I grillini, Dio mio, guastano la festa di Conte a Villa Doria Pamphili e dintorni

            Alla fine, anzi sin dagli inizi, già alla seconda giornata, sono stati i grillini, gli azionisti di maggioranza del governo in carica, come di quello precedente, a rovinare la festa degli Stati Generali dell’Economia a Giuseppe Conte: una festa promossa a “gran ballo” ieri su Repubblica Ezio Mauro su Contedall’anzianissimo fondatore Eugenio Scalfari e declassata oggi ad “operazione in proprio di Palazzo Chigi”, sullo stesso giornale, dal primo successore di Scalfari alla direzione, Ezio Mauro. Non proprio un’armonia d’orchestra, direi.

            A fare di Conte il classico “Re nudo” è stato, in particolare, l’ex deputato grillino Alessandro Di Battista – Dibba per gli amici, o il Che Guevara de’ Noantri per chi a Roma ci scherza sopra- sfidando in televisione da posizioni dichiaratamente critiche il presidente del Consiglio a iscriversi Contefinalmente e formalmente al Movimento 5 Stelle per contenderne a lui e ad altri la leadership in un’”assemblea costituente”. Che potremmo chiamare anche congresso, o Stati Generali, pure loro, quali erano stati del resto programmati per metà marzo e poi rinviati a tempo praticamente indeterminato per la sopraggiunta, e sotto certi aspetti, provvidenziale emergenza da coronavirus.

            E’ scoppiato il finimondo politico certificato da Beppe Grillo in persona, il “fondatore”, “garante”, ”Elevato” e quant’altro, del movimento maggiormente rappresentato nel Parlamento eletto due anni fa, col declassamento di Dibba a “marmotta”. Sono seguiti altri sberleffi e moniti, fra i quali quello della “pasionaria” vice presidente del Senato Paola Taverna, convinta che al movimento ben deciso a rimanere tale e a non diventare mai un partito occorra solo una direzione o segreteria “collegiale”, in cui a dare gli ordini non sia da solo né Di Battista né Conte né altri: forse neppure Grillo, che da entità superiore risolve tutto a suo modo, tra uno spettacolo e l’altro dei suoi, pur in questo periodo in cui a teatro e nelle piazze ci sono problemi a muoversi, magari solo per ridere e non per protestare.

            Che lo si voglia Il Messaggerochiamare “terremoto”, come hanno fatto al Messaggero, o rischio di “scissione”, come Repubblica su grillinihanno fatto a Repubblica, o movimento “a pezzi”, come hanno fatto al Mattino, quello Il Mattino su Conteche è uscito dalla sortita di Di Battista e dalle reazioni di Grillo ed altri, compreso l’ex capo non rassegnato alla penombra Luigi Di Maio, per ora espostosi nel riconoscere a Conte un ruolo “decisivo” sotto le 5 stelle, questo non è proprio definibile uno stato di grazia per il governo e la eterogenea maggioranza giallorossa che lo sostiene. Dove la confusione fra i grillini, a dir poco, accende altri fuochi: per esempio, nel Pd di Nicola Zingaretti, nell’Italia Viva di Matteo Renzi e persino fra gli esangui “liberi e uguali” del ministro della Sanità Roberto Speranza, dell’ex presidente del Senato Pietro Grasso, del sempre acidamente sorridente Pier Luigi Bersani e del defilato ma non disarmato Massimo D’Alema.

            Pensare che in queste condizioni, feste e cerimonie a parte in corso nella Villa Doria Pamphili, il governo in carica e la relativa maggioranza possano gestire l’autunno caldo in arrivo dopo un’estate rovente e la complessa partita con l’Europa per l’assegnazione e l’uso dei fondi, a credito o a fondo perduto che siano, per il rilancio, la ripresa e quant’altro dell’Italia, è quanto meno azzardato. Che l’opposizione di centrodestra non sia in migliori condizioni della maggioranza è una circostanza non attenuante ma aggravante per il Paese.

La vergogna della statua di Indro Montanelli imbrattata di rosso a Milano

            Che pena questo curioso giornalismo italiano. Fatta eccezione per il Corriere della Sera -che così ha finito di pagare il debito che aveva col suo più illustre giornalista, di cui nel 1977, trovandoselo da tre anni concorrente col suo Giornale, aveva ignobilmente omesso il nome nel titolo di prima pagina sull’attentato terroristico in cui aveva rischiato la vita- nessun quotidiano italiano ha dato in prima pagina notizia e foto della statua di Indro Montanelli imbrattata di rosso. “Razzista e stupratore”, hanno certificato i nuovi monatti di Milano.

            Figlio del suo tempo, arruolatosi volontario a 26 anni per la guerra di Etiopia come sottotenente, dopo avere cercato inutilmente di seguirla come inviato per un’agenzia di stampa, MontanelliMontanelli giovane fece ciò che in quelle terre e in quegli anni facevano tutti gli ufficiali, nel rispetto dei costumi e delle leggi del posto. Egli acquistò per 350 lire, contro le 500 chiestegli originariamente dal padre, una ragazza dai 12 ai 14 anni –“bellissima”, raccontò lui stesso- sposandola e facendoci anche un figlio. Che dopo una ventina d’anni, in un viaggio in Africa, Montanelli scoprì che fosse stato chiamato Indro dalla mamma, nel frattempo rispostasi con un connazionale.

            Questa storia del figlio, a dire la verità, è stata sempre molto controversa nelle storie che si sono scritte di Montanelli. Ma ebbi la sensazione che fosse vera un giorno in cui, accompagnandolo a Roma a casa della mamma e conversando delle vicende del nostro Giornale, dove un anziano collega si era doluto di un mio intervento su una collaboratrice un po’ invadente che gli stava molto a cuore, Montanelli mi fece pressappoco questo discorso: “Franceschino, io ho avuto solo un figlio, che deve avere all’incirca la tua età, e in questa veste ti chiedo di comprendere le debolezze degli altri, perché -credimi- ne abbiamo un po’ tutti”.

            Fra i silenzi riscontrati sulle prime pagine, il più assordante – persino più del suo ex Giornale, ora totalmente di Berlusconimi è francamente apparso quello di Repubblica. Dove mi sarei aspettato non dico un titolo, un editoriale apposito ma un inciso, un accenno, uno di quei “post” frequentemente usati nell’appuntamento domenicale del fondatore Eugenio Scalfari. Che con quei “97 anni che mi porto in tasca camminando”- ha scritto lui stesso parlando però d’altro- non ha ritenuto di spendere una parola, dico una, in difesa del giornalista e scrittore che è stato con lui tra i protagonisti del giornalismo italiano: spesso concorrenti e avversari diretti, come negli anni nei quali Montanelli aveva creato un quotidiano per contrastare la prospettiva di un’intesa di governo fra la Dc e il Pci e lui, Scalfari, ne fece poi un altro apposta –la Repubblica, appunto- per sostenerla, ma senza mai attaccarsi e tanto meno offendersi sul piano personale.

            In questa Titolo Scalfaridomenica del Corpus Domini Scalfari ha preferito partecipare solo e del tutto, a suo modo, al “gran ballo di Conte a Villa Pamphili” nobilitando i suoi Stati Generali dell’Economia, e riproponendoci Scalfari 1il presidente del Consiglio come il migliore che ci potesse capitare in questi tempi così difficili, dopo avere smesso di essere l’anno scorso “il burattino di Matteo Salvini”, ancor più del grillino Luigi Di Maio, l’altro vice presidente del Consiglio Scalfari 2del governo gialloverde. Sì, “ogni tanto Conte inciampa, zoppica, scivola, fa marcia indietro”, ma -ha assicurato don Eugenio- per fortuna si tratta di incidenti che vengono superati e spesso lo portano leggermente più avanti dei risultati raggiunti”.

 

 

 

 

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Il mistero della villa scartata da Conte per i suoi Stati Generali dell’Economia

            Non lo faccio per infierire su Giuseppe Conte dopo tutte le ironie procurategli dagli Stati Generali dell’Economia organizzati come un nuovo Re Sole -secondo la vignetta di Emilio GiannelliGianelli sul Corriere della Sera- nella Villa Doria Pamphili, realizzata  dagli architetti Alessandro Algardi e Giovanni Francesco Grimaldi nel Seicento, ben prima quindi della Rivoluzione Francese. Tra vignette Il Tempoe titoli sfottenti, fra i quali gli “Stati particolari” di una testata romana che ha una vecchia storia di scontri e querele col presidente del RolliConsiglio, il professore e avvocato ne ha collezionati davvero tanti, immagino con quanta poca soddisfazione del portavoce Rocco Casalino. Cui peraltro mi rifiuto di pensare che abbia voluto alludere Giannelli con quel Cardinale Mazzarino disegnato dietro il nuovo Re Sole.

            La cosa -modestissima, sono il primo ad ammetterlo- di cui non riesco a capacitarmi è la ragione per la quale Conte non ha scelto per i suoi Stati Generali la sede più adatta, direi anzi unica, messagli a disposizione dall’articolo 99 della Costituzione, considerando anche il fatto ch’essa è sopravvissuta a furor di popolo nel 2016 all’abrogazione proposta nella sua riforma  dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. Che -pensate un po’- aveva scommesso proprio su questa eliminazione, ritenuta condivisa dal 99 per cento degli italiani, per trascinarsi appresso anche le altre modifiche apportate in Parlamento alla Costituzione.

            Il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, presieduto dal 2017 dal professore e pluri-ex ministro Tiziano Treu, “è composto nei modi stabiliti dalla legge -dice la Costituzione- di esperti Aula Villa Lubine di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa. E’ organo di consulenza delle Camere e del Governo per la materie e secondoAula 2 le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. Ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti della legge”. In più, anche se l’articolo 99 non lo dice, ma vi supplisce una prassi consolidata, il Cnel può ascoltare pareri anche di chi non ne facesse parte, a livello nazionale e internazionale, comprese quindi le personalità o “intelligenze” comunitarie scomodate da Conte per i suoi Stati Generali.

            La sede del Cnel non ha gli anni e la bellezza -lo ammetto- di Villa Doria Pamphili ma è ugualmente di tutto rispetto e imponenza. E’ la famosa Villa Lubin, progettata agli inizi del Novecento Presidenzadall’architetto Raffaele De Vico e situata nel parco di Villa Borghese. Dove avrebbe peraltro voluto trasferirsi dal Palazzo dei Marescialli il Consiglio Superiore della Magistratura se il Cnel fosse stato abolito. Pensate un po’ come si sarebbe trovato più comodo e felice, con o senza il suo bollente telefonino iniettato spionisticamente di “trojan”, l’ancora barbuto consigliere Luca Palamara.

            Villa Lubin è attrezzata su due piani proprio come un Parlamento, o Parlamentino, e dispone di un verde che manca invece alla Camera, salvo le piante del cortile dove ora possiamo pascolare noi giornalisti orfani del giardino segreto Villa PamphiliTransatlantico, e al Senato. Certo, non ha il “giardino segreto” di Villa Pamphili, ma non ditemi, per favore, che sarà proprio questo l’elemento decisivo del successo che, nonostante le tante perplessità, auguro ugualmente all’iniziativa del presidente del Consiglio, sperando davvero che non gli costì né la testa né il trono di Luigi XVI.  

 

 

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Il segno che lasciano i renziani, ma quelli rimasti nel Pd abbandonato da Matteo

Di fronte a Matteo Renzi che gioca a  scacchi, promuovendo dove gli capita la sua “mossa del cavallo”, non del cavillo, che prima o poi si guadagnerà forse un premio più letterario che politico, non resisto alla tentazione di tessere gli elogi degli amici che non lo hanno seguito nella scissione ma sono rimasti nel Pd. Dove mi pare che stiano servendo meglio di lui la causa d’identità riformistica, progressista, garantista e quant’altro che il falsamente modesto senatore di Scandicci riteneva di non poter più difendere a dovere nel partito del Nazareno, dopo averne perduto la guida. Eppure egli era appena riuscito a imporgli la svolta dell’intesa di governo con i grillini, ormai sazio dei popcorn acquistati l’anno prima in quantità industriale per assistere gioiosamente all’opposizione dalla poltrona del cinema o dal sedile di uno stadio.

Mettiamo, per esempio, il mio amico, oltre che suo, Lorenzo Guerini. Cui lui peraltro storpiava nome e passata militanza democristiana chiamandolo pur affettuosamente Arnaldo -dall’ex Lorenzo Guerinisegretario dello scudo crociato Forlani- mentre quello aveva sempre avuto come suo punto di riferimento personale e correntizio Giulio Andreotti.

A Guerini, pur disponendo come ministro della Difesa di un bel po’ di armamenti, non è stato necessario muovere un blindato -dico uno- per rimettere politicamente in riga l’improvvisato-  letterariamente inteso- ministro grillino degli Esteri Luigi Di Maio. Egli ha discretamente ed efficacemente tolto dalla testa degli americani, a cominciare dal presidente Donald Trump, l’amico di “Giuseppi” Conte, sospetti, timori e altro ancora su tutti quei cinesi e russi sbarcati in Italia in tenuta antivirale, ma provvisti anche di mezzi militari in senso lato, non sfuggiti all’attenzione, per esempio, dell’atlantissima Stampa di Torino ancora diretta da Maurizio Molinari. “Scemenze”, dicevano a Palazzo Chigi prima di accorgersi anche loro che qualcosa forse non andava nel migliore dei modi, o non veniva percepito così oltre Atlantico.

Di Guerini è cominciato anche a circolare il nome, nei soliti retroscena giornalistici della politica, come di un possibile successore di Conte a Palazzo Chigi a maggioranza invariata. In cui l’unica cosa che guadagnerebbero i grillini sarebbe la nomina di Di Maio a vice presidente del Consiglio, come ai tempi del Conte 1. Ma con una differenza su cui mi sentirei di scommettere anche la collaborazione al Dubbio. Non vedremmo e capteremmo mai dal labiale di Guerini nell’aula di Montecitorio, sui banchi del governo, una domanda a Di Maio del tipo: questo posso dirlo?

Prendiamo un altro della covata di Renzi rimasto nel Pd ma capace -ad occhio e croce- di fare anche meglio di lui alla guardia di certe posizioni politiche: il capogruppo piddino al Senato Andrea Marcucci, toscano dall’aspirazione vocale ancora più accentuata dell’ex segretario del partito, ex presidente Andrea Marcuccidel Consiglio e adesso leader di Italia Viva, senza gli sfottimenti che questo nome gli procura sul Fatto Quotidiano di Marco Travaglio.

Marcucci ha voluto precedere lo stesso segretario Nicola Zingaretti, con un’intervista abbastanza rude al Corriere della Sera, sulla preparazione troppo frettolosa dei cosiddetti Stati Generali dell’Economia a Villa Doria Pamphili avvertendo che questi sono tempi in cui gli errori non sono più permessi. Ebbene, a direzione finita, aperta da una relazione ferma si nei contenuti, con l’esplicita richiesta di una “svolta”, ma conciliante nel tono, avendo Zingaretti escluso “contrapposizioni” al presidente del Consiglio, Marcucci ha colto al volo l’occasione di un’intervista al Dubbio per due puntualizzazioni non da poco.

La prima puntualizzazione è il riconoscimento di “un buon punto di partenza”  delle discussioni al piano predisposto da Vittorio Colao, liquidato invece dai grillini  come una mezza spazzatura perché infarcito di “lobbismo”. Su cui perciò Matteo Salvini si è tuffato come un pesce adottandolo in pieno, ma evitando chissà perché di andarlo a dire a Villa Pamphili, disertata in massa dal centrodestra – a mio modestissimo parere- con assai scarso senso di opportunità politica e comunicativa. Le cose ormai anche da quelle parti procedono senza una logica compatibile col buon senso.

La seconda e forse ancor più significativa puntualizzazione di Marcucci è il rimando da lui fatto alle discussioni e alle scelte che, dopo le giornate in villa, dovranno essere fatte in Parlamento. Dove dovrà ritrovarsi davvero, non solo a parole, e su tanto di provvedimenti, la maggioranza con “una voce plurale che guidi l’Italia in questa fase di possibile rinascita”: possibile, ripeto, e quindi per niente scontata se si facessero errori anche o solo di guida.

Occorre insomma al volante del governo e della maggioranza l’opposto di quell”autoritarismo” di Conte accennato con doverosa provocazione professionale dalla nostra Giulia Merlo e -guarda caso- per nulla contestato nella risposta dal senatore Marcucci, come se l’avesse non dico condiviso, ma quasi.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Il Conte un pò dimezzato, alla Calvino, di Villa Doria Pamphili

             Questa storia degli Stati Generali dell’Economia voluti nella Villa Doria Pamphili di Rona, già “profanata” a suo modo da Silvio Berlusconi nel 2009 con la tenda beduina dell’ospite Gheddafi sistemata nel parco, rischia di tradursi nel primo, vero incidente di Conte: tutto politico, al netto delle grane giudiziarie che stanno procurando anche a lui le zone rosse mancate in Lombardia  durante l’epidemia virale. Italo Calvino gli avrebbe forse già affibbiato l’aggettivo “dimezzato” del Visconte.

            Nonostante “il piano” vantato dal professore, avvocato, umanista e quant’altro, e sparato generosamente dal Corriere della Sera su tutta la prima pagina inorgogliendolo, l’impietoso Galli della Loggiaprofessore -pure lui- Ernesto Galli della Loggia ha scritto, nell’editoriale TitoloGallidello stesso Corriere, a proposito del nostro “Paese dei tavoli”, che commissioni, stati generali e simili, al minuscolo o maiuscolo che siano, “sono serviti e servono in sostanza per una grande operazione di scarico di responsabilità”. Esse passano dal governo e dal Parlamento, che gli accorda o nega la fiducia, ad altri magari titolatissimi, con i loro studi, le loro cattedre, le loro esperienze imprenditoriali e internazionali, ma hanno l’inconveniente di non rispondere a nessuno.

            Questo è un po’ anche il succo del ragionamento che il capogruppo del Pd al Senato Andrea Marcucci, il più alto in grado dei renziani quando il senatore di Scandicci non se n’era ancora Andrea Marcucciandato via dal partito, ma rimasto al suo posto, aveva fatto al primo annuncio degli Stati Generali, in una intervista al Corriere della Sera. Egli l’ha appena ripetuto in un’intervista al Dubbio dopo l’acqua che Nicola Zingaretti ha mostrato, a torto o a ragione, di aver voluto buttare sul fuoco parlando alla direzione nazionale.

            In particolare, pur compiaciuto del fatto che Conte di fronte alle osservazioni e proteste del Pd “ha rimodulato in modo equilibrato l’appuntamento” di Villa Pamphili, Marcucci ha tenuto a rimettere sul tavolo del confronto, definendolo “un buon punto di partenza”, esattamente quel “piano Colao” cestinato, o quasi, dai grillini perché infarcito di “lobbismo” e infine piaciuto, se non addirittura adottato dall’oppositore più duro del governo, che è il leader leghista Matteo Salvini. Al quale però è venuta chissà perché l’idea, alla fine accettata anche da Giorgia Meloni e da Silvio Berlusconi, di rifiutare l’invito a Villa Pamphili. Dove pure, proprio riconoscendosi nel piano di Vittorio Colao, avrebbe potuto mettere di più in difficoltà, dal suo punto di vista, un governo e una maggioranza di cui a parole non vede l’ora di liberarsi per correre, magari da solo e senza mascherina, alle urne.

            Stimolato da una domanda dell’intevistatrice Giulia Merlo a commentare “l’autoritarismo di Conte” Marcuccisostanzialmente lamentato nel Pd all’annuncio quasi solitario degli Stati Generali, Marcucci ha significativamente accreditato la critica prima evitando di contestarla, o solo di prenderne le distanze, e poi ricordando al presidente del Consiglio, semmai se lo fosse dimenticato, che per governare guidando una coalizione, non un monocolore, come si faceva Conte a Repubblicaa volte  ai tempi della Dc,, occorrono “il consenso della maggioranza e una voce plurale”, specie in questa difficilissima fase di “possibile rinascita” del Paese in momenti di epidemia: una rinascita, ripeto, “possibile”, per niente quindi scontata con i metodi di Conte e con quelle voci, pur appena smentite dall’interessato, di essere tentato dall’avventura di un partito personale, sulle orme di Mario Monti. Che peraltro se ne stufò rapidamente.

La palude degli Stati Generali che attende il presidente del Consiglio

            Più di due secoli non sono passati invano. Gli Stati Generali dei quali si è innamorato Conte non gli  costeranno la testa, ghigliottinata invece al povero Luigi XVI. Ma il trono non so francamente se riuscirà a conservarlo il presidente del Consiglio al termine del lungo percorso che ha avviato e  si protrarrà in altro modo ben oltre i 10 giorni programmati.

            Non ci scommetterei più di tanto, nonostante le opposizioni di centrodestra stiano messe forse anche peggio della maggioranza giallorossa: fra Silvio Berlusconi che dice una cosa e magari ne pensa un’altra, e ne fa dire un’altra ancora al collaboratore o maggiordomo di turno, a giorni e persino ore alternate. Nè dei suoi ancora formali alleati spesso si riesce francamente a capire perché continuino ogni tanto a incontrarsi e a presentarsi insieme, con o senza le loro mascherine d’ordinanza, davanti alle telecamere.

            Il fatto è che all’interno della coalizione giallorossa -o giallorosa, come preferiscono vederla e rappresentarla altri- è peggiorato non tanto il rapporto di Conte con i grillini, col cui “travaglio” egli si è in qualche maniera abituato da quando è cominciato con la scoppola delle elezioni europee dell’anno scorso, quanto il suo rapporto col Pd.  Che è un partito meno rappresentato in Parlamento del Movimento 5 Stelle ma più solido politicamente e più collegato con parti della società senza le quali non si governa seriamente il Paese: un partito dove non c’è un comico che possa d’incanto far finire la ricreazione con una parolaccia o con una battuta d’avanspettacolo.

            Il guaio, per Conte, e per “il caravanserraglio di suerficialità e di comunicazione imbonitrice senza precedenti” che gli ha appena rimproverato sul Corriere della Sera Mario Monti, Monti a Conteè che è via via maturato nel Pd il timore che la collaborazione con i grillini tMonticominci a costare un po’ troppo a ciò che resta del Pci e della sinistra democristiana. Le cui percentuali elettorali, dai voti locali ai sondaggi, si aggirano fra poco meno e poco più del 20 per cento. E ciò con due aggravanti che, come spesso accade in politica, anziché placare gli animi e consigliare prudenza agitano di più gli animi e scatenano vecchie e nuove ambizioni personali.

            La prima aggravante è costituita dalle dimensioni non grandi ma enormi della crisi economica e sociale in arrivo in autunno per effetto dei danni già procurati dall’epidemia virale, e di quelli che potrebbero derivare da una stagione turistica costretta a volare a bassa quota. La seconda aggravante è la crescente delegittimazione cui è condannato il Parlamento dall’altissimo prezzo che il Pd ha dovuto pagare ai grillini per subentrare ai leghisti nella maggioranza: l’improvvisa conversione alla riduzione del numero dei parlamentari, perseguita dal movimento pentastellato in una logica non di efficienza ma semplicemente e dannatamente antiparlamentaristica.

            Una volta che questa presuna riforma supererà in autunno il referendum confermativo, praticamente a metà legislatura, il Parlamento varrà agli occhi dell’opinione pubblica, direi internazionale oltre che italiana, ancor meno di adesso, dopo le dimensioni più di facciata che di sostanza del partito pentastellato di maggioranza. E varrà ugualmente meno, per questa stessa ragione, il  nuovo Presidente della Repubblica  che verrà eletto nel 2022. Il cui potere prevalente è quello della cosiddetta persuasione morale. 

 

 

 

 

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Poche le gioie e molti i dolori dei tecnici alle prese con i politici

Il mio amico Stefano Folli -il cui approccio giovanile alla politica avvenne, come quello di Maurizio Molinari, che ora ne è il direttore,  in un ambiente molto sensibile ai tecnici come il Partito Repubblicano- dev’essersi messo le mani nei capelli osservando dalla sua postazione di Repubblica quello che nell’editoriale, o “punto”, ha definito “il cortocircuito” tra tecnici e politici a proposito del cosiddetto “piano Colao”. Che, concepito originariamente dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in pieno tempo di coronavirus, come un aiuto nella gestione di una crisi economica e socialista prevedibile  con l’epidemia virale, è sorprendentemente diventata una specie di arma contundente di Matteo Salvini nell’assalto quotidiano al governo.

Liquidato immediatamente, prima ancora che ne fossero rese note le 46 pagine e le 102 “idee”, come infarcite del peggiore “lobbismo” dal giornale allo stato delle cose più filogovernativo e più filo-Conte che è Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, il piano del povero Vittorio Colao, già amministratore delegato di Vodafone, è diventato un po’ la pietra dello scandalo in vista degli Stati Generali dell’Economia.

La ciliegina sulla torta è stata o è apparsa -in politica non fa molto differenza- la mancata firma dell’economista di fiducia, consigliera e quant’altro di Conte in persona, che è la professoressa Mariana Mazzucato. Alla quale qualche giornalista ha strappato, non so se davvero o con una forzata interpretazione, una spiegazione del tipo: ho avuto ben altro di cui occuparmi.

Oltre alle mani di Stefano Folli fra i capelli sono tentato di pensare a quelle di Conte fra i suoi. Non mi azzardo invece a pensare a quelli bianchissimi e folti di Sergio Mattarella al Quirinale, dove pure temo che non saranno rimasti insensibili di fronte al clamore provocato delle cronache politiche.

A consolazione di tutti gli interessati, da Conte a Mattarella, coi loro trascorsi peraltro accademici, debbo dire e ricordare che i tecnici sono sempre stati un po’ spine nei fianchi dei politici.

Aldo Moro, anche lui approdato alla politica dai suoi studi giuridici, divenuto nel 1959 segretario della Dc succedendo ad Amintore Fanfani, un altro professore giunto in secondaMoro battuta in Parlamento, volle cominciare la sua esperienza al vertice del partito Miglioincontrando separatamente e diligentemente tutti i consiglieri, consulenti, esperti del suo predecessore. Fra i quali c’era, per le questioni istituzionali, il giovane professore Gianfranco Miglio: sì, proprio lui, quello destinato a diventare nella cosiddetta seconda Repubblica l’ideologo della Lega di Umberto Bossi. Che rimase incantato anche dal tedesco col quale il luminare sapeva contare, insieme con la moglie, le galline dell’orto accompagnando gli ospiti verso casa.

Moro rimase non meravigliato ma scioccato dalla demolizione “tecnica” che Miglio fece anche a lui, come aveva fatto con Fanfani senza però turbarlo, della Costituzione in vigore da soli 11 anni. Essa già meritava, secondo il professore dell’Università Cattolica, profonde modifiche sulla strada del presidenzialismo. Non parliamo poi dei ritardi che il federalista Miglio considerava scandalosi nell’applicazione delle norme costituzionali sulle regioni a statuto ordinario, i cui consigli in effetti sarebbero stati eletti per la prima volta solo dopo altri undici anni, nel 1970.

Terminato l’incontro, di prima e insolita mattina, come se avesse ascoltato un mezzo guerrigliero, il prudentissimo Moro, che peraltro aveva la pressione bassa e carburava solo sul tardi, confidò tutto il suo sconcerto al povero Franco Salvi. Che  era qualcosa più del segretario personale e meno di un vice segretario politico. Fu proprio lui che mi confidò -prima che i nostri rapporti non si rovinassero per la frequenza con la quale parlavo con Moro senza chiedergli il permesso- di avere ricevuto dal nuovo capo della Dc l’invito ad eliminare Miglio dall’elenco dei consulenti di Piazza del Gesù.

Diventato nel 1963 presidente del Consiglio del primo governo “organico” di centro-sinistra, col trattino e a partecipazione diretta dei socialisti, al posto dei liberali  archiviati con Andreattal’esperienza centrista di stampo degasperiano, Moro promosse fra i suoi consiglieri economici, alle prese con la mitica “programmazione” voluta dai socialisti, l’allora giovane professore Beniamino Andreatta. Che poi sarebbe diventato politico pure lui: e che politico, di stazza superiore anche a quella fisica che aveva.

Ebbene, parlandomene una volta come persona ”preparatissima, per carità”, che avrebbe peraltro avuto fra i suoi allievi un altro pezzo da novanta della politica come Romano Prodi, l’allora presidente del Consiglio mi disse che il suo consigliere andava “ascoltato ma non sempre seguìto” perché, adottandone alla lettera ricette, indicazioni e quant’altro, sarebbe stato impossibile governare non solo con i socialisti ma con nessun altro. Esse erano -mi spiegò- di una durezza tale che si sarebbe rischiata una “guerra civile”. Mica male, come paura.

Di Giulio Andreotti e dei suoi consiglieri, fra i quali ci fu per un certo tempo anche Michele AndreottiSindona, ben lontano naturalmente da quel che sarebbe poi diventato, non posso raccontarvi nulla perché Andreotti non si Sindonaabbandonava molto a confidenze, almeno con me. Una solta volta comunque lo sentii borbottare, ma in pubblico, contro un tecnico della finanza durante una riunione del Consiglio Nazionale Cucciadella Dc: era il già allora potentissimo Enrico Cuccia. Ne bisbigliò tuttavia il nome solo rispondendo ai giornalisti che lo assediavano chiedendogli a chi avesse voluto riferirsi nel suo discorso.

Mi accordo di essermi dilungato anche troppo. Ma consentitemi almeno di ricordare i problemi creati nella cosiddetta seconda Repubblica al pur volitivo imprenditore di sucTremonticesso Silvio Berlusconi dal “tecnico” Giulio Tremonti, costretto alle dimissioni da ministro da un supponente Gianfranco Fini che lo accusò a Palazzo Chigi di non capire niente di politica. Ma la parola fu ben diversa.

 

 

 

Pubblicata sul Dubbio

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Le sfide di Giuseppe Conte a Vittorio Colao e persino alla superstizione

             Siamo ormai a una doppia sfida di Giuseppe Conte: una a Vittorio Colao, di cui – stando al titolo del manifesto e a molte altre cronache politiche- egli ha mandato “a picco” osservazioni e proposte per il rilancio o la rinascita dell’Italia, dopo avere tanto puntato sull’ex Il Fattoamministratore di Vodafone scomodandolo a Londra, e l’altra alla sorte fissando per venerdì l’apertura dei cosiddetti, e ormai controversi, Stati Generali dell’Economia. Che dureranno 10 giorni, ha libro Reedannunciato enfaticamente su tutta la prima pagina Il Fatto Quotidiano: dieci quanti furono quelli che “sconvolsero il mondo” nell’entusiastico racconto della rivoluzione sovietica fatto dal giornalista e testimome americano John Reed.

            Faccio fatica a immaginare Conte, il “progressista umanista” che si è scoperto passando dal suo primo al secondo governo cambiando alleati, come un nuovo Lenin:  ben al di là del “liberalsocialista” di cui scrive ogni volta che ne ha l’occasione il buon Eugenio Scalfari. Ma debbo riconoscergli almeno il pregio di fregarsene del vecchio proverbio che sconsiglia di sposarsi o di partire “di venere e di marte”. Il venerdì non gli fa evidentemente paura. Non è insomma superstizioso, pur essendo devotissimo dell’ormai Santo Padre Pio. Che un po’ superstizioso lo era, come confidava ai fedeli che riceveva nel convento di San Giovanni Rotondo. Fra i quali mi capitò di trovarmi molto giovane.

             Del piano di Colao, che pure sino a qualche settimana fa sembrava che dovesse essere una specie di arma segreta del presidente del Consiglio per affrontare i marosi d’autunno, è ormai rimasto ben poco dopo la stroncatura del Fatto di Marco Travaglio come di un documento infarcito di “lobbismo”, con tutte quelle Mariana Mazzucatoidee di condoni, semplificazioni, conferme di concessioni autostradali e via inorridendo. Fra i giornali, solo Il Foglio Il Fogliodel fondatore Giuliano Ferrara e del direttore Claudio Gerasa continua a scriverne bene, come di un “nuovo fattore C”, spiegando che “lo scandalo” attribuitogli, specie dopo la mancata firma della consigliera di Conte Mariana Mazzucato, “non ha a che fare con i contenuti ma con un problema ben più importante: la capacità della Follipolitica di guardarsi allo specchio e sentirsi all’altezza di una rivoluzione di cui mai come oggi l’Italia avrebbe urgente bisogno”. “Il cortocircuito tecnici-politici”, ha un po’ e meno vistosamente parafrasato Stefano Folli su Repubblica. Sul piano politico, poi, il piano Colao è incorso nell’inconveniente, coi tempi che corrono, di riscuotere il plauso di Matteo Salvini.

              Che cosa resti o possa restare sul tappeto di questi Stati Generali dell’Economia così pomposamente e frettolosamente annunciati ma così cambiati e diluiti lungo la strada, soprattutto per i dubbi, i timori e quant’altro insorti nel Partito Democratico, è difficile dire. Certo, per La Stampail presidente del Consiglio appaiono poco incoraggianti sia “l’assedio” riproposto in un titolo dalla Stampa con la sensazione che “Tra Pd e 5 Stelle spira l’ipotesi di un Guerini premier” sia Giorgetti al Mattinoquel Giancarlo Giorgetti, vice di Salvini, che ha detto al Messaggero, al Mattino e al Gazzettino : “Se cade Conte non credo nelle elezioni”. Che è un po’ la variante dei “dieci minuti” recentemente previsti da Matteo Renzi per trovare un’altra maggioranza, in caso di crisi, allo scopo di evitare lo scioglimento anticipato delle Camere minacciato dal presidente della Repubblica.

 

 

 

 

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Dopo gli artigli di Marcucci le unghie di Zingaretti sul presidente del Consiglio

            Preceduto sul Corriere della Sera dal capogruppo al Senato Andrea Marcucci, con gli artigli di buon toscano, è giunto sulla scena anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti, ma con le unghie appena sistemategli dalla manicure. Nella sua relazione alla direzione nazionale, letta nelle modalità imposte da questi tSchermata 2020-06-08 alle 07.15.26empi di coronavirus, ho trovato sì riferimenti polemici al presidente del Consiglio e al governo -per esempio sulla necessità di una “svolta”, o di Consigli Generali del’Economia che non siano una inutile a affrettata passerella, o sul rifiuto della solita “Italietta”, o contro le perduranti resistenze “ideologiche” dei grillini ai finanziamenti europei per il potenziamento del sistema sanitario dopo le prove dell’impatto con l’epidemia virale- ma tutto paludato nella fiducia confermata a Conte. E nel riconoscimento della insostituibilità di un governo, di cui pure lo stesso Zingaretti aveva chiesto già alla sua formazione elementi di “discontinuità”, a partire da chi lo guidava.

            Più sentivo il fratello del popolarissimo “commissario” Montalbano  e più mi ricordavo di una intervista di Carlo Rossella appena letta sulla Verità di Maurizio Belpietro, nello Belpietrosu Zingarettistesso numero in cui si dava  al segretario del Pd del “coniglio”. Per smuovere Conte -aveva detto Rossella, ancora orgoglioso del suo passato comunista bagnato nelle acque addirittura Carlo Rossella su Zingarettidell’amico Silvio Berlusconi- occorrerebbero uomini duri come Massimo D’Alema. Che, in effetti, fra il 1996 e il 1998, aveva dato dei “flaccidi imbroglioni” a Romano Prodi e al vice Walter Veltroni, spostandoli infine da Palazzo Chigi, rispettivamente, alla presidenza Orlando sul Fogliodella Commissione Europea, a Bruxelles, e alla segreteria del proprio partito. Eppure -ha appena avvertito il vice segretario del Pd Andrea Orlando al Foglio- Conte non è Prodi e non lo sarà”. E Giuliano Ferrara, dal canto suo suo, sempre sul Foglio, dopoFerrara su Cinte averlo difeso a suo modo il giorno prima dal “cazzeggio” di avversari e critici, ha invitato il presidente del Consiglio ad abbassare le proprie “ambizioni”.

            Tutto sommato, non meno ingeneroso con Conte è stato a sorpresa Il Fatto Quotidiano avvertendo e denunciando “troppo lobbisno” nel cosiddetto “piano Colao” che il presidente del Consiglio Fatto su colaosi è appena fatto mandare a Palazzo Chigi per impostarvi gli Stati Generali dell’Economia, finalizzati alla ripresa, modernizzazione e quant’altro dell’Italia piegata in questi mesi dal coronavirus, e per darsi compiti ben oltre questa estate e il prossimo autunno. Che sarà peraltro infarcito anche di scadenze elettorali amministrative e del referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari.

            Si sono fatti prudenti con Conte anche al manifesto. Dove hanno ospitato recentemente appelli di intellettuali di sinistra per il presidente del Consiglio, a sostegno quindi insolito di un governo in carica per quel tipo manifesto su Contedi giornale, ma ora hanno registrato con una certa ansia nel titolo stesso di un editoriale l’arrivo della “prova delle verità” per l’avvocato del popolo ospite da due anni di Palazzo Chigi.  

 

 

 

 

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Altro che chiarita. La partita del Pd con Giuseppe Conte resta aperta

Un po’ se l’è cercata Giuseppe Conte con quel tentativo compiuto sul Corriere della Sera di minimizzare il contenzioso esploso col Pd e di darlo per superato, dicendosi orgogliosamente sicuro di non sentirsi “accerchiato”. Sullo stesso Corriere, il giorno dopo, un esponente non certo secondario del Pd, il capogruppo Marcuccial Senato Andrea Marcucci 1Marcucci, parlando peraltro al plurale, gli ha detto che “sbagliare è un lusso non consentito”, o non più consentito, visto che anche nel contrasto al coronavirus egli ha fatto fatto sì “quel che doveva, ma non sempre con i risultati migliori”. Quando poi egli ha annunciato i cosiddetti Stati Generali dell’Economia, al solito sicuro del fatto suo, “abbiamo avuto la percezione -ha spiegato Marcucci- che non ci fosse grande serietà e lavoro nella preparazione di questo appuntamento”.

             A scansare le “bollicine”, diciamo così, di queste parole non so francamente se sia bastata a Conte la mascherina chirurgica di questi tempi di epidemia.

            Neppure in tema di rapporti col principale partito della coalizione giallorossa -altro che giallorosa, come in tanti cercano di attenuare scrivendone e parlandone- Marcucci è stato a questo Marcucci 2punto paziente.  Egli ha evocato, in particolare, il tema del ricorso contestatissimo dai grillini al Mes, inteso come meccanismo europeo di stabilità, o fondo salva-Stati, allo scopo di potenziare il sistema sanitario per affermare che “il governo ha il dovere di prenderlo in considerazione in tempi brevi” e di finirla “con gli approcci dogmatici” dei grillini. Che, in sintonia con gli ex alleati leghisti e coi fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, continuano a vedere e indicare nell’Europa solo un terreno disseminato di trappole per l’Italia, anche dopo la sospensione del cosiddetto e “stupido” patto di stabilità, secondo una vecchia definizione di Romano Prodi, gli aumentati interventi della Banca Centrale di Francoforte per acquistare i titoli del debito pubblico italiano, difendendoli dalla speculazione finanziaria, e la proposta non dell’Italia ma della Commissione Europea di mettere a disposizione di Roma circa 180 dei 750 miliardi di euro del fondo in cantiere per la ripresa o per “la prossima generazione”. Di cui una parte sarà peraltro a fondo perduto.

            Giuliano Ferrara, ormai in curiosa competizione con Eugenio Scalfari e con Marco Travaglio nella difesa di Conte come di una specie di nuovo uomo della Provvidenza capitato L'aiuto di Ferraraall’Italia, iscriverà magari anche l’intervista del capogruppo del Pd al Senato in quella che ha appena definito sin nel titolo di un suo editoriale Conte a Pisasul Foglio “l’irritante lite di governo in forma di cazzeggio”. Ma è ormai tanto evidente quanto innegabile lo stato di sofferenza al quale è arrivata la maggioranza di governo. Che Emilio Giannelli ha forse esagerato nella sua vignetta di prima pagina, sempre sul Corriere della Sera”, a paragonare alla torre pendente di Pisa osservata, fotografata e sorvegliata da Conte in veste di turista, di presidente del Consiglio e chissà cos’altro. Quella è una pendenza un po’ troppo antica, storica e stabile per abbinarla al governo giallorosso.

            A Conte intanto  il sociologo Ilvo Diamanti su Repubblica ha consigliato di non lasciarsi tentare Ilvo Diamanti su Contedall’idea di mettersi “in proprio” con un suo partito, affrancandosi da quella specie di mezzadria in corso dall’autunno fra il movimento delle 5 Stelle e il Pd, perché questi tempi sono ancora meno adatti di quelli passati a un partito “personale”, quale sarebbe il suo.

 

 

 

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