Singolari analogie fra le tensioni nella Chiesa e nella politica italiana

            Per quanto malmessa, con una maggioranza giallorossa  di governo e un’opposizione di centrodestra attraversate entrambe da tensioni e confusioni interne, fra le quali naturalmente fanno più notizia quelle della maggioranza, anche perché l’opposizione può contare sul vento che soffia sulle sue vele nelle elezioni che si susseguono a livello locale, la politica italiana potrebbe consolarsi di fronte allo spettacolo che sta offrendo oltre Tevere la Chiesa bimillenaria. Dove la eccezionale convivenza fra i due Papi, quello in carica a tutti gli effetti e quello emerito, Francesco e Benedetto XVI, comincia a scricchiolare, a dispetto delle foto vecchie e nuove sulle loro comuni preghiere.

            “E’ guerra tra i due Papi”, ha titolato il Giornale addentrandosi nel “Caos Vaticano”, per quanto Benedetto XVI il Giornale.jpegper evitare proprio questa lettura conflittuale avesse appena annunciato il ritiro della sua firma da un libro del cardinale africano Robert Sarah, che aveva acceso la miccia sul tema spinosissimo del celibato sacerdotale. Cui Francesco sarebbe stato o sarebbe incline a derogare almeno in alcune circostanze e località.

            Il cardinale non ha naturalmente gradito e ha documentato i rapporti avuti col Papa emerito prima e perché il libro uscisse, per cui il caos non è per niente rientrato, come nella politica italiana il caos, particolarmente quello della maggioranza di governo, non è rientrato dopo il chiarimento che a suo modo il segretario del Pd Nicola Zingaretti ha cercato incautamente di offrire con un “colloquio” pubblicato dal Messaggero.

         Dalla “chiesa sconsacrata del San Pastore a Contigliano”, nel Reatino, dove il cronista del Messaggero ha seguito i capoccia del Pd  impegnati a prepararsi alla verifica di governo di fine gennaio e ad un congresso di Il Messaggero.jpegsostanziale rifondazione del partito, programmato per i mesi successivi, Zingaretti ha praticamente scaricato sulle spalle, o altro ancora, dello scissionista Matteo Renzi, uscito dal Pd dopo avere innestato l’operazione del nuovo governo e a capo adesso di “Italia Viva”, le responsabilità delle turbolenze che insidiano la tenuta della nuova compagine ministeriale e della stessa legislatura. E si è attribuito il merito di essere l’unico, o quasi, elemento “stabilizzatore” della maggioranza e della governabilità, come si diceva una volta.

            “Renzi prima o poi -è stato attribuito a Zingaretti- proverà ad andare ad elezioni anticipate per riprendersi la scena”, come se l’avesse lasciata o perduta dopo avere trascinato lo stesso Zingaretti sulla strada dell’intesa con i grillini a conclusione della crisi agostana del governo e della maggioranza gialloverde provocata dal leader leghista Salvini:  l’”altro Matteo”, come lo chiama lo stesso Renzi facendogli in qualche modo l’occhiolino tra uno scontro e l’altro.

            E’ tutto chiaro allora nella confusione -scusate l’ossimoro- della maggioranza ? Per niente, come in Vaticano dopo il ritiro della firma di Benedetto XVI dal libro del cardinale Sarah. Lo stesso Zingaretti, nel medesimo colloquio attribuitogli -ripeto- dal Messaggero, ad un certo punto si è lasciata scappare “la consapevolezza” che “un’eventuale tensione del Movimento 5 Stelle potrebbe riverberarsi sul governo”, a dispetto del “sano rapporto” di Conte col Pd.

            Considerate le ben diverse dimensioni parlamentari del movimento grillino e di quello di Renzi, in attesa di verificare quelle elettorali quando si potrà o si dovrà farlo, si stenta francamente a credere che davvero i pericoli maggiori nella coalizione giallorossa provengano da Renzi e dalla sua “Italia Vera”. Il focolaio dell’infezione, o dell’infiammazione, come preferite, sembra essere quello grillino, con le lotte interne sempre più evidenti e cruente: un focolaio cui pure Zingaretti, volente o nolente, ha finito per appendere anche il destino del suo partito nel momento in cui ha cercato, e cerca, di trasformare in scelta strategica, di lungo respiro, il rapporto di collaborazione o alleanza  con i pentastellati che Renzi considera invece emergenziale e temporaneo, in funzione antisalviniana.

           Non resta che sperare Rebzu e Zingaretti.jpegche prima o poi Zingaretti e Renzi si confessino direttamente fra di loro e si mettano magari a pregare in una chiesa, sconsacrata o no, come i due Papi nelle immagini storiche reperibili in qualsiasi archivio elettronico.

 

 

 

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La prima pagina del Foglio curiosamente negata a un ricordo di Giampaolo Pansa

 

            Conosco bene la singolarità particolarità e quant’altro del giornale fondato e a lungo diretto da Giuliano Ferrara –Il Foglio-prima di passarne lIl Foglio.jpege redini a Claudio Cerasa,  senza tuttavia smettere giustamente di occuparsene a tempo pieno. E Dio solo sa quanto spazio anche fisico riesca a riempire Giuliano.

            Ho peraltro collaborato per un certo tempo  con lui, pur dopo uno scontro dei suoi, a testa bassa, quando dirigevo Il Giorno e Ferrara sul Corriere della Sera, con le sue “bretelle rosse”, mi contestò la gestione di una letteraccia di Palmiro Togliatti, fotocopiata dal mio corrispondente da Mosca  negli archivi degli ormai sfasciati servizi segreti sovietici, sul destino infame ma meritato, secondo lui, dei prigionieri italiani in Russia durante la seconda guerra mondiale. “Sai, è un po’ cresciuto sulle ginocchia di Togliatti”, lo giustificò Bettino Craxi al telefono ricordandomi le funzioni di segretaria del leader comunista svolte a lungo dalla mamma di Giuliano.

            Conosco anche la permalosità abituale di noi giornalisti quando cerchiamo di farci le pulci a vicenda. Eppure non me la sento di nascondere  lo stupore che mi ha procurato il trattamento riservato alla morte e alla storia professionale e umana di Giampaolo Pansa dal Foglio. Che gli ha negato anche una breve, come si dice in gergo tecnico, in prima pagina. Dove di solito finiscono giustamente i morti, diciamo così, eccellenti per onorarne la memoria, per rendere gli onori quando si tratta di un avversario o di un concorrente.

            Al Giampa sono stati dedicati invece una breve “preghiera”, pur arguta e onorevolissima, di Camillo Langone in seconda pagina, e un ricordo meno breve e ugualmente onorevolissimo, per carità, di Sergio Soave nell’ultima pagina. Che -lo riconosco- è tale solo di numero perché vi si trovano anche le lettere, preziose per la selezione che se ne fa in redazione  e per le risposte che ogni tanto si meritano, la rubrica “Alta Società” del simpatico Carlo Rossella e, questa volta, proprio sotto l’articolo di Soave col nome di Pansa nel titolo, la celebre “piccola posta” di Adriano Sofri.

            La buonanima di Pansa, insomma, con un po’ di buona volontà  può considerarsi in buona compagnia pansa.jpegnella collocazione riservatagli dal quotidiano di Giuliano, e ora anche di Cerasa, che contano insieme più del generoso editore subentrato a quelli originari, fra i quali Veronica Lario, l’allora moglie di Silvio Berlusconi, ancora oggi affettuosamente e simpaticamente chiamato “l’amor nostro” dai foglianti, anche se ogni tanto gli riservano cattive sorprese, com’è del resto giusto che avvenga nei rapporti fra persone libere e d’ingegno. Ma, insisto, anche a costo di apparire villano e insolente, un posticino in prima pagina sul Foglio la morte di un collega come Giampaolo Pansa se lo meritava.  E non si può neppure dire, tragicamente, che sarà per la prossima volta.

           

Dietro le quinte del teatrino della giunta del Senato per il processo a Salvini

            L’ultimo caso emblematico dello spettacolo d’ipocrisia che riesce a produrre la politica  è quello in corso nella giunta delle immunità del Senato. Dove si sta giocando il primo tempo della partita apparentemente giudiziaria ma in realtà tutta politica, appunto, contro l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini per il cosiddetto affare Gregoretti. Che è il nome della nave della Guardia Costiera a bordo della quale più di cento immigrati, dopo essere stati soccorsi, rimasero bloccati per qualche giorno nel porto di Augusta a fine luglio dell’anno scorso, in attesa che fosse concordata la loro distribuzione fra vari paesi europei.

            Per il cosiddetto tribunale dei ministri di Catania fu sequestro di persona, escluso invece dalla Procura della Repubblica, cioè dall’accusa. Per Salvini, e per il centrodestra che lo appoggia, fu invece legittima azione in difesa dei confini nazionali dall’immigrazione clandestina, come nell’analoga vicenda dell’anno precedente sulla nave Diciotti, anch’essa della Guardia Costiera, che si  risolse col rifiuto del Senato di autorizzare il processo. Ciò avvenne con i voti del centrodestra e dell’allora maggioranza gialloverde di governo, a trazione numericamente grillina. Ma stavolta i grillini hanno cambiato idea e posizione, guarda caso dopo la rottura politica con i leghisti, ritrovandosi con la sinistra a favore del processo.

            Nella giunta delle elezioni, come nell’aula del Senato, visto anche che si dovrà votare in modo palese per regolamento, c’è a favore del processo una maggioranza che però non ha il coraggio di assumersi la responsabilità del sì prima delle elezioni del 26 gennaio in Emilia-Romagna Salvini.jpege in Calabria. Essa teme con quel sì di favorire Salvini per le buone ragioni che evidentemente sa a disposizione del leader leghista in veste di vittima di una macchinazione politica. Non a caso l’ex ministro sfida in questi giorni i giallorossi della politica a mandarlo sotto processo, così come sfida la magistratura ad allestire a Catania un’aula capace di contenere tutto il pubblico a lui favorevole e desideroso di farsi sentire e vedere.  

            Per ritardare il voto la maggiorana di governo ricorre a sostanziali espedienti, come quello adoperato appunto in giunta da un grillino chiedendo al tribunale dei ministri un supplemento di documentazione sanitaria sugli immigrati trattenuti a bordo della nave Gregoretti. Ma, messa ai voti dal presidente della giunta, che è il forzista Maurizio Gasparri, questa mossa dilatoria è stata respinta a parità di voti: 10 contro 10. La maggioranza, battuta per alcune assenze, fra le quali due per missione,  ha allora protestato accusando di scorrettezza il presidente per avere lui stesso partecipato alla votazione,  profittando di chi non c’era e rendendosi decisivo per il risultato.

            Gasparri, che presiede la giunta proprio perché esponente dell’opposizione, cui spetta questo ruolo di garanzia, ha reagito rivendicando i suoi diritti parlamentari, essendo peraltro dichiaratamente e legittimamente convinto delle ragioni di Salvini, per il quale proporrà il rifiuto dell’autorizzazione a processarlo quando si tratterà di votare.

             A proposito proprio della data di questo voto in giunta Gasparri ha deciso di affidare all’ufficio di presidenza dell’organismo di Palazzo Madama, anziché ad una trattativa o a una consultazione con la presidente del Senato, la decisione di rispettare o no anche in quella sede la sospensione dei lavori parlamentari disposta dalla conferenza dei capigruppo a cominciare dal 20 gennaio per la coincidenza con l’ultima settimana di campagna elettorale per le regionali emiliano-romagnole e calabresi. Ma disgraziatamente per la maggioranza il 20 gennaio, lunedì, scadranno anche i tempi regolamentari a disposizione della giunta per evadere, diciamo così, la pratica trasmessa dal tribunale dei ministri di Catania.

            La maggioranza, a questo punto, sempre col proposito di non favorire la campagna elettorale di Salvini, ha preteso e pretende  che Gasparri non facesse e non faccia votare sulla scadenza del 20 gennaio, accampando il rispetto dovuto agli assenti e a impegni che il presidente avrebbe preso in tal senso, ma da lui negati perché contrari al regolamento, almeno nei termini e nei tempi indicati dai suoi critici ed avversari politici.

            Questi sono i fatti nella loro essenza e chiarezza, al netto di tutte le manovre, i pretesti e quant’Stampa suabbazia.jpegaltro: fatti nei quali convergono le esigenze tattiche contro Salvini di grillini, piddini, renziani e sinistra di “liberi e uguali”. E dei quali si guardano bene dal discutere i piddini nel ritiro in cui sono Il Fatto sul Pd.jpegimpegnati in questi giorni un’abbazia del Reatino, in vista della verifica di governo di fine mese, sempre dopo le elezioniRolli sul Pd.jpeg regionali del 26 gennaio, e poi di un congresso che vorrebbe essere di rifondazione del partito E’ un appuntamento, quello nell’abbazia, che si è prestato a non pochi titoli di giornale, commenti e vignette più o meno sfottenti, e forse non immeritati, perché la trasparenza non va solo invocata ma anche praticata nella pur dura lotta politica in cui si è impegnati.

 

 

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Il giornalismo italiano orfano di Giampaolo Pansa e del suo coraggio

Per la quantità degli importanti giornali ai quali ha collaborato nella sua lunga attività professionale, qualche volta andandosene e tornandovi, com’è accaduto al Corriere della Sera, che se lo era ripreso da poco destinando i suoi articoli ad una rubrica dal significativo titolo “Ritorno in Solferino”, poteva essere considerato un nomade Giampaolo Pansa: Giampa per gli amici, appena scomparso all’età di 84 anni.

Al di là dell’amicizia, quando si era creata una certa confidenza fra di noi, quasi coetanei, con soli tre anni di distanza l’uno dall’altro, non ho mai smesso di considerare Giampa un Maestro, con la maiuscola: come altri davvero più anziani e quindi con tanta maggiore esperienza. Penso, in particolare, a Indro Montanelli, Enzo Bettiza e l’ancor vivo Sergio Lepri, di cui ho appena scritto sul Dubbio recensendone una biografia.

Debbo dire che è proprio strana questa nostra editoria giornalistica, non a caso d’altronde Giannelli su Pansa.jpegaffollata di editori, diciamo così, di risulta: spesso più improvvisati che professionali, o più impuri che puri, come si dice comunemente per dolersi di quanti usano i loro giornali più per coltivare meglio altri e prevalenti loro interessi, senza la trasparenza distintiva come quella della nostra testata, che per tutelarne e diffonderne il successo nelle edicole. E’ proprio strana questa nostra editoria, dicevo, se ad uno come Pansa non è mai capitato di diventare direttore di un quotidiano o di un settimanale, fra quelli per i quali ha lavorato o quelli che avrebbero potuto benissimo assumerlo solo per farsi da lui guidare.

Vi confesso che quando divenni direttore del Giorno, ancora di proprietà dell’Eni, il primo al quale pensai con un certo imbarazzo fu proprio lui, Giampa, che per quel quotidiano era passato lasciando tracce di tutto rispetto, come alla Stampa, al Corriere e poi a Repubblica, a Panorama, all’Espresso, al Riformista, a Libero, alla Verità.  Gliene parlai e lui mi tolse subito dall’imbarazzo dicendo, credo poco sinceramente, solo per garbo nei miei riguardi, che non vi aveva mai aspirato perché gli piaceva troppo scrivere. E dirigendo bene un giornale, non se avrebbe avuto più il tempo, o non gliene sarebbe rimasto abbastanza.

La verità è che Giampa- diciamolo con franchezza e onestà- era troppo libero, e troppo imprevedibile nella sua libertà, perché un editore, specie se impuro, con interessi cioè diversi e prevalenti rispetto al giornale posseduto, gliene affidasse il timone. Peccato davvero, perché sarebbe stato un direttore della stessa eccellenza dei suoi articoli, delle sue inchieste, delle sue polemiche, dei suoi tantissimi libri, delle sue immagini, con le quali sapeva dare corpo efficacissimo ai suoi giudizi.

Penso, per esempio, alla “balena bianca” alla quale volle e seppe  paragonare la malandata Democrazia Cristiana, che pure sembrava allora inaffondabile, non immaginando nessuno che la cosiddetta prima Repubblica potesse morire non tanto dei suoi mali quanto degli sconfinamenti della magistratura e dell’uso, o abuso, fattone da partiti, uomini e gruppi di potere emergenti, o rivelatisi incapaci di vincere le loro battaglie con i mezzi ordinari. Penso all’”Elefante rosso” con cui egli battezzò quella potente macchina organizzativa e politica del Pci; o al “parolaio rosso” col quale Pansa seppe e volle liquidare, agli albori, o quasi, della cosiddetta seconda Repubblica, l’allora leader della Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti, Che nel 1998 affondò il primo governo di Romano Prodi: quello dell’Ulivo, cui sarebbe subentrato senza un passaggio elettorale, pur logico col nuovo sistema maggioritario, un governo di Massimo D’Alema sostenuto da transfughi del centrodestra assemblati alquanto disinvoltamente da quel giocoliere che sapeva essere, quando ne aveva voglia, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Ma penso anche al “Dalemoni” partorito dall’immaginazione di Pansa, sempre agli albori della cosiddetta seconda Repubblica, di fronte alle prove d’intesa, sopra e sotto traccia, fra D’Alema e Silvio Berlusconi. Che arrivarono ad un palmo dall’accordo vero e completo prima in una delle commissioni bicamerali sucedutesi per la riforma costituzionale, e poi addirittura in un turno di elezioni presidenziali per l’avvicendamento al Quirinale alla scadenza del mandato del presidente in carica. A quest’ultimo proposito fu proprio all’ultimissimo momento che Berlusconi si tirò indietro, temendo più la sorpresa dei suoi ancòra tanti elettori che la delusione dell’amico e consigliere Giuliano Ferrara. Che sull’intesa aveva un po’ scommesso, consapevole che da soli né il centrodestra né il centrosinistra, nonostante le speranze accese dal carattere prevalentemente maggioritario del nuovo sistema elettorale, ce l’avrebbero fatta a governare l’Italia tenendosi stretta la famosa Costituzione “più bella del mondo”, di cui parlava la sinistra ogni volta che si cercava seriamente di cambiarla.

Negli ultimi tempi, prima di riapprodare al Corriere, e rompendo con i giornali di sostanziale centrodestra che l’ospitavano da quando la sinistra lo aveva  praticamente espulso,  trattandolo come un Il sangue dei vinti.jpegtraditore per avere voluto raccontare e ricostruire con onestà la Resistenza, nel rispetto dei “vinti” e non solo dei vincitori, spesso sanguinari al di là delle esigenze di una pur drammatica guerra civile; negli ultimi tempi, dicevo, Pansa era diventato molto pessimista sulle sorti del Paese. Egli era sopraffatto dall’incompetenza dei grillini, dai limiti della sinistra e dalla paura del “seduttore autoritario” Matteo Salvini. Una volta si lasciò scappare persino un mezzo auspicio che venisse fuori un generale a rimettere ordine, come capitò di pensare a Ugo La Malfa nel 1978 reagendo al sequestro di Aldo Moro con la richiesta ad altissima voce, nel famoso “transatlantico” di Montecitorio, della pena di morte. Che solo un regime militare avrebbe potuto e potrebbe ripristinare.

Autore frequente di scoop, a volte generati solo dalla sua capacità di previsione e di lettura del dibattito politico, che lo incuriosiva anche negli aspetti fisici, come dimostrava scrutando Il binocolo di Pansa.jpegcol binocolo dalle postazioni della stampa palchi e tribune dei congressi di partito, nell’epoca in cui erano ancora di moda questi riti della democrazia, credo che il più clamoroso resti quello del 1976.

A crisi ancora aperta dopo le elezioni anticipate provocate dai socialisti di Francesco De Martino, mentre democristiani e comunisti trattavano la formazione di una maggioranza emergenziale di cosiddetta solidarietà nazionale, destinata a realizzarsi attorno ad un  governo monocolore dc presieduto da Giulio Andreotti, l’allora inviato del Corriere della Sera Pansa seppe rompere letteralmente la corazza politica del segretario del Pci Enrico Berlinguer. Che l’indossava fuori e dentro il Bottegone, come si chiamava l’enorme palazzo di via delle Botteghe Oscure che era la sede del maggiore partito comunista d’Occidente.

Alla presenza del tanto vigile quanto insofferente Tonino Tatò, il portavoce e molto altro del segretario del Pci, Pansa seppe strappare a Berlinguer un annuncio così clamoroso e  imbarazzante Berlinguer.jpegper i militanti da essere ignorato, cioè censurato, il giorno dopo dal giornale ufficiale del partito. In particolare, sapendo bene quanto forti fossero i timori fuori e dentro l’Italia di una maggioranza condizionata dai comunisti, e dai loro rapporti già difficili ma pur sempre forti con l’Unione Sovietica, Berlinguer disse di considerare l’autonomia del suo partito più al sicuro sotto l’ombrello della Nato.

Poi, in verità,  dopo il sequestro e la morte di Aldo Moro per mano delle brigate rosse, anche per evitare il rafforzamento di quell’ombrello col riarmo missilistico dell’Alleanza Atlantica di fronte agli SS 20 sovietici schierati nell’est europeo contro i paesi occidentali, lo stesso Berlinguer si sarebbe tirato indietro dalla maggioranza tornando all’opposizione, all’inizio del 1979. Ma quell’annuncio strappatogli da Pansa era detonato come una bomba sullo scenario politico italiano e internazionale. Il segretario del Pci aveva scavato con quelle parole un solco destinato a produrre i suoi frutti anche dopo la ritirata del 1979. I rapporti del Pci con Mosca non sarebbero più tornati gli stessi. E la stessa Unione Sovietica sarebbe finita entro una ventina d’anni.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Il governo Conte sotto il tiro incrociato dei giornali su più versanti

              In partenza per la Turchia e altrove  allo scopo di rivitalizzare, diciamo così, l’immagine internazionale del suo governo, il presidente del Consiglio ha avuto un bel dire, in una intervista Conte sul Corriere.jpegal Corriere della Sera, che “l’incisività e la credibilità dell’Italia in politica estera è fuori discussione”. E che “con la Libia siano in prima linea” , parlando “con tutti non per ambiguità ma per alimentare il dialogo” attorno alla “nostra posizione limpida e trasparente, politicamente insuperabile” contro una soluzione militare del conflitto in corso in quel Paese fra intromissioni esterne di ogni tipo.

            Al presidente del Consiglio ha qualche modo risposto  lo stesso Corriere della Sera con un Coorriere.jpegeditoriale, a dir poco, urticante contro le prove di incoerenza, di confusione e di “sprovvedutezza” date Paolo Mieli su Conte.jpegdallo stesso Conte e dal suo ministro degli Esteri Luigi Di Maio, a volte persino in concorrenza fra di loro. “Provare a presentarsi  come statisti in grado di sanare, sia pur provvisoriamente, un conflitto che va avanti da otto, nove anni, è stata una ingenuità”, ha scritto l’ex direttore Paolo Mieli. Il quale ha aggiunto, impietosamente, che “le pezze successive- l’incontro di Conte con Haftar e, dopo tre giorni, con Sarraj e il tour diplomatico di Di Maio- non sono servite a nascondere il buco”.

            In un’altra parte dello stesso editoriale Mieli ha accomunato Conte a Matteo Renzi nella bruttissima pratica di scambiare quello degli Esteri per un Ministero di secondaria importanza o di consolazione: Renzi mandando a suo tempo alla Farnesina Angelino Alfano, digiuno di politica internazionale essendo stato ministro della Giustizia prima e dell’Interno poi, e Conte spedendovi Di Maio, appunto, per ripagare il capo ancòra del Movimento 5 Stelle della mancata conferma, nel suo secondo governo, a vice presidente del Consiglio, dopo che nel primo gli aveva fatto fare anche il pluriministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro.

            Con un tiro ancora più alto o più lungo, come preferite, lo stesso direttore in carica del Corriere della Sera, Luciano Fontana, ha colto l’occasione offertagli da un lettore nella pagina, diciamo così, della posta per lamentare l’abitudine anche di questo governo, nato con tanti buoni propositi e impegnato a preparare una verifica per scrivere un’agenda valida addirittura sino al 2023, cioè sino alla fine ordinaria della legislatura, di “fare poco o nulla per non perdere consensi”. Ma anche -mi permetterei di aggiungere per spiegare la pratica dei rinvii o dei provvedimenti che escono dal Consiglio dei Ministri con la formula “salvo intese”-  per evitare che ora questa e ora quella componente della maggioranza rompa e provochi una crisi. Alla  fine della quale la prossima volta sarà ben difficile evitare la soluzione dello scioglimento delle Camere e delle elezioni anticipate, peraltro in un clima di estrema confusione anche istituzionale. Stanno infatti per intrecciarsi ben due referendum: uno abrogativo dell’attuale legge elettorale e l’altro confermativo della riduzione dei seggi parlamentari.

            L’altro grande giornale –la Repubblica– ha sparato, diciamo così, sul governo con un titolone di prima pagina che gli contesta di avere lasciato invariato il cosiddetto decreto di sicurezza approvato Repubblica.jpegdalla precedente maggioranza gialloverde. Esso fu promulgato nel testo della conversione parlamentare tanto malvolentieri dal capo dello Stato da chiedere con una lettera ai presidenti delle Camere e del Consiglio correzioni condivise e propostesi dalla nuova maggioranza giallorossa, ma rimaste per aria.

            Altri giornali hanno attaccato il governo da destra, diciamo così, reclamando le dimissioni o comunque la sostituzione della ministra della Pubblica Istruzione Lucia Azzolina, ancora fresca di nomina e di giuramento al Quirinale, per presunto o reale plagio -si vedrà- praticato, e da lei fermamente negato, nella tesi elaborata per l’abilitazione all’insegnamento.

            Pienamente, si fa per dire, soddisfatto del governo si è mostrato invece Il Fatto Quotidiano sentendo odore di “revoca” davvero delle concessioni autostradali punitive della famiglia Benetton: Il Fatto.jpeguna festa, quella del giornale di Marco Travaglio per l’operatività governativa guastata solo dalla “santificazione” salottiera di Bettino Craxi nel pomeriggio domenicale di Rai1 Dessì.jpegpraticata in tandem dalla figlia Stefania e dall’amica Mara Vernier in vista del ventesimo anniversario della morte del leader socialista. Che peraltro comincia ad essere rimpianto pubblicamente anche fra i grillini, per quanto dissidenti, come il senatore Emanuele Dessì.

Matteo Renzi fa il cinese con Conte e il Pd “nuovo” di Nicola Zingaretti

            Persino Eugenio Scalfari, che è il quasi decano del giornalismo italiano dopo il più che centenario Sergio Lepri, trova da qualche tempo difficoltà a scegliere per gli  appuntamentiScalfari.jpegdomenicali con i lettori della “sua” Repubblica l’argomento o l’evento di politica interna e persino  internazionale su cui attardarsi, tanto è confusa o sgradita la situazione. Pertanto egli ricorre alla filosofia, alla religione, alla cultura e via dicendo per sollevarsi lo spirito. Lo ha appena confessato  quasi scusandosene col pubblico, prima di approdare stavolta alla musica.

            Marco Travaglio, da giovane e svelto com’è, non ha invece esitato a promuovere ad evento della settimana la resurrezione al terzo Conte risorto.jpeggiorno, come Gesù Cristo, del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, da lui notoriamente molto apprezzato. Che, sommerso Conte con Sarraj.jpegdalla gaffe unanimemente considerata dello spericolato e mancato incontro a Palazzo Chigi fra i due rivali che si contendono la Libia a suon di armi e di alleanze o pertugi internazionali, è riuscito dopo la visita del solo generale Haftar a far venire a Roma anche al Sarraj, il premier di Tripoli  riconosciuto dall’Onu. Non è stato l’incontro a tre che Conte avrebbe desiderato, e che invece sembra che stia per svolgersi al Cremlino con la più felice o fortunata regìa di Putin, ma non fa niente, almeno nella visione e per i gusti del Fatto Quotidiano.

            Eppure ai fini della salute e della durata del governo italiano la notizia di giornata, o della settimana che si chiude, è un’intervista di Matteo Renzi. Che -non si è ancora capito se ancora dalla Cina, raggiunta nei giorni scorsi come conferenziere, o appena tornato in Patria- ha affidato al Corriere della Sera preoccupazioni, moniti e quant’altro per come procedono gli affari ministeriali e, più in generale, politici. E’ sempre più improcrastinabile, secondo lui, un “cambio di passo” del governo Conte, che pure egli ha così improvvisamente voluto nella scorsa estate interrompendo la dieta di pop-corn scelta per sé, e imposta poi al partito di cui ancora faceva parte, di fronte all’alleanza fra grillini e leghisti realizzatasi all’inizio della legislatura.

            “Adesso -ha detto Renzi dopo Renzi sulle somme.jpegessersi vantato della svolta estiva contro l’altro Matteo, cioè Salvini- va evitato l’immobilismo. Conte si è preso qualche giorno per la verifica: aspettiamo le elezioni in Emilia” del 26 gennaio, in contemporanea con quelle in Calabria, neppure citate dall’ex presidente del Consiglio, “e poi tireremo le somme”. Che, senza voler fare l’uccello del malaugurio, non sembra proprio un modo di dire tranquillizzante. Sa tanto, piuttosto, di quello “stai sereno” dallo stesso Renzi indirizzato nel 2013 come segretario del Pd fresco di elezione all’allora presidente del Consiglio Enrico Letta. Che, apprestatosi ad una verifica, si ritrovò sfrattato da Palazzo Chigi.  

            Chiamato nell’’intervista a pronunciarsi anche sui cambiamenti propostisi nel e per il proprio partito da Nicola Repubblica sul Pd.jpegZingaretti, incoraggiato da Repubblica con un titolone da rima come “Tanti sì al nuovo Pd”, Renzi si è praticamente fregato le mani per la soddisfazione, pensando ai vantaggi che potrebbero derivare, sulla strada della concorrenza verso il centro o il versante moderato, alla sua Italia Viva.

            “Se pensano -ha detto il senatore di Scandicci parlando di Zingaretti e degli altri ex compagni o Renzi sul Pd .jpegamici di partito- che la soluzione sia davvero aprire alle Sardine, alla società civile recuperandoun rapporto con la Cgil o assorbendo Leu”, cioè la formazione creata contro di lui nel 2017 da Pier Luigi Bersani e Massino D’Alema, in ordine rigorosamente alfabetico, “noi di Italia Viva Renzi sul Pd ".jpegnon saremo in difficoltà. Anzi, ci si apre un’autostrada, Spostandosi sulla piattaforma di Corbyn o di Sanders”, il laburista inglese sconfitto  recentemente nelle elezioni britanniche dai conservatori e il senatore democratico americano in corsa contro Trump, “si perde. Noi siamo un’altra cosa: radicalmente riformisti. In bocca al lupo a ciò che verrà dopo il Pd. Italia Viva sarà una casa accogliente per tutti i riformisti”. Se questa di Renzi non è una sfida, destinata in quanto tale a moltiplicare anche i problemi della comune maggioranza giallorossa di governo, ditemi voi come chiamarla.

 

 

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Il portavoce degli anni d’oro di un Fanfani orgoglioso che lui non votasse Dc

Fino all’estate del 2017, quando morì, ogni volta che scrivevo, di qualsiasi cosa e in qualsiasi posto, avevo letteralmente il terrore di deludere Enzo Bettiza. Che avevo avuto la fortuna di conoscere nei giorni della fondazione e dell’esordio del Giornale di Indro Montanelli, diventandone quasi un fratello, più ancora di un collega, perché condividevamo sempre amicizie e inimicizie, simpatie e antipatie, e giudizi sui fatti.

Non a caso, del resto, insieme rompemmo con Montanelli nel 1983 su quel fenomeno politico e umano che era Bettino Craxi, e andammo a  scrivere altrove fra le doglianze dello stesso Craxi. Che vide giustamente nella nostra partenza, o impazienza, il rischio che il Giornale, al cui pubblico moderato egli teneva nella modernizzazione del Psi e, più in generale, della sinistra che si era proposto,  si allontanasse per reazione persino dal suo anticomunismo così clamorosamente dichiarato. Egli capì che se non c’eravamo riusciti noi a convincere Montanelli della radicalità e autenticità della nuova linea autonomista del Psi, ancor meno ci sarebbe riuscito l’editore Silvio Berlusconi, dalla cui dipendenza o indipendenza, come preferite, Indro era letteralmente ossessionato. Con lui infatti il fondatore del quotidiano finì per rompere rovinosamente una decina d’anni dopo, perdendo addirittura il Giornale creato nel 1974 da una costola del Corriere della Sera sinistreggiante sotto la direzione di Piero Ottone.

Morto Bettiza, mi è rimasto il terrore d deludere con i miei articoli o ogni altro intervento Sergio Lepri, il vero decano del giornalismo italiano con i 100 anni compiuti qualche mese fa e brillantemente portati. Eppure con Lepri non ho mai lavorato. O, meglio, non ho mai avuto l’onore e il piacere di lavorare. Per ammirarlo e farmene un mito professionale mi è bastato e avanzato non la devozione -sarebbe troppo, e troppo ipocrita- ma il terrore che ne avevano come direttore tutti i colleghi dell’Ansa con cui mi è capitato per più di una trentina d’anni- quanto è durata la sua direzione della principale agenzia di stampa italiana- le vicende mai semplici e indolori della politica italiana. Ne avevano, i suoi giornalisti e miei colleghi, il terrore per i loro errori che potevano incorrere nella sua attenzione ed essere contestati. In compenso essi avevano la gratificante certezza che solo quegli inconvenienti avrebbero potuto compromettere il loro lavoro, non la protesta, il capriccio, il malanimo e quant’altro di un politico, di qualsiasi colore e grado.

Lo stesso Lepri, raccontandosi con altri colleghi selezionati da Giuseppe Fedi in un libro su “quelli della lettera 22” sempre “a caccia di notizie”, appena pubblicato da Media&Books, si è giustamente vantato dell’abitudine di presentarsi così ai redattori via via assunti: “Non conosco le sue idee politiche e non le voglio conoscere. Soprattutto non le voglio conoscere dalle notizie che scrive. Quelle notizie devono poter essere pubblicate così come sono dal Popolo democristiano e dall’Unità comunista. Se ci sono notizie delicate, che possono dispiacere a qualche autorità me le venga a mostrare. Glielo firmo io”.

Sempre lui ha raccontato del potente ministro democristiano dell’Interno Paolo Emilio  Taviani respinto nell’attacco ad una notizia non gradita anche quando cercò di metterla, diciamo così, sulAnsa.dpf.jpeg piano economico, ricordando che l’Ansa era finanziata in qualche modo anche dallo Stato, e non solo dai giornali associati. E mi ha stupito un Aldo Moro per me completamemte inedito, per quanto ben conosciuto ed anche frequentato personalmente, che gli chiese una volta, all’avvio dell’esperienza del centrosinistra, di non dare risalto o addirittura ignorare un discorso particolarmente critico di Giovanni Malagodi.

Un’altra volta Moro ci riprovò col suo capo ufficio stampa, Corrado Guerzoni, chiedendo di non fare la notizia della nomina del suo amico e segretario Sereno Freato a consigliere d’amministrazione Ansa.jpegdell’Enel, per quanto contestata da un’interrogazione parlamentare di Oscar Luigi Scalfaro. Al rifiuto di Lepri, e a notizia quindi regolarmemte diffusa dall’Ansa, Guerzoni dovette telefonare personalmente a tutti i giornali perché la ignorassero, riuscendovi con le sole eccezioni de La Nazione e del Secolo d’Italia, il giornale della destra missina. Per la Nazione valse il no opposto dal direttore Enrico Mattei, che a Moro non gliene faceva passare una, ma per il giornale del Movimento Sociale valse solo “la mancanza di voce” confessata dallo stesso Guerzoni a Lepri per spiegare  la rinuncia a fare la sua “cinquantatreesima telefonata”.

Già portavoce personale e poi capo ufficio stampa di Fanfani al massimo del suo potere, prima del suo approdo all’Ansa, e pur essendo lui di provenienza e convinzione dichiaratamente liberale, Lepri si sentì girate così dall’allora presidente del Consiglio alcuni giornalisti che gli avevano chiesto notizie su un problema di cui si era appena occupato il governo: “Rivolgetevi a Lepri e fidatevene perché neppure vota per la Dc”.

Chi e cosa voti oggi Lepri non riesco neppure a immaginarlo. E non oso neppure chiederlo a questo mitico, monumentale collega di professione.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

L’inutile tentativo di Di Maio di resistere al fuoco amico sotto le stelle

            Colpito dal fuoco amico del Fatto Quotidiano con la notizia che gli attribuiva la decisione di rinunciare alla guida del Movimento delle 5 Stelle già prima delle elezioni regionali  di fine mese in Calabria e in Emilia-Romagna, giusto per non lasciarsi intestare anche il nuovo fiasco, dopo quelli delle elezioni europee di maggio scorso e successive, Luigi Di Maio ha opposto una smentita così formale e debole che è ormai entrato su tutti i giornali in una camera di rianimazione dalla quale sembra destinato a non uscire più.

            Sullo stesso Fatto Quotidiano campeggiano in prima pagina le foto dei possibili successori Il Fatto.jpege il direttore in persona, Marco Travaglio, gli dedica con un misto di generosità e di orgogliosa furbizia, un editoriale per rendergli “l’onore delle armi”. Che da L'onore delle armi.jpegquelle parti è sempre una cosa apprezzabile per chi la riceve, visto il silenzio che si procurò nei mesi scorsi, per esempio, l’appena detronizzato ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, scaricato come un sacco di rifiuti nel passaggio dal primo al secondo governo di Giuseppe Conte.

            Di Maio -ha assicurato Travaglio salutandone, ripeto, l’ingresso in camera di rianimazione, da dove dovrebbe peraltro continuare ad occuparsi della politica estera italiana come titolare della Farnesina, con tutto quel po’ po’ di roba che esplode nel mondo lontano e vicino a noi- “ha vari difetti, ma non è un cialtrone né un improvvisatore”. E ciò, nonostante il suo esordio come mancato vice presidente del Consiglio, fra la rinuncia e la conferma di Conte nella tormentata crisi di governo di avvio della nuova legislatura, nel 2018, preannunciando un procedimento di denuncia del capo dello Stato Sergio Mattarella davanti alla Corte Costituzionale per alto tradimento. Piuttosto, ha sempre assicurato magnanimamente Travaglio, il giovane astro calante é una vittima dei tanti “miracolati, furbetti, poltronari, approfittatori e scappati di casa” che lo hanno circondato e si contendono adesso le polveri di stelle che stanno cadendo sul loro movimento dopo un anno e mezzo di governo a maggioranze, diciamo così, variabili.

            Sofia Ventura sulla Stampa ha evocato la sinistra immagina delle “idi di marzo” all’annuncio trionfalistico La Stampa.jpege liberatorio, da parte dello stesso Di Maio, degli “Stati Generali” dei pentastellati per quel periodo, che costò la vita a Cesare nell’antica Roma. Ma gli “Stati Generali” richiamano alla mente, o all’immaginazione, anche un’altra tragica fine: quella di Luigi XVI e della moglie Maria Antonietta, che li affrontarono nel 1789 avviandosi inconsapevolmente alla Rivoluzione francese e alla ghigliottina.

            Senza andare tuttavia tanto lontani nel tempo e nello spazio, di fronte alla sostanziale apertura, ormai, della successione a Di Maio, riguadagnatosiRollia.jpeg proprio per questo  la solidarietà di Alessandro Di Battista dopo quella offerta da “Dibba” al senatore Gian Luigi Paragone appena fatto cacciare dal movimento dallo stesso Di Maio e amici, l’immagine che torna alla mente è quella più recente e vicina di Beppe Grilo fattosi riprendere a Capodanno mentre scavava una trincea o una fossa prevedendo un 2020 “magnifico”. E’ lo stesso Grillo che il vignettista Stefano Rolli sul Secolo XIX propone ai lettori con una sostanziale lettera di licenziamento in mano, che azzera il giovanotto inginocchiato davanti a lui.

 

 

 

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La questione libica intossica i rapporti sotto le cinque stelle e nel governo

            Mentre al Fatto Quotidiano –ripeto, Il Fatto Quotidiano, non certo il giornale meno informato delle vicende grilline o il più prevenuto- è stato annunciato “in esclusiva” su tutta la prima Il Fatto.jpegpagina che Luigi Di Maio è “vicino a lasciare la guida dei cinquestelle forse già prima delle regionali” del 26 gennaio in Calabria e in Emilia-Romagna, e si è sLuca de Carolis su Di Maio e Conte.jpegpiegato all’interno, in un articolo di Luca de Carolis, che “il rapporto con Giuseppe Conte gli deve sembrare un Moloch” perché “di certo per lui è una pietra di paragone pesante come una montagna” anche all’interno del suo movimento, dove il presidente del Consiglio sta acquistando una influenza crescente; mentre -dicevo- tutto questo è stato sciorinato dal giornale diretto da Marco Travaglio, lo stesso Di Maio ha rilasciato al Corriere della Sera una intervista a dir poco imbarazzante e imbarazzata. Che al vignettista Emilio Giannelli ha ispirato un ministro degli Esteri quasi sfottente verso il capo del governo.

            “Non provate a metterci l’uno contro l’altro perché non è così. Con Conte ci coordiniamo Di Maio su Conte.jpegcontinuamente”, ha assicurato Di Maio, incalzato dall’intervistatore sulla questione libica dopo il tentativo fallito del presidente del Consiglio di fare incontrare a Roma i due rivali che si contendono il governo di quel Paese, cioè il premier riconosciuto dall’Onu al Sarraj e il generale Haftar, l’unico presentatosi all’appuntamento a Palazzo Chigi.

            Tuttavia, sempre a proposito della Libia e dell’iniziativa assunta da Conte con esito a dir poco deludente, il ministro degli Esteri ha quanto meno mostrato, a torto o a ragione, di prenderne le Di Maio su Conte 2.jpegdistanze dicendo che “il presidente ha la sua agenda, specie se deve ricevere un omologo. Il governo si muove in sintonia”. Ma, andando  al sodo della questione, chi è davvero considerato da Conte il suo omologo in Libia: ancora Sarraj, sostenuto sempre più vigorosamente dal presidente turco Erdogan, o già il generale che gli sta facendo la guerra con l’aiuto anche del presidente russo Putin?

            Questa domanda è molto meno peregrina e provocatoria di quanto non possa sembrare se, in fondo, se l’è posta nella maggioranza di governo, non dall’opposizione, un uomo come il senatore Pier Ferdinando Casini, molto attento ai problemi di politica estera. Intervistato dal Foglio, egli ha infatti condiviso l’immagine dei “binari sbagliati” imboccati da Conte nella “ricerca del colpo mediatico” sullo scenarioRepubblica.jpeg libico ormai sfuggito di mano all’Italia, chissà se destinata a ricevere almeno un invito alla cerimonia che segnerà l’accordo fra turchi e russi sulla testa dell’Europa. “L’Italia ha perso la sua guerra”, ha titolato del resto in prima pagina anche la Repubblica.

            “Non è neppure ipotizzabile -ha detto Casini al Foglio- che Sarraj fosse all’oscuro dell’incontro programmatoCasini al Foglio.jpeg con Haftar. Questi appuntamenti vanno gestiti nell’assoluto riserbo. Haftar andava incontrato presso la caserma di Tor di Quinto, non a Palazzo Chigi. Lo strombazzamento ha irritato Sarraj e la coalizione che lo sostiene. Esiste un’opinione pubblica anche in Libia. E Haftar è l’uomo che, pochi giorni or sono, ha rivendicato l’attacco aereo sull’accademia militare di Tripoli, salvo poi smentire”.

            Un giudizio negativo sulla gestione del problema libico da parte del governo è giunto, in una intervista al Corriere della Sera, anche dall’ex presidente del Consiglio ed ex presidente della Commissione Europea Romano Prodi. Che negli anni passati avrebbe ben potuto essere incaricato di occuparsi di questa vicenda come “inviato”, per l’esperienza e i contatti internazionali maturati, se Matteo Renzi a Palazzo Chigi non si fosse messo di traverso. “Certo, se penso al ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov che incontra Di Maio, mi immagino le difficoltà di quell’incontro”, ha detto Prodi calcando questa volta la mano più su Di Maio che su Conte. Ma invertendo l’ordine dei fattori, si sa, il prodotto non cambia.

 

 

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Quelle tre lunghissime ore di comica tragedia a Palazzo Chigi sulla Libia

            Senza spingersi ai “ceffoni” del premier libico Fayez al Sarraj immaginati con evidenza I ceffoni della Verità.jpegcompiaciuta nel titolo di prima pagina sulle guance del presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte dalla solita e presunta Verità, traduzione italiana di Corriere.su gaffejpeg.jpegquella che nel regime sovietico era chiamata la Pravda, ci si può ben fermare alla “gaffe” e al “pasticcio diplomatico” cui hanno fatto ricorso altri giornali -dal Corriere della Sera al Sole 24 Ore e alla Stampa– per descrivere quanto 24 Ore su gaffe.jpegè successo a Palazzo Chigi. Dove, con una mossa che sembrava una trovata di genio, quasi in concorrenza Stampa su pasticcio.jpegcon l’incontro altrove di Putin e di Erdogan, riusciti a imporre una tregua d’armi da domenica prossima ai due assenti ma da loro dipendenti rivali che si contendono il controllo della Libia, Conte aveva organizzato un incontro diretto fra i combattenti  nel suo ufficio di Palazzo Chigi.

            Mentre il generale Haftar, in abiti rigorosamente e cortesemente civili è accorso all’appuntamento intrattenendosi per tre ore a Palazzo Chigi, al Sarraj se l’è data, diciamo così. Appreso solo in un secondo momento che la trasferta romana si sarebbe dovuta trasformare in un incontro col rivale, che gli sta bombardando caserme e città e punta da mesi alla conquista di Tripoli, al Sarraj non si è più mosso dal suo rifugio, scordandosi anche di informare i propri collaboratori, per cui si è sparsa ad un certo punto la voce di un suo rapimento.

            Poi è pervenuta  dal Fatto Quotidiano, che da tempo gode di buone e dirette informazioni da Palazzo Chigi, dove Conte trova sempre volentieri, anche nei momenti più difficili, il tempo e il modo di parlare e fare interviste col direttore, la chiave presumibilmente corretta di lettura dell’accaduto. Il premier libico, col quale l’Italia dovrebbe condividere Il Fatto.jpegcon la Francia un rapporto pivilegiato essendo l’unico riconosciuto dalle Nazioni Unite, sarebbe stato all’ultimo momento informato dal presidente Emmanuel Macron di quella specie di trappola tesagli a Roma e convinto a sottrarvisi, probabilmente con qualche ragione in più di diffidenza verso gli interlocutori romani.

            Adesso Conte, calatosi nella partita libica “a tutto campo”, come riferito in un compiaciuto titolo rosso di prima pagina dal direttore del Foglio, Il Foglio .jpegreduce da una visita e da un colloquio col presidente del Consiglio proprio mentre La Gazzetta.jpegstava per compiersi lo sfortuntato intervento del governo italiano, potrebbe consolarsi in qualche modo con la vignetta del corregionale Nico Pillinini. Che sulla prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno lo ha immaginato e rappresentato arbitro di un incontro di pugilato vinto da Haftar per avere l’altro pugile al Sarraj “gettato la spugna”.

            Lasciatemi a questo punto immaginare con una certa perfidia il risolino fra i denti del giovane ministro grillino degli Esteri Luigi Di Maio rappresentato da tanti giorni come il classico coccio Gannelli.jpegtra i vasi, e appena preso in giro da Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera mentre insegue nel suo abito borghese e la borsa in il manifesto.jpegmano, a piedi, la camionetta di Haftar e altri militari che non se lo filano per niente, non immaginando chi fosse o forse proprio perché al corrente della sua identità. A lui l’impietoso e sempre billante manifesto ha potuto risparmiare il fotomontaggio e il titolo odierno di prima pagina “Conte senza l’oste”.

            Peccato, naturalmente, che da tutta questa vicenda peggio ancora di Conte e Di Maio, e del loro governo, esca l’Italia, per quante attenuanti possano cercare di rivendicare protagonisti e attori di questo infortunio, a dir poco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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