In ricordo di quel simpatico impenitente che fu il mio amico Roberto Gervaso

            Di Roberto Gervaso, morto sulla soglia degli 83 anni, che avrebbe compiuto il mese prossimo, avevo un po’ perso le tracce negli ultimi anni, leggendone solo ogni tanto gli articoli, sempre col solito divertimento. Eppure avevamo avuto una lunga, intensa frequentazione.

            Ero stato un ospite frequente dei pranzi e delle cene che Roberto e la moglie organizzavano negli anni Settanta convocando nella loro casa, a due passi da Piazza del Popolo, uomini allora saldamente al potere, come Giulio Andreotti o Antonio Bisaglia, e altri che vi sarebbero arrivati molto tempo dopo, come Silvio Berlusconi.

            Alla nascita del Giornale fondato e diretto dal suo amico Indro Montanelli, col quale egli aveva anche scritto alcuni libri della fortunata serie della storia d’Italia, feci una fatica immane e inutile per convincere lo stesso Montanelli ad assumerlo. E lo feci anche su sollecitazione della mamma di Montanelli, Maddalena, che voleva bene a Gervaso e non si capacitava neppure lei delle resistenze del figlio. Del quale ebbi a un certo punto l’impressione che non gli piacesse lo spazio che sotto sotto Roberto lasciava alle voci che gli assomigliasse perché suo figlio segreto.

            Al sopraggiungere dello “scandalo” della P2, cui Roberto era stato iscritto dall’amico Licio Gelli, e cui aveva anche cercato di arruolare amici, inconsapevole come loro dei risvolti affaristici e, secondo alcuni, persino golpisti di quella loggia massonica, Montanelli fu con lui severissimo, pur riconoscendo che si dicevano e si scrivevano di quella faccenda troppe “baggianate”. D’altronde, anche Montanelli aveva avuto modo di incontrare Gelli, e di ottenerne l’aiuto a trovare crediti bancari dopo la rottura con Eugenio Cefis, che aveva  finanziato la nascita del Giornale. Poi sarebbe arrivato Berlusconi come editore e i problemi di cassa furono risolti.

           Quando mi capitò di occuparmi di Parlamento in, una trasmissione televisiva settimanale dell’allora GervasoFininvest, feci coppia con Roberto in quello che chiamammo “Punto e contrappunto”, improvvisati all’istante.  Il “punto” della settimana politica lo facevo io, il “contrappunto” lui, sempre disincantato, polemico, eccentrico.

            Assunta la direzione del Giorno, nel 1989, proposi a Roberto un appuntamento fisso settimanale in quella che era o si chiamava una volta la “terza pagina”, della cultura. Provocai una rivolta della redazione, che mi contestava l’appartenenza di Gervaso alla pur ormai disciolta P2. Piovvero anche interrogazioni parlamentari al ministro democristiano delle Partecipazione Statali dell’epoca, Carlo Fracanzani, essendo Il Giorno di proprietà dell’Eni. Bontà sua, il ministro rispose dopo qualche mese difendendo il diritto alla collaborazione di Gervaso, che però nel frattempo, giustamente indignato per le proteste, e non volendo che io mi dimettessi, come avevo minacciato, ed ero pronto a fare, aveva spontaneamente rinunciato.

            Continuammo un po’ a frequentarci, poi a sentirci, poi a incontrarci occasionalmente Gervaso 2per le strade del centro di Roma, specie davanti alle farmacie che lui frequentava ossessivamente perché sempre alla ricerca di qualche medicina che lo proteggesse da mali reali o immaginari. Poi vennero a mancare anche gli incontri occasionali. Ed ora mi è arrivata la notizia della scomparsa davvero a sorpresa, come i suoi contrappunti. E ne sono davvero addolorato. Un abbraccio alla memoria, Roberto.

 

 

 

 

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Il tricolore a metraggio del centrodestra nel posto e nel giorno sbagliato

             Tanto è stata felice da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella la scelta dei siti del suo “pellegrinaggio” del 2 giugno -fra l’altare della Patria, la località lombarda di Codogno, compreso Schermata 2020-06-03 alle 05.30.40il cimitero, colpita per prima in Italia dal coronavirus, e l’ospedale romano Spallanzani- quanto è stata infelice la manifestazione voluta e organizzata a Roma dal centrodestra, con quel tricolore al Mattarella a Codognometraggio come la pizza, contro il governo. Che, una volta tanto, con la celebrazione dei 74 anni della Repubblica non c’entrava e non c’entra nulla, non avendo obiettivamente cercato di strumentalizzare l’evento a suo favore     in un momento che certamente non è dei migliori, con tutte le tensioni che attraversano la maggioranza e gli immani problemi che l’attendono in autunno.

            D’altronde, contro questo governo sicuramente debole rispetto alle esigenze del Paese, cui non a caso Mattarella raccomanda un giorno sì e l’altro pure di creare davvero e coltivare un rapporto costruttivo con l’opposizione, non solo a parole, il centrodestra aveva già preannunciato Il self di Salviniuna giornata di protesta per il 4 luglio: quando saranno probabilmente meno rischiosi in tempi perduranti di epidemia virale gli assembramenti. Che sono stati invece usati ieri da Matteo Salvini per farsi i soliti self col pubblico a mascherine dismesse o abbassate.

            Questi ed altri spettacoli, come quello successivo dei gilet arancioni dell’ex generale dei Carabinieri Il GiornaleAntonio Pappalardo, a dispetto dell’”avviso di sfratto” gridato su tutta la prima pagina dal compiaciuto Giornale di famiglia di Silvio Berlusconi, si sono risolti forse più in un assist per il governo che altro. Il centrodestra si è meritato quel titolo critico Corriere su centrodestradi “segnale sbagliato” espresso dal Corriere della Sera. Dove non a caso, del resto, lo stesso Berlusconi ha cercato di mettere una pezza Berlusconi al Corrierecon una lettera al miele, di apprezzamento e sostegno alle parole e ai gesti del Presidente della Repubblica. Il quale avrebbe ben meritato di essere lasciato e rispettato come l’unico, vero protagonista della festa della Repubblica nei tormentati e pericolosi tempi di coronavirus.

            Gli ondeggiamenti e le contraddizioni del fondatore di Forza Italia, rimastosene peraltro prudentemente lontano nel rifugio familiare della Provenza, cominciano ad essere troppi e troppo vistosi. A un uomo della sua età e ai suoi consiglieri -se davvero ne ha, perché ho personalmente conosciuto e frequentato un Berlusconi abituato a fare sempre di testa sua, magari lasciando furbescamente che qualche suo “vicino” coprisse contemporaneamente anche altri spazi politici o mediatici- non conviene più tenere il piede in due staffe: non foss’altro per ragioni di stile e persino di salute, essendo le cadute più rovinose col passare degli anni.

            Il Movimento 5 Stelle, con tutta la sua crisi di identità ed altro, nel suo interminabile e nocivo “travaglio”, come lo definisce bonoriamente Giuseppe Conte, che gli deve d’altronde Schermata 2020-06-03 alle 06.48.16la postazione di Palazzo Chigi, con la sua ormai sproporzionata sovrarappresentazione parlamentare, pari al doppio di quanto in realtà esso risulti nel Paese da tempo sia con i sondaggi sia con le elezioni parziali, trova negli errori e nelle ambiguità del centrodestra un soccorso francamente immeritato.

 

 

 

 

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Quella fortezza (in)espugnabile del Palazzo dei Marescialli

Non mi ero ancora ripreso dalla visione di Luca Palamara senza barba da Massimo Giletti in veste addirittura di benemerito “mediatore” e immeritato “capro espiatorio”, non di navigato tessitore correntizio di carriere giudiziarie o altro ancora, e mi è capitato di leggere l’altra mattina una intervista a dir poco disarmante di Claudio Martelli. Che pure è stato considerato ai suoi tempi di governo il migliore ministro della Giustizia da un uomo che non era certamente di gusti e attese facili: l’allora temutissimo capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli. Il quale fu davvero rammaricato di averlo visto costretto a dimettersi da guardasigilli per il coinvolgimento in quella Tangentopoli che lo stesso Borrelli e i suoi sostituti si erano proposti di demolire senza badare a mezzi, anche a costo di suicidi fuori e dentro le carceri. Furono considerati incidenti di percorso, come di auto agli incroci senza semaforo.

Non parlo poi della stima, e infine anche dell’amicizia, di quel fior fiore di magistrato che era Giovanni Falcone, di cui Martelli formalizzò l’arrivo al Ministero della Giustizia come direttore Falconedegli affari penali pazientemente preparato dal suo predecessore in via Arenula Giuliano Vassalli e dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Il quale mi raccontò di avere “quasi incantenato” ad una sedia del Quirinale il suo amico magistrato quando, nel passaggio da Vassalli a Martelli, andò a esprimergli il timore di esporsi a qualche supplemento di critiche e attacchi nel mondo giudiziario per essersi occupato, sia pure di striscio, del nuovo ministro come magistrato inquirente quando i socialisti furono accusati di essersi guadagnati i voti della mafia in Sicilia. Dove proprio a Martelli il segretario del partito Bettino Craxi aveva conferito il ruolo di capolista.

“Tu non ti muovi da qui sino a quando non ci ripensi e non ti lasci salvare dopo tutto quello che abbiano fatto per portarti via da Palermo”, mi raccontò Cossiga di avere detto a Falcone piegandone le resistenze. Non Cossigaimmaginava, il povero Cossiga, che non sarebbe riuscito a salvare l’amico neppure portandolo via dalla Sicilia, dove a minacciarlo non erano solo i mafiosi ma -ahimè, pur per altre vie- i colleghi magistrati invidiosi della sua bravura e i politici dell’isola, a cominciare dall’allora e ancora sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Che lo immaginavano impegnato -pensate un po’- a nascondere fascicoli e a proteggere il cosiddetto “terzo livello” della criminalità mafiosa.

Quel plurale usato da Cossiga per ricordare a Falcone quanti si erano spesi per cercare di aiutarlo era riferito non solo a Vassalli, nel frattempo andato alla Corte Costituzionale, e al suo successore ma anche all’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti e a un amico di famiglia del magistrato, per via dei rapporti fra le mogli risalenti agli anni di scuola, che era il democristiano Calogero Mannino. Si, proprio lui: l’uomo destinato a provare sulla sua pelle gli inconvenienti di una giustizia amministrata in modo a dir poco discutibile, che da vittima designata della mafia si trovò ad essere rappresentato come un complice, fra gli ispiratori, se non il maggiore, della famosa “trattativa” nella stagione delle stragi, più volte assolto ma non per questo lasciato finalmente in pace da chi ne è evidentemente ossessionato.

Con queste storie alle spalle, che ho evocate anche perché addebitali in fondo ai criteri di lottizzazione correntizia e politica dei magistrati nei loro avanzamenti di carriera, inevitabilmente a scapito dei meriti, pur se Palamara ha disinvoltamente sostenuto nel salottoMartelli televisivo di Giletti che le scelte sono sempre state ugualmente di alto livello, che cosa mi fa l’ex guardasigilli e amico Claudio Martelli? Stecca nel giusto coro Martelli alla Veritàdelle proteste di fronte allo scenario emerso dalle intercettazioni di Palamara sollecitando praticamente il presidente della Repubblica, in una intervista alla Verità di Maurizio Belpietro, a convincere i consiglieri superiori del Palazzo dei Marescialli “da lui nominati” a dimettersi per creare le condizioni necessarie allo scioglimento anticipato dell’organo di autogoverno della magistratura.

Ma di consiglieri superiori di nomina presidenziale non me ne risultano, diversamente dai giudici costituzionali, cinque dei quali su 15 sono nominati appunto dal capo dello Stato. A meno che Martelli non intenda per consiglieri superiori nominati dal presidente della Repubblica quelli di diritto. Che sono, in base all’articolo 104 della Costituzione, il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione: solo due, non certo sufficienti a paralizzare il Consiglio Superiore facendogli mancare il numero legale.

Purtroppo il capo dello Stato non ha alternative all’attesa o dell’autodemolizione improbabile del Consiglio, per rinuncia della maggioranza dei suoi esponenti a reggere la pesante situazione obiettivamente creatasi con la palamarite, o della sua riforma in cantiere nel governo. Dove personalmente non mi faccio illusioni sulla fretta un po’ da tutti dichiarata a parole, visto lo strumento della delega legislativa che vedo affiorato dalle cronache. E che per prassi ormai consolidata significa, per i tempi, l’opposto di quello che sembra.

Il ministro Alfonso Bonafede ha detto alla  Stampa, che “tra una cosa e l’altra” occorrerà  “un anno”, addirittura, con tutto quello che è venuto fuori Bonafedee con lo sconcerto che ha Bonafede alla Stampaprovocato, a cominciare dal Quirinale. Tuttavia – ha aggiunto il guardasigilli- in attesa della riforma del funzionamento del Consiglio “le regole sull’elezione saranno subito in vigore”. E’ come pretendere di costruire una casa dal tetto, come si è d’altronde già cercato di fare in Italia tentando di aggirare una vera riforma costituzionale modificando continuamente la legge elettorale. Stiamo freschi.

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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