Se il Mes fosse solo una marca di sigarette, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte se ne fumerebbe a decine di pacchetti in uno stesso giorno per fare contento il segretario del Pd Nicola Zingaretti e compagni, che ne fanno una questione di vita o di morte, si fa per dire, per il suo secondo governo a meno di un anno dalla sua formazione.
Se fosse
una variante o imitazione del famoso vermut Punt e Mes, Conte ne berrebbe a botti, anche a costo di essere portato di peso a casa dal portavoce Rocco Casalino, per dimostrare sempre a Zingaretti e c
ompagni quanto ne vada pazzo anche lui.
Se fosse il nome di uno spettacolo, come se l’è immaginato Vauro, il vignettista del Fatto Quotidiano molto caro e vicino al presidente del Consiglio, egli se lo andrebbe a godere in tutti i santi e profani giorni di programmazione per dimostrare la fedeltà di spettatore.
Purtroppo per Conte e per quanti tengono alla sua salute politica, o ne temono la caduta non sapendo o non avendo neppure il coraggio di pensare con chi e come sostituirlo, specie in questi tempi di perdurante epidemia virale, in cui sembrano ammesse solo elezioni amministrative e appuntamenti referendari, non elezioni politiche, il Mes è l’acronimo del meccanisno europeo di stabilità. Che è pronto a concedere all’Italia un credito a buon mercato dai 36 ai 37 miliardi di euro con cui finanziare il potenziamento del servizio sanitario messo a dura prova dal coronavirus e dintorni: un fondo di cui le regioni, competenti in materia, Zingaretti e compagni, come da vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera, vorrebbero dotarsi il più presto possibile. Ma che la componente maggioritaria, e pentastellata, del governo considera invece una infernale trappola dell’Unione Europea per farci morire tutti di fame, anziché di polmonite virale.
Il povero Conte, che per soddisfare i grillini ha dovuto fare la faccia e la voce feroce anche alla cancelliera Angela Merkel in persona, non può neppure pensare, per uscire da questo guaio, di tornare all’alleanza di governo con i leghisti di Matteo Salvini, anch’essi contrari al Mes, perché nel frattempo, prendendo molto sul serio proprio lui, il presidente del Consiglio, con quell’attacco sferrato nell’aula del Senato nell’estate dell’anno scorso all’allora ministro dell’Interno, i pentastellati non ancora passati direttamente alla Lega non vogliono neppure sentirne parlare.
Come
si fa allora ad uscire da questo fuoco, tra vignette, titoli di giornali, allusioni e insulti, come quei “”Me statori” gridati sul Fatto Quotidiano dal direttore Marco Travaglio in
persona a Zingaretti e compagni? A saperlo. Il guaio è e che a questo punto, anche Silvio Berlusconi, disposto a dare in qualche modo una mano a Conte nella gestione di
questo incendio, si è fatto prendere da altri problemi o urgenze, come il trasferimento del suo quartier
generale romano da Palazzo Grazioli nella villa dell’Appia Antica, o quasi, già goduta dalla
buonanima di Franco Zeffirelli.
Majora premunt anche per l’uomo di Arcore, specie ora che della sua condanna in Cassazione per frode fiscale nell’estate del 2013 stanno venendo fuori cose da colpo di Stato, o quasi. Ciò potrebbe restituire al Cavaliere tante stelle inimmaginabili, oltre che sgradite, persino per Grillo.
Ripreso da http://www.policymakermag.it
a leggere poi l’articolo che lo stesso Sgarbi si è dedicato sul Giornale e l’intervista rilasciata alla Verità per
difendersi dalle critiche ricevute -e tornare a insolentire, fra l’altro, la “stridula” collega di partito Mara Carfagna, che da presidente della seduta ne aveva ordinato l’espulsione- mi sono reso conto che i peggiori nemici di Sgarbi sono i suoi più sfegatati sostenitori.
dei giornalisti televisivi che ne hanno fatto quasi l’ospite fisso delle loro trasmissioni, lo hanno sommerso di messaggi di solidarietà paragonando addirittura
quelle foto dei commessi di Montecitorio che lo sollevano di peso per portarlo fuori dall’aula alla “deposizione di Cristo” dipinta, indifferentemente, dal Caravaggio esposto nei Musei Vaticani o dal Raffaello esposto alla Galleria Borghese.
a gridare “trojan” per riferirsi al sistema di infiltrazione adottato dagli inquirenti per acquisire tutto il traffico del telefonino di Luca Palamara: il magistrato che ha in qualche modo certificato quello che Ernesto Galli della Loggia ha appena definito sul Corriere della Sera “l’intrallazzo correntizio” e “collusivo con la politica” delle carriere giudiziarie. Su cui potrebbe ben starci anche un’inchiesta parlamentare, purché chiesta senza preventive condanne di massa per mafia. In verità, quando ne era stata disposta e annunciata l’espulsione, Sgarbi aveva già smesso di parlare di Palamara e del suo telefonino. E quella parolaccia ben si addice alle abitudini verbali dello Sgarbi furioso più del famoso Orlando.
voluto fare di quella della Camera “l’aula della menzogna”. Beh, caro Vittorio, consentimi di ricordarti che a questo già provvidero ai loro tempi Giacomo Matteotti col famoso discorso
sui brogli elettorali dei fascisti che gli sarebbe costatato la vita, Aldo Moro contestando l’esagitato deputato dell’estrema sinistra che reclamava processi “in piazza” alla Dc e Bettino Craxi quando sfidò nel silenzio assoluto i suoi critici ed avversari a smentire di non avere fatto ricorso anche loro al finanziamento illegale della politica.
Repubblica, da lui stesso fondata nel 1975 e passata via via di mano da un editore all’altro, sino ad arrivare al nipote di quello che lo stesso Scalfari definì una volta “l’avvocato di panna montata” Gianni Agnelli.
crocianamente inteso si è interrogato nello stesso titolo dell’editoriale per assegnargliene praticamente uno, abbastanza modesto, di prosecutore chissà sino a quando e come nel suo scomodo ruolo di presidente del Consiglio. Non ne ha più scritto, come qualche domenica fa, come di un possibile successore di Sergio Mattarella al Quirinale, magari per lasciare finalmente Palazzo Chigi al forse più attrezzato Mario Draghi.
vorrebbe più “concreto” e tempestivo nelle decisioni, vuoi per le ricorrenti, anzi crescenti voci di una mezza liaison politica con Silvio Berlusconi o qualche suo ambasciatore, vuoi per il recentissimo scontro a distanza con la cancelliera tedesca
Angela Merkel, di cui il presidente del Consiglio italiano non ha gradito la sollecitazione a usare il finanziamento del sistema sanitario italiano con i fondi del cosiddetto Mes ancora odiato nella maggioranza dai grillini, e non solo da Matteo Salvini e Giorgia Meloni nell’opposizione, il cronista o veggente di tante corse al Quirinale ha tolto improvvisamente dalla gara il povero Conte, trovandolo “persona non caratterizzata ad una carica di quel tipo”. Che si renderà libera, come si sa, non domani, non nel prossimo autunno, quando le gare saranno altre, di tipo elettorale e referendario, neppure l’anno prossimo, ma a febbraio del 2022.
sponsorizzazioni, l’ha spiegata lo stesso Scalfari scrivendo che “Conte
ha il pregio dell’intelligenza ma il difetto di una limitata volontà”, e dedicandogli “la canzone di un’antica reclame: canto quel motivetto/ che mi piace tanto/ e che fa dudu-dudù/ dudù- dudu”. Che poi, per caso, molto per caso, è anche il nome di un cagnolino bianco col quale ha giocato per qualche tempo Berlusconi con l’allora fidanzata Francesca Pascale.
Moro, pur lasciandovi “De Gasperi, Saragat, Ciampi e soprattutto Einaudi”. Moro, con la famosa “Balena Bianca” dedicatagli da Giampaolo Pansa, non più. Forse Scalfari deve limitarsi a partecipare alla festa odierna di Libero, con tanto di foto in prima pagina, per il ritorno della “Foca monaca” nelle acque dell’isola di Capraia. Di balena bianca, manco a parlarne.
i suoi interlocutori in Europa, irrompe sulla scena l’unico tema in grado ricomporne unità e combattività. E’ la caccia, o ricaccia, come preferite, alla “casta” degli ex parlamentari. Che, fra le proteste e le derisioni del solito Fatto Quotidiano, ma
anche dei meno soliti giornali del gruppo Monti Riffeser, dopo il pronunciamento della prima commissione interna del cosiddetto “contenzioso” del Senato possono tornare a sperare di riprendere i vitalizi nella misura originaria, tagliata sino all’ottanta per cento con le forbici festeggiate due anni fa sulle piazze tra brindisi e sventolii di striscioni e bandiere.
per l’Italia non per finirvi crocifisso, di certo, ma per inchiodarvi sopra, alla fine della partita riapertasi a Palazzo Madama, i malcapitati ex senatori che hanno osato rialzare la cresta. E che hanno messo in imbarazzo -va detto- persino la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, affrettatasi a rammaricarsi del “momento” in cui la partita si è riaperta e ad avvisare che nel successivo grado di giudizio o giustizia interna a Palazzo Madama i tagli potranno ben essere ripristinati. E l’armonia sociale tornare intatta, si fa per dire, nel Paese già messo a dura prova dagli effetti sanitari, economici e d’ogni altro tipo dell’epidemia virale.
con i grillini assegnandogli “il traguardo della legislatura”. Che dovrà pertanto arrivare alla scadenza ordinaria del 2023: cosa senz’altro utile, per carità, sia ai grillini che ai renziani, accomunati dalla circostanza di essere, diciamo così, sovrarappresentati nell’attuale Parlamento. I primi, per quanti deputati e soprattutto senatori abbiano già perduto per strada, portando ormai a Palazzo Madama la maggioranza sotto ogni livello di guardia, come ha appena dimostrato la bocciatura, nella sede opportuna, dei tagli apportati trionfalisticamente nel 2018 ai vitalizi degli ex parlamentari, continuano ad essere la forza politica più consistente delle Camere. I renziani, senza voler condividere lo sprezzo di quanti li accusano di avere più seggi parlamentari che voti, non riescono a tradurre nei sondaggi la loro pur notevole visibilità politica, con lo stesso Renzi a cavallo ogni giorno, in cifre consone al ruolo di protagonisti o di ago della bilancia che si sono proposti. Vedremo cosa succederà nelle elezioni regionali del 20 settembre prossimo, in cui il partito di Renzi potrebbe giocare anche in campo diverso dal Pd.
fare il critico d’arte e non l’avvocato. In veste forense egli avrebbe portato tutti i patrocinati alla condanna, anche quelli più chiaramente innocenti, per eccesso di difesa, diciamo così, facendo una grande e sistematica confusione fra pubblico ministero e giudice, entrambi insultati. Così è fatto Vittorio, fedelissimo al cognome che porta suo malgrado, bisogna ammetterlo, perché non poteva materialmente iscriversi da solo all’anagrafe più di 68 anni fa.
della propria intelligenza. E lo scrivo con amicizia, ripeto, anche a costo di perderla fra chissà quali e quanti improperi, come quelli di cui ha coperto, anche con insinuazioni personali che poteva risparmiarsi, le deputate della sua stessa parte
politica che hanno cercato di contenerne la furia contro i “mafiosi” che sarebbero un po’ tutti i magistrati, generalizzando il mercato correntizio delle carriere giudiziarie emerso dalla vicenda personale di Luca Palamara. E ciò proprio nel giorno in cui il Procuratore Generale della Cassazione avviava la procedura disciplinare contro lo stesso Palamara e altri nove magistrati coinvolti nei suoi metodi e nella sua logica.
Vittorio Feltri da quello dei giornalisti per sottrarsi alle sostanziali condizioni di vigilato speciale in cui si trova per le licenze che si concede nell’esercizio del suo pur legittimo dissenso da quasi tutto e tutti- ma a farlo rimanere. E a ritrovare il confine tra l’esercizio di una professione o di un mandato e lo spettacolo fine a stesso, giustamente contestatogli dalla presidente di turno della seduta della Camera: uno spettacolo dolorosamente necessario per interromperne un altro per niente necessario. Che, temendosi lontano dal Parlamento, si e ci ha per fortuna risparmiato Beppe Grillo.
un traffico di carriere non certo inventato da lui, né quando era presidente dell’associazione delle toghe né quando era consigliere superiore della magistratura, ha appena rilasciato una intervista al Riformista per spiegare “com’è nato il partito dei Pm”, cioè dei pubblici ministeri, cui lui è appartenuto. Oltre agli enormi poteri di cui dispongono nelle indagini e nei processi, costoro di fatto -ha spiegato o testimoniato Palamara- sono decisivi nella gestione delle carriere dei giudici, che dovrebbero invece essere terzi fra l’accusa e la difesa in un processo. Non a caso a presiedere l’associazione delle toghe sono generalmente dei pubblici ministeri.
Francesca Businarola. Che è andata controcorrente, diciamo così, rispetto alle posizioni associative e a quelle maturate, di conseguenza, dal suo collega di partito al vertice del Ministero della Giustizia, solo sul tema del sorteggio, da lei preferito, per la designazione dei membri togati, e maggioritari, del Consiglio Superiore della Magistratura. Essi potrebbero pure continuare
ad essere eletti, come prescrive la Costituzione, ma fra candidati sorteggiati, e non designati dalle correnti cui poi finiscono per obbedire. E magari sorteggiati, come ha praticamente proposto la leghista e avvocato di grido Giulia Bongiorno, fra i magistrati arrivati alla fine della loro carriera, esenti quindi dalla tentazione di precostituirne gli sviluppi. Buona idea, mi pare.
ordine rigorosamente alfabetico
ma entrambi richiamati in prima pagina, accomunati dalla preoccupazione che, specie dopo l’accordo raggiunto nel centrodestra sulle candidature ai vertici delle sei regioni in cui si voterà il 20 settembre, precipitino l’uno e l’altro: il segretario e il partito principale della sinistra.
n prima pagina dal manifesto- a chi da destra e da sinistra, cioè da Matteo Renzi al reggente ed altri del movimento pentastellato, oppone resistenze ad accordi elettorali col Pd nelle regioni ed altre amministrazioni locali in palio a settembre. Una sconfitta del Pd equivarrebbe ad una disfatta, con conseguenze scontate sul governo e forse persino sulla legislatura, visto che le elezioni anticipate saranno precluse -a causa dell’ultimo e cosiddetto “semestre bianco” del mandato presidenziale di Sergio Mattarella- solo dall’estate dell’anno venturo.
dall’associazione nazionale dei magistrati, di cui fu anche presidente prima di approdare al Consiglio Superiore nel Palazzo dei Marescialli- e degli altri uomini in toga che hanno partecipato con lui alla gestione correntizia delle carriere. Alcuni dei quali -una ventina- sono già sotto osservazione al Consiglio Superiore e potrebbero incorrere in guai disciplinari e persino giudiziari.
la quale, mentre l’associazione espelleva Palamara, il presidente Luca Poniz le rivendicava il merito di essersi guadagnato il consenso del ministro della Giustizia a buona parte delle proposte da essa formulate. E ciò a cominciare, naturalmente, dal veto ad ogni forma di sorteggio per la designazione dei consiglieri togati, neppure per una preselezione di candidati da sottoporre poi all’elezione di cui parla esplicitamente, e vincolativamente, l’articolo 104 della Costituzione, tanto decantato e difeso dagli organismi rappresentativi dei magistrati.
scorsa legislatura, nel Transatlantico di Montecitorio ancora aperto alla stampa parlamentare, per avere egli sostenuto la sera prima in un salotto televisivo che noi giornalisti, specie quelli pensionati, fossimo dei “lobbisti”, in grado meglio di altri di rappresentare gli interessi di aziende, settori e quant’altri, fra le anticamere delle commissioni e dell’aula, nel traffico di emendamenti, sub-emendamenti e varie a leggi finanziarie e provvedimenti specifici. Non ci lasciammo nel migliore dei modi, in quell’occasione, perché l’allora semplice deputato Bonafede mi disse che avrebbe ribadito le sue convinzioni alla prima occasione che gli fosse capitata. Lui è fatto così: combattivo, diciamo.
giudiziaria del suo dicastero fior di ministri con esperienze universitarie e forensi alle spalle maggiori delle sue per ragioni quanto meno anagrafiche. Penso, per esempio, al compianto Giuliano Vassalli. Che da ministro della Giustizia, tra l’autunno del 1987 e i primi mesi del 1988, propose e fece approvare rapidamente dalle Camere una legge di disciplina
della responsabilità civile dei magistrati che vanificava di fatto la via libera a quella responsabilità data a larghissima maggioranza dagli elettori in un referendum promosso dai radicali e sostenuto con particolare vigore dal Psi -il partito dello stesso Vassalli- sull’onda della vicenda di Enzo Tortora. Che era stato sbattuto in galera, in una retata di centinaia di camorristi poi risultati più presunti che veri, ed aveva dovuto subire il supplizio di un processo destinato a restituirgli dopo anni l’onore ma non la salute. Egli morì di tumore proprio nel 1988, pochi mesi dopo l’approvazione della legge Vassalli, all’ombra della quale molti altri errori giudiziari sarebbero stati compiuti senza danni, o quasi, per i loro responsabili.
molto di frequente, Goffredo Bettini sembra non bastare più a proteggere come prima
il segretario Nicola Zingaretti. Al quale qualcuno, e non solo il sindaco ex o post-renziano di Bergano Giorgio Gori, ha cominciato a ricordare la promessa di un congresso chiarificatore, d’identità e di linea politica, fatta prima che sopraggiungesse quel grande sedativo che è stato, per tanti versi, l’obbligato ricorso all’emergenza da coronavirus.