Alla fine, anzi sin dagli inizi, già alla seconda giornata, sono stati i grillini, gli azionisti di maggioranza del governo in carica, come di quello precedente, a rovinare la festa degli Stati Generali dell’Economia a Giuseppe Conte: una festa promossa a “gran ballo” ieri su Repubblica
dall’anzianissimo fondatore Eugenio Scalfari e declassata oggi ad “operazione in proprio di Palazzo Chigi”, sullo stesso giornale, dal primo successore di Scalfari alla direzione, Ezio Mauro. Non proprio un’armonia d’orchestra, direi.
A fare di Conte il classico “Re nudo” è stato, in particolare, l’ex deputato grillino Alessandro Di Battista – Dibba per gli amici, o il Che Guevara de’ Noantri per chi a Roma ci scherza sopra- sfidando in televisione da posizioni dichiaratamente critiche il presidente del Consiglio a iscriversi
finalmente e formalmente al Movimento 5 Stelle per contenderne a lui e ad altri la leadership in un’”assemblea costituente”. Che potremmo chiamare anche congresso, o Stati Generali, pure loro, quali erano stati del resto programmati per metà marzo e poi rinviati a tempo praticamente indeterminato per la sopraggiunta, e sotto certi aspetti, provvidenziale emergenza da coronavirus.
E’ scoppiato il finimondo politico certificato da Beppe Grillo in persona, il “fondatore”, “garante”, ”Elevato” e quant’altro, del movimento maggiormente rappresentato nel Parlamento eletto due anni fa, col declassamento di Dibba a “marmotta”. Sono seguiti altri sberleffi e moniti, fra i quali quello della “pasionaria” vice presidente del Senato Paola Taverna, convinta che al movimento ben deciso a rimanere tale e a non diventare mai un partito occorra solo una direzione o segreteria “collegiale”, in cui a dare gli ordini non sia da solo né Di Battista né Conte né altri: forse neppure Grillo, che da entità superiore risolve tutto a suo modo, tra uno spettacolo e l’altro dei suoi, pur in questo periodo in cui a teatro e nelle piazze ci sono problemi a muoversi, magari solo per ridere e non per protestare.
Che lo si voglia
chiamare “terremoto”, come hanno fatto al Messaggero, o rischio di “scissione”, come
hanno fatto a Repubblica, o movimento “a pezzi”, come hanno fatto al Mattino, quello
che è uscito dalla sortita di Di Battista e dalle reazioni di Grillo ed altri, compreso l’ex capo non rassegnato alla penombra Luigi Di Maio, per ora espostosi nel riconoscere a Conte un ruolo “decisivo” sotto le 5 stelle, questo non è proprio definibile uno stato di grazia per il governo e la eterogenea maggioranza giallorossa che lo sostiene. Dove la confusione fra i grillini, a dir poco, accende altri fuochi: per esempio, nel Pd di Nicola Zingaretti, nell’Italia Viva di Matteo Renzi e persino fra gli esangui “liberi e uguali” del ministro della Sanità Roberto Speranza, dell’ex presidente del Senato Pietro Grasso, del sempre acidamente sorridente Pier Luigi Bersani e del defilato ma non disarmato Massimo D’Alema.
Pensare che in queste condizioni, feste e cerimonie a parte in corso nella Villa Doria Pamphili, il governo in carica e la relativa maggioranza possano gestire l’autunno caldo in arrivo dopo un’estate rovente e la complessa partita con l’Europa per l’assegnazione e l’uso dei fondi, a credito o a fondo perduto che siano, per il rilancio, la ripresa e quant’altro dell’Italia, è quanto meno azzardato. Che l’opposizione di centrodestra non sia in migliori condizioni della maggioranza è una circostanza non attenuante ma aggravante per il Paese.
fece ciò che in quelle terre e in quegli anni facevano tutti gli ufficiali, nel rispetto dei costumi e delle leggi del posto. Egli acquistò per 350 lire, contro le 500 chiestegli originariamente dal padre, una ragazza dai 12 ai 14 anni –“bellissima”, raccontò lui stesso- sposandola e facendoci anche un figlio. Che dopo una ventina d’anni, in un viaggio in Africa, Montanelli scoprì che fosse stato chiamato Indro dalla mamma, nel frattempo rispostasi con un connazionale.
domenica del Corpus Domini Scalfari ha preferito partecipare solo e del tutto, a suo modo, al “gran ballo di Conte a Villa Pamphili” nobilitando i suoi Stati Generali dell’Economia, e riproponendoci
il presidente del Consiglio come il migliore che ci potesse capitare in questi tempi così difficili, dopo avere smesso di essere l’anno scorso “il burattino di Matteo Salvini”, ancor più del grillino Luigi Di Maio, l’altro vice presidente del Consiglio
del governo gialloverde. Sì, “ogni tanto Conte inciampa, zoppica, scivola, fa marcia indietro”, ma -ha assicurato don Eugenio- per fortuna si tratta di incidenti che vengono superati e spesso lo portano leggermente più avanti dei risultati raggiunti”.
sul Corriere della Sera- nella Villa Doria Pamphili, realizzata dagli architetti Alessandro Algardi e Giovanni Francesco Grimaldi nel Seicento, ben prima quindi della Rivoluzione Francese. Tra vignette
e titoli sfottenti, fra i quali gli “Stati particolari” di una testata romana che ha una vecchia storia di scontri e querele col presidente del
Consiglio, il professore e avvocato ne ha collezionati davvero tanti, immagino con quanta poca soddisfazione del portavoce Rocco Casalino. Cui peraltro mi rifiuto di pensare che abbia voluto alludere Giannelli con quel Cardinale Mazzarino disegnato dietro il nuovo Re Sole.
e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa. E’ organo di consulenza delle Camere e del Governo per la materie e secondo
le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. Ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti della legge”. In più, anche se l’articolo 99 non lo dice, ma vi supplisce una prassi consolidata, il Cnel può ascoltare pareri anche di chi non ne facesse parte, a livello nazionale e internazionale, comprese quindi le personalità o “intelligenze” comunitarie scomodate da Conte per i suoi Stati Generali.
dall’architetto Raffaele De Vico e situata nel parco di Villa Borghese. Dove avrebbe peraltro voluto trasferirsi dal Palazzo dei Marescialli il Consiglio Superiore della Magistratura se il Cnel fosse stato abolito. Pensate un po’ come si sarebbe trovato più comodo e felice, con o senza il suo bollente telefonino iniettato spionisticamente di “trojan”, l’ancora barbuto consigliere Luca Palamara.
Transatlantico, e al Senato. Certo, non ha il “giardino segreto” di Villa Pamphili, ma non ditemi, per favore, che sarà proprio questo l’elemento decisivo del successo che, nonostante le tante perplessità, auguro ugualmente all’iniziativa del presidente del Consiglio, sperando davvero che non gli costì né la testa né il trono di Luigi XVI.
segretario dello scudo crociato Forlani- mentre quello aveva sempre avuto come suo punto di riferimento personale e correntizio Giulio Andreotti.
del Consiglio e adesso leader di Italia Viva, senza gli sfottimenti che questo nome gli procura sul Fatto Quotidiano di Marco Travaglio.
professore -pure lui- Ernesto Galli della Loggia ha scritto, nell’editoriale
dello stesso Corriere, a proposito del nostro “Paese dei tavoli”, che commissioni, stati generali e simili, al minuscolo o maiuscolo che siano, “sono serviti e servono in sostanza per una grande operazione di scarico di responsabilità”. Esse passano dal governo e dal Parlamento, che gli accorda o nega la fiducia, ad altri magari titolatissimi, con i loro studi, le loro cattedre, le loro esperienze imprenditoriali e internazionali, ma hanno l’inconveniente di non rispondere a nessuno.
andato via dal partito, ma rimasto al suo posto, aveva fatto al primo annuncio degli Stati Generali, in una intervista al Corriere della Sera. Egli l’ha appena ripetuto in un’intervista al Dubbio dopo l’acqua che Nicola Zingaretti ha mostrato, a torto o a ragione, di aver voluto buttare sul fuoco parlando alla direzione nazionale.
sostanzialmente lamentato nel Pd all’annuncio quasi solitario degli Stati Generali, Marcucci ha significativamente accreditato la critica prima evitando di contestarla, o solo di prenderne le distanze, e poi ricordando al presidente del Consiglio, semmai se lo fosse dimenticato, che per governare guidando una coalizione, non un monocolore, come si faceva
a volte ai tempi della Dc,, occorrono “il consenso della maggioranza e una voce plurale”, specie in questa difficilissima fase di “possibile rinascita” del Paese in momenti di epidemia: una rinascita, ripeto, “possibile”, per niente quindi scontata con i metodi di Conte e con quelle voci, pur appena smentite dall’interessato, di essere tentato dall’avventura di un partito personale, sulle orme di Mario Monti. Che peraltro se ne stufò rapidamente.
è che è via via maturato nel Pd il timore che la collaborazione con i grillini
cominci a costare un po’ troppo a ciò che resta del Pci e della sinistra democristiana. Le cui percentuali elettorali, dai voti locali ai sondaggi, si aggirano fra poco meno e poco più del 20 per cento. E ciò con due aggravanti che, come spesso accade in politica, anziché placare gli animi e consigliare prudenza agitano di più gli animi e scatenano vecchie e nuove ambizioni personali.
battuta in Parlamento, volle cominciare la sua esperienza al vertice del partito
incontrando separatamente e diligentemente tutti i consiglieri, consulenti, esperti del suo predecessore. Fra i quali c’era, per le questioni istituzionali, il giovane professore Gianfranco Miglio: sì, proprio lui, quello destinato a diventare nella cosiddetta seconda Repubblica l’ideologo della Lega di Umberto Bossi. Che rimase incantato anche dal tedesco col quale il luminare sapeva contare, insieme con la moglie, le galline dell’orto accompagnando gli ospiti verso casa.
l’esperienza centrista di stampo degasperiano, Moro promosse fra i suoi consiglieri economici, alle prese con la mitica “programmazione” voluta dai socialisti, l’allora giovane professore Beniamino Andreatta. Che poi sarebbe diventato politico pure lui: e che politico, di stazza superiore anche a quella fisica che aveva.
Sindona, ben lontano naturalmente da quel che sarebbe poi diventato, non posso raccontarvi nulla perché Andreotti non si
abbandonava molto a confidenze, almeno con me. Una solta volta comunque lo sentii borbottare, ma in pubblico, contro un tecnico della finanza durante una riunione del Consiglio Nazionale
della Dc: era il già allora potentissimo Enrico Cuccia. Ne bisbigliò tuttavia il nome solo rispondendo ai giornalisti che lo assediavano chiedendogli a chi avesse voluto riferirsi nel suo discorso.
cesso Silvio Berlusconi dal “tecnico” Giulio Tremonti, costretto alle dimissioni da ministro da un supponente Gianfranco Fini che lo accusò a Palazzo Chigi di non capire niente di politica. Ma la parola fu ben diversa.
amministratore di Vodafone scomodandolo a Londra, e l’altra alla sorte fissando per venerdì l’apertura dei cosiddetti, e ormai controversi, Stati Generali dell’Economia. Che dureranno 10 giorni, ha
annunciato enfaticamente su tutta la prima pagina Il Fatto Quotidiano: dieci quanti furono quelli che “sconvolsero il mondo” nell’entusiastico racconto della rivoluzione sovietica fatto dal giornalista e testimome americano John Reed.
idee di condoni, semplificazioni, conferme di concessioni autostradali e via inorridendo. Fra i giornali, solo Il Foglio
del fondatore Giuliano Ferrara e del direttore Claudio Gerasa continua a scriverne bene, come di un “nuovo fattore C”, spiegando che “lo scandalo” attribuitogli, specie dopo la mancata firma della consigliera di Conte Mariana Mazzucato, “non ha a che fare con i contenuti ma con un problema ben più importante: la capacità della
politica di guardarsi allo specchio e sentirsi all’altezza di una rivoluzione di cui mai come oggi l’Italia avrebbe urgente bisogno”. “Il cortocircuito tecnici-politici”, ha un po’ e meno vistosamente parafrasato Stefano Folli su Repubblica. Sul piano politico, poi, il piano Colao è incorso nell’inconveniente, coi tempi che corrono, di riscuotere il plauso di Matteo Salvini.
il presidente del Consiglio appaiono poco incoraggianti sia “l’assedio” riproposto in un titolo dalla Stampa con la sensazione che “Tra Pd e 5 Stelle spira l’ipotesi di un Guerini premier” sia
quel Giancarlo Giorgetti, vice di Salvini, che ha detto al Messaggero, al Mattino e al Gazzettino : “Se cade Conte non credo nelle elezioni”. Che è un po’ la variante dei “dieci minuti” recentemente previsti da Matteo Renzi per trovare un’altra maggioranza, in caso di crisi, allo scopo di evitare lo scioglimento anticipato delle Camere minacciato dal presidente della Repubblica.
empi di coronavirus, ho trovato sì riferimenti polemici al presidente del Consiglio e al governo -per esempio sulla necessità di una “svolta”, o di Consigli Generali del’Economia che non siano una inutile a affrettata passerella, o sul rifiuto della solita “Italietta”, o contro le perduranti resistenze “ideologiche” dei grillini ai finanziamenti europei per il potenziamento del sistema sanitario dopo le prove dell’impatto con l’epidemia virale- ma tutto paludato nella fiducia confermata a Conte. E nel riconoscimento della insostituibilità di un governo, di cui pure lo stesso Zingaretti aveva chiesto già alla sua formazione elementi di “discontinuità”, a partire da chi lo guidava.
stesso numero in cui si dava al segretario del Pd del “coniglio”. Per smuovere Conte -aveva detto Rossella, ancora orgoglioso del suo passato comunista bagnato nelle acque addirittura
dell’amico Silvio Berlusconi- occorrerebbero uomini duri come Massimo D’Alema. Che, in effetti, fra il 1996 e il 1998, aveva dato dei “flaccidi imbroglioni” a Romano Prodi e al vice Walter Veltroni, spostandoli infine da Palazzo Chigi, rispettivamente, alla presidenza
si è appena fatto mandare a Palazzo Chigi per impostarvi gli Stati Generali dell’Economia, finalizzati alla ripresa, modernizzazione e quant’altro dell’Italia piegata in questi mesi dal coronavirus, e per darsi compiti ben oltre questa estate e il prossimo autunno. Che sarà peraltro infarcito anche di scadenze elettorali amministrative e del referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari.
di giornale, ma ora hanno registrato con una certa ansia nel titolo stesso di un editoriale l’arrivo della “prova delle verità” per l’avvocato del popolo ospite da due anni di Palazzo Chigi.
al Senato Andrea
Marcucci, parlando peraltro al plurale, gli ha detto che “sbagliare è un lusso non consentito”, o non più consentito, visto che anche nel contrasto al coronavirus egli ha fatto fatto sì “quel che doveva, ma non sempre con i risultati migliori”. Quando poi egli ha annunciato i cosiddetti Stati Generali dell’Economia, al solito sicuro del fatto suo, “abbiamo avuto la percezione -ha spiegato Marcucci- che non ci fosse grande serietà e lavoro nella preparazione di questo appuntamento”.
punto paziente. Egli ha evocato, in particolare, il tema del ricorso contestatissimo dai grillini al Mes, inteso come meccanismo europeo di stabilità, o fondo salva-Stati, allo scopo di potenziare il sistema sanitario per affermare che “il governo ha il dovere di prenderlo in considerazione in tempi brevi” e di finirla “con gli approcci dogmatici” dei grillini. Che, in sintonia con gli ex alleati leghisti e coi fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, continuano a vedere e indicare nell’Europa solo un terreno disseminato di trappole per l’Italia, anche dopo la sospensione del cosiddetto e “stupido” patto di stabilità, secondo una vecchia definizione di Romano Prodi, gli aumentati interventi della Banca Centrale di Francoforte per acquistare i titoli del debito pubblico italiano, difendendoli dalla speculazione finanziaria, e la proposta non dell’Italia ma della Commissione Europea di mettere a disposizione di Roma circa 180 dei 750 miliardi di euro del fondo in cantiere per la ripresa o per “la prossima generazione”. Di cui una parte sarà peraltro a fondo perduto.
all’Italia, iscriverà magari anche l’intervista del capogruppo del Pd al Senato in quella che ha appena definito sin nel titolo di un suo editoriale
sul Foglio “l’irritante lite di governo in forma di cazzeggio”. Ma è ormai tanto evidente quanto innegabile lo stato di sofferenza al quale è arrivata la maggioranza di governo. Che Emilio Giannelli ha forse esagerato nella sua vignetta di prima pagina, sempre sul Corriere della Sera”, a paragonare alla torre pendente di Pisa osservata, fotografata e sorvegliata da Conte in veste di turista, di presidente del Consiglio e chissà cos’altro. Quella è una pendenza un po’ troppo antica, storica e stabile per abbinarla al governo giallorosso.