, nella sua Bologna, delle liste del Pd ancora guidato da Renzi.

              Capisco bene l’insofferenza, quanto meno, del senatore di Scandicci, come lo stesso Renzi preferisce ogni tanto chiamarsi con falsa modestia, per i sondaggi. Che non sono molto generosi con la sua Italia Viva, appena valutata da Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera attorno al 3 per cento delle “intenzioni di voto”, contro il 4,8 assegnatole nell’autunno scorso, quando il nuovo partito nacque portandosi appresso un bel po’ di deputati e senatori del Pd: sufficienti, questi ultimi, a risultare decisivi a Palazzo Madama per la tenuta della maggioranza giallorossa voluta proprio da Renzi per impedire le elezioni anticipate e l’allora scontata vittoria dell’”altro Matteo”, come un po’ tutti ormai chiamiamo Salvini. E quelli di Pagnoncelli sono i sondaggi migliori per Renzi, perché ce ne sono altri -nei quali Marco Travaglio intinge i biscotti facendo colazione alla scrivania di direttore del Fatto Quotidiano- che fanno vagare Renzi fra l’1 e il 2 per cento.

             Chi di sondaggi ferisce di sondaggi perisce, viene voglia di dire pensando a quando e quanto piacevano a Renzi nella postazione di Palazzo Chigi. Il vento allora sembrò soffiare forte per un pò sulle sue vele, sino a far volare le carte alle quali egli giocava, invece degli scacchi.

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