Zingaretti all’angolo per le elezioni regionali. Si sente assediato da Tafazzi

            La situazione di Nicola Zingaretti e del suo Pd si dev’essere aggravata se a preoccuparsene sono stati con interventi simultanei i due Stefani di Repubblica, Cappellini e Folli, in Repubblica 1ordine rigorosamente alfabetico Repubblica 2ma entrambi richiamati in prima pagina,  accomunati dalla preoccupazione che, specie dopo l’accordo raggiunto nel centrodestra sulle candidature ai vertici delle sei regioni in cui si voterà il 20 settembre, precipitino l’uno e l’altro: il segretario e il partito principale della sinistra.

          Le  sorti del Pd erano già a cuore del giornale fondato da Eugenio Scalfari quando la proprietà era ancora dei figli di Carlo De Benedetti e vi sono rimaste anche all’arrivo del nuovo proprietario, il giovane nipote del compianto Gianni Agnelli: John Elkann. Che ne ha cambiato immediatamente il direttore ma con la stessa simpatia, chiamiamola così, per il partito guidato da Zingaretti.

         E’ cambiato solo il grado di fiducia, un po’ ridottosi, verso il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, di cui non a caso anche Scalfari, autoproclamatosi garante dell’anima del giornale, pur continuando a considerare il presidente del Consiglio progressista, liberalsocialista e quant’altro, emulo contemporaneamente di Aldo Moro e di Camillo Benso di Cavour, ha cominciato ad avvertire e lamentare la debolezza. Che deriva dal fatto di doversi guadagnare “giorno per giorno” -ha scritto- l’appoggio dei suoi soci di governo, “soprattutto” dei grillini. Fra i quali, a parte lo stesso Grillo, che però è troppo “elevato”, diciamo così, per occuparsene davvero, e a tempo pieno, Conte sembra spesso creare più problemi e preoccupazioni che altro, specie da quando si è scoperto con qualche sondaggio che una sua lista personale alle prossime elezioni politiche porterebbe il Movimento 5 Stelle sotto il 10 per cento, dal 32 e rotti di due anni fa e dal 17 dell’anno dopo, in occasione del rinnovo del Parlamento Europeo.

         Lo stesso Zingaretti, sfogandosi su Facebook tra un impegno e l’altro come segretario del partito e presidente della Regione Lazio, accorso in questa veste a onorare con l’ambasciatore americano l’efficienza dimostrata dall’ospedale romano Spallanzani nell’emergenza virale, ha dato del Tafazzi – come riportato iManifeston prima pagina dal manifesto- a chi da destra e da sinistra, cioè da Matteo Renzi al reggente ed altri del movimento pentastellato, oppone resistenze ad accordi elettorali col Pd nelle regioni ed altre amministrazioni locali in palio a settembre. Una sconfitta del Pd equivarrebbe ad una disfatta, con conseguenze scontate sul governo e forse persino sulla legislatura, visto che le elezioni anticipate saranno precluse -a causa dell’ultimo e cosiddetto “semestre bianco” del mandato presidenziale di Sergio Mattarella- solo dall’estate dell’anno venturo.

          Pur se considera “ridicolo” che alleanze anche locali con le 5 Stelle, ammesso e non concesso che si rivelino praticabili, diano una natura “strategica” all’intesa di governo con i grillini, Zingaretti non si rende forse conto che è arrivato al pettine il nodo ambiguo di quell’intesa improvvisata nella scorsa estate per evitare elezioni anticipate scontatamente vinte da Matteo Salvini. A quell’accordo di governo lui era originariamente contrario. Vi si adeguò solo quando a proporlo fu anche Renzi, ancora nel Pd. Ma Renzi l’aveva proposto come soluzione emergenziale e provvisoria, scavalcato poi da Zingaretti in una prospettiva più lunga e stabile. Quando le cose nascono pasticciate non sono destinate a svilupparsi in modo lineare.  

 

 

 

 

 

 

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Anche il lupo della magistratura perde il pelo ma non il vizio

La “guerra per bande togate” -che è un’espressione forte usata non dal Dubbio di Carlo Fusi di fronte ai clamorosi sviluppi della vicenda di Luca Palamara ma dal Fatto Quotidiano  di Marco Travaglio, non certamente sospettabile di pregiudizio o animosità verso la magistratura- rimanda un po’ al vecchio proverbio sul lupo che perde il pelo ma non il vizio.

I peli nel nostro caso sono quelli dello stesso Palamara -appena espulso per violazione del codice eticoPalamara dall’associazione nazionale dei magistrati, di cui fu anche presidente prima di approdare al Consiglio Superiore nel Palazzo dei Marescialli- e degli altri uomini in toga che hanno partecipato con lui alla gestione correntizia delle carriere. Alcuni dei quali -una ventina- sono già sotto osservazione al Consiglio Superiore e potrebbero incorrere in guai disciplinari e persino giudiziari.

Il vizio, sempre nel nostro caso, è quello dell’associazione, o sindacato, dei magistrati di reclamare praticamente autoriforme della magistratura, quando ne esplodono i problemi, considerando quelle elaborate nella sola sede legittima, che è il Parlamento, una prevaricazione, una punizione, o una “resa dei conti”, come ha scritto Giancarlo Caselli, fra la politica che vuole riprendersi il primato perduto e le toghe che glielo hanno in qualche modo sottratto.

Della permanenza di questo vizio, o tentazione, deve essersi accorto il vice presidente del Consiglio Superiore Davide Ermini, vice di Sergio Mattarella nel Palazzo dei Marescialli, se ha tenuto a ricordare nei giorni scorsi, in una intervista al Corriere della Sera, che “come azzerare il peso delle correnti all’interno del Csm è decisione che spetta al governo e al Parlamento”, non quindi all’associazione composta dalle correnti e convinta -par di capire- di avere fatto tutto il necessario e possibile espellendo Palamara: cosa che il già citato Caselli ha definito “colpo di reni”.

Temo  che a far maturare nel vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura il sospetto che ancora una volta le toghe pensino non a una riforma ma a un’autoriforma sia stata la fretta conPoniz la quale, mentre l’associazione espelleva Palamara, il presidente Luca Poniz le rivendicava il merito di essersi guadagnato il consenso del ministro della Giustizia a buona parte delle proposte da essa formulate. E ciò a cominciare, naturalmente, dal veto ad ogni forma di sorteggio per la designazione dei consiglieri togati, neppure per una preselezione di candidati da  sottoporre poi all’elezione di cui parla esplicitamente, e vincolativamente, l’articolo 104 della Costituzione, tanto decantato e difeso dagli organismi rappresentativi dei magistrati.

Purtroppo la forza delle resistenze ad una riforma vera della magistratura e, più in generale, del sistema giudiziario, capace di sradicare brutte abitudini e quant’altro, non sta solo nell’associazionismo correntizio e parapolitico quale è maturato negli almeno ultimi trent’anni, ma nel fatto che il Ministero della Giustizia, a dispetto della natura tutta o prevalentemente politica di chi lo guida di volta in volta, nella successione dei governi e delle relative maggioranze, è di fatto nelle mani dei magistrati. La burocrazia, o l’alta burocrazia di quel dicastero è tutta giudiziaria. E non vi è ministro che possa resisterle più di tanto.

Immagino già una smorfia di dissenso del guardasigilli in carica Alfonso Bonafede. Nei cui riguardi non mi fa velo- glielo assicuro- uno scambio, diciamo così, forte di opinioni avuto nella Bonafedescorsa legislatura, nel Transatlantico di Montecitorio ancora aperto alla stampa parlamentare, per avere egli sostenuto la sera prima in un salotto televisivo che noi giornalisti, specie quelli pensionati, fossimo dei “lobbisti”, in grado meglio di altri di rappresentare gli interessi di aziende, settori e quant’altri, fra le anticamere delle commissioni e dell’aula, nel traffico di emendamenti, sub-emendamenti e varie a leggi finanziarie e provvedimenti specifici. Non ci lasciammo nel migliore dei modi, in quell’occasione, perché l’allora semplice deputato Bonafede mi disse che avrebbe ribadito le sue convinzioni alla prima occasione che gli fosse capitata. Lui è fatto così: combattivo, diciamo.

Ebbene, con la mia purtroppo vecchia esperienza professionale e di rapporti personali, vorrei assicurare Bonafede di avere visto condizionati inconsapevolmente dalla burocrazia Vassalligiudiziaria del suo dicastero fior di ministri con esperienze universitarie e forensi alle spalle maggiori delle sue per ragioni quanto meno anagrafiche. Penso, per esempio, al compianto Giuliano Vassalli. Che da ministro della Giustizia, tra l’autunno del 1987 e i primi mesi del 1988, propose e fece approvare rapidamente dalle Camere una legge di disciplina Trtoradella responsabilità civile dei magistrati che vanificava di fatto la via libera a quella responsabilità data a larghissima maggioranza dagli elettori in un referendum promosso dai radicali e sostenuto con particolare vigore dal Psi -il partito dello stesso Vassalli- sull’onda della vicenda di Enzo Tortora. Che era stato sbattuto in galera, in una retata di centinaia di camorristi poi risultati più presunti che veri, ed aveva dovuto subire il supplizio di un processo destinato a restituirgli dopo anni l’onore ma non la salute. Egli morì di tumore proprio nel 1988, pochi mesi dopo l’approvazione della legge Vassalli, all’ombra della quale molti altri errori giudiziari sarebbero stati compiuti senza danni, o quasi, per  i loro responsabili.

 

 

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