La palude degli Stati Generali che attende il presidente del Consiglio

            Più di due secoli non sono passati invano. Gli Stati Generali dei quali si è innamorato Conte non gli  costeranno la testa, ghigliottinata invece al povero Luigi XVI. Ma il trono non so francamente se riuscirà a conservarlo il presidente del Consiglio al termine del lungo percorso che ha avviato e  si protrarrà in altro modo ben oltre i 10 giorni programmati.

            Non ci scommetterei più di tanto, nonostante le opposizioni di centrodestra stiano messe forse anche peggio della maggioranza giallorossa: fra Silvio Berlusconi che dice una cosa e magari ne pensa un’altra, e ne fa dire un’altra ancora al collaboratore o maggiordomo di turno, a giorni e persino ore alternate. Nè dei suoi ancora formali alleati spesso si riesce francamente a capire perché continuino ogni tanto a incontrarsi e a presentarsi insieme, con o senza le loro mascherine d’ordinanza, davanti alle telecamere.

            Il fatto è che all’interno della coalizione giallorossa -o giallorosa, come preferiscono vederla e rappresentarla altri- è peggiorato non tanto il rapporto di Conte con i grillini, col cui “travaglio” egli si è in qualche maniera abituato da quando è cominciato con la scoppola delle elezioni europee dell’anno scorso, quanto il suo rapporto col Pd.  Che è un partito meno rappresentato in Parlamento del Movimento 5 Stelle ma più solido politicamente e più collegato con parti della società senza le quali non si governa seriamente il Paese: un partito dove non c’è un comico che possa d’incanto far finire la ricreazione con una parolaccia o con una battuta d’avanspettacolo.

            Il guaio, per Conte, e per “il caravanserraglio di suerficialità e di comunicazione imbonitrice senza precedenti” che gli ha appena rimproverato sul Corriere della Sera Mario Monti, Monti a Conteè che è via via maturato nel Pd il timore che la collaborazione con i grillini tMonticominci a costare un po’ troppo a ciò che resta del Pci e della sinistra democristiana. Le cui percentuali elettorali, dai voti locali ai sondaggi, si aggirano fra poco meno e poco più del 20 per cento. E ciò con due aggravanti che, come spesso accade in politica, anziché placare gli animi e consigliare prudenza agitano di più gli animi e scatenano vecchie e nuove ambizioni personali.

            La prima aggravante è costituita dalle dimensioni non grandi ma enormi della crisi economica e sociale in arrivo in autunno per effetto dei danni già procurati dall’epidemia virale, e di quelli che potrebbero derivare da una stagione turistica costretta a volare a bassa quota. La seconda aggravante è la crescente delegittimazione cui è condannato il Parlamento dall’altissimo prezzo che il Pd ha dovuto pagare ai grillini per subentrare ai leghisti nella maggioranza: l’improvvisa conversione alla riduzione del numero dei parlamentari, perseguita dal movimento pentastellato in una logica non di efficienza ma semplicemente e dannatamente antiparlamentaristica.

            Una volta che questa presuna riforma supererà in autunno il referendum confermativo, praticamente a metà legislatura, il Parlamento varrà agli occhi dell’opinione pubblica, direi internazionale oltre che italiana, ancor meno di adesso, dopo le dimensioni più di facciata che di sostanza del partito pentastellato di maggioranza. E varrà ugualmente meno, per questa stessa ragione, il  nuovo Presidente della Repubblica  che verrà eletto nel 2022. Il cui potere prevalente è quello della cosiddetta persuasione morale. 

 

 

 

 

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Poche le gioie e molti i dolori dei tecnici alle prese con i politici

Il mio amico Stefano Folli -il cui approccio giovanile alla politica avvenne, come quello di Maurizio Molinari, che ora ne è il direttore,  in un ambiente molto sensibile ai tecnici come il Partito Repubblicano- dev’essersi messo le mani nei capelli osservando dalla sua postazione di Repubblica quello che nell’editoriale, o “punto”, ha definito “il cortocircuito” tra tecnici e politici a proposito del cosiddetto “piano Colao”. Che, concepito originariamente dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in pieno tempo di coronavirus, come un aiuto nella gestione di una crisi economica e socialista prevedibile  con l’epidemia virale, è sorprendentemente diventata una specie di arma contundente di Matteo Salvini nell’assalto quotidiano al governo.

Liquidato immediatamente, prima ancora che ne fossero rese note le 46 pagine e le 102 “idee”, come infarcite del peggiore “lobbismo” dal giornale allo stato delle cose più filogovernativo e più filo-Conte che è Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, il piano del povero Vittorio Colao, già amministratore delegato di Vodafone, è diventato un po’ la pietra dello scandalo in vista degli Stati Generali dell’Economia.

La ciliegina sulla torta è stata o è apparsa -in politica non fa molto differenza- la mancata firma dell’economista di fiducia, consigliera e quant’altro di Conte in persona, che è la professoressa Mariana Mazzucato. Alla quale qualche giornalista ha strappato, non so se davvero o con una forzata interpretazione, una spiegazione del tipo: ho avuto ben altro di cui occuparmi.

Oltre alle mani di Stefano Folli fra i capelli sono tentato di pensare a quelle di Conte fra i suoi. Non mi azzardo invece a pensare a quelli bianchissimi e folti di Sergio Mattarella al Quirinale, dove pure temo che non saranno rimasti insensibili di fronte al clamore provocato delle cronache politiche.

A consolazione di tutti gli interessati, da Conte a Mattarella, coi loro trascorsi peraltro accademici, debbo dire e ricordare che i tecnici sono sempre stati un po’ spine nei fianchi dei politici.

Aldo Moro, anche lui approdato alla politica dai suoi studi giuridici, divenuto nel 1959 segretario della Dc succedendo ad Amintore Fanfani, un altro professore giunto in secondaMoro battuta in Parlamento, volle cominciare la sua esperienza al vertice del partito Miglioincontrando separatamente e diligentemente tutti i consiglieri, consulenti, esperti del suo predecessore. Fra i quali c’era, per le questioni istituzionali, il giovane professore Gianfranco Miglio: sì, proprio lui, quello destinato a diventare nella cosiddetta seconda Repubblica l’ideologo della Lega di Umberto Bossi. Che rimase incantato anche dal tedesco col quale il luminare sapeva contare, insieme con la moglie, le galline dell’orto accompagnando gli ospiti verso casa.

Moro rimase non meravigliato ma scioccato dalla demolizione “tecnica” che Miglio fece anche a lui, come aveva fatto con Fanfani senza però turbarlo, della Costituzione in vigore da soli 11 anni. Essa già meritava, secondo il professore dell’Università Cattolica, profonde modifiche sulla strada del presidenzialismo. Non parliamo poi dei ritardi che il federalista Miglio considerava scandalosi nell’applicazione delle norme costituzionali sulle regioni a statuto ordinario, i cui consigli in effetti sarebbero stati eletti per la prima volta solo dopo altri undici anni, nel 1970.

Terminato l’incontro, di prima e insolita mattina, come se avesse ascoltato un mezzo guerrigliero, il prudentissimo Moro, che peraltro aveva la pressione bassa e carburava solo sul tardi, confidò tutto il suo sconcerto al povero Franco Salvi. Che  era qualcosa più del segretario personale e meno di un vice segretario politico. Fu proprio lui che mi confidò -prima che i nostri rapporti non si rovinassero per la frequenza con la quale parlavo con Moro senza chiedergli il permesso- di avere ricevuto dal nuovo capo della Dc l’invito ad eliminare Miglio dall’elenco dei consulenti di Piazza del Gesù.

Diventato nel 1963 presidente del Consiglio del primo governo “organico” di centro-sinistra, col trattino e a partecipazione diretta dei socialisti, al posto dei liberali  archiviati con Andreattal’esperienza centrista di stampo degasperiano, Moro promosse fra i suoi consiglieri economici, alle prese con la mitica “programmazione” voluta dai socialisti, l’allora giovane professore Beniamino Andreatta. Che poi sarebbe diventato politico pure lui: e che politico, di stazza superiore anche a quella fisica che aveva.

Ebbene, parlandomene una volta come persona ”preparatissima, per carità”, che avrebbe peraltro avuto fra i suoi allievi un altro pezzo da novanta della politica come Romano Prodi, l’allora presidente del Consiglio mi disse che il suo consigliere andava “ascoltato ma non sempre seguìto” perché, adottandone alla lettera ricette, indicazioni e quant’altro, sarebbe stato impossibile governare non solo con i socialisti ma con nessun altro. Esse erano -mi spiegò- di una durezza tale che si sarebbe rischiata una “guerra civile”. Mica male, come paura.

Di Giulio Andreotti e dei suoi consiglieri, fra i quali ci fu per un certo tempo anche Michele AndreottiSindona, ben lontano naturalmente da quel che sarebbe poi diventato, non posso raccontarvi nulla perché Andreotti non si Sindonaabbandonava molto a confidenze, almeno con me. Una solta volta comunque lo sentii borbottare, ma in pubblico, contro un tecnico della finanza durante una riunione del Consiglio Nazionale Cucciadella Dc: era il già allora potentissimo Enrico Cuccia. Ne bisbigliò tuttavia il nome solo rispondendo ai giornalisti che lo assediavano chiedendogli a chi avesse voluto riferirsi nel suo discorso.

Mi accordo di essermi dilungato anche troppo. Ma consentitemi almeno di ricordare i problemi creati nella cosiddetta seconda Repubblica al pur volitivo imprenditore di sucTremonticesso Silvio Berlusconi dal “tecnico” Giulio Tremonti, costretto alle dimissioni da ministro da un supponente Gianfranco Fini che lo accusò a Palazzo Chigi di non capire niente di politica. Ma la parola fu ben diversa.

 

 

 

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