Per quanto malmessa, con una maggioranza giallorossa di governo e un’opposizione di centrodestra attraversate entrambe da tensioni e confusioni interne, fra le quali naturalmente fanno più notizia quelle della maggioranza, anche perché l’opposizione può contare sul vento che soffia sulle sue vele nelle elezioni che si susseguono a livello locale, la politica italiana potrebbe consolarsi di fronte allo spettacolo che sta offrendo oltre Tevere la Chiesa bimillenaria. Dove la eccezionale convivenza fra i due Papi, quello in carica a tutti gli effetti e quello emerito, Francesco e Benedetto XVI, comincia a scricchiolare, a dispetto delle foto vecchie e nuove sulle loro comuni preghiere.
“E’ guerra tra i due Papi”, ha titolato il Giornale addentrandosi nel “Caos Vaticano”, per quanto Benedetto XVI
per evitare proprio questa lettura conflittuale avesse appena annunciato il ritiro della sua firma da un libro del cardinale africano Robert Sarah, che aveva acceso la miccia sul tema spinosissimo del celibato sacerdotale. Cui Francesco sarebbe stato o sarebbe incline a derogare almeno in alcune circostanze e località.
Il cardinale non ha naturalmente gradito e ha documentato i rapporti avuti col Papa emerito prima e perché il libro uscisse, per cui il caos non è per niente rientrato, come nella politica italiana il caos, particolarmente quello della maggioranza di governo, non è rientrato dopo il chiarimento che a suo modo il segretario del Pd Nicola Zingaretti ha cercato incautamente di offrire con un “colloquio” pubblicato dal Messaggero.
Dalla “chiesa sconsacrata del San Pastore a Contigliano”, nel Reatino, dove il cronista del Messaggero ha seguito i capoccia del Pd impegnati a prepararsi alla verifica di governo di fine gennaio e ad un congresso di
sostanziale rifondazione del partito, programmato per i mesi successivi, Zingaretti ha praticamente scaricato sulle spalle, o altro ancora, dello scissionista Matteo Renzi, uscito dal Pd dopo avere innestato l’operazione del nuovo governo e a capo adesso di “Italia Viva”, le responsabilità delle turbolenze che insidiano la tenuta della nuova compagine ministeriale e della stessa legislatura. E si è attribuito il merito di essere l’unico, o quasi, elemento “stabilizzatore” della maggioranza e della governabilità, come si diceva una volta.
“Renzi prima o poi -è stato attribuito a Zingaretti- proverà ad andare ad elezioni anticipate per riprendersi la scena”, come se l’avesse lasciata o perduta dopo avere trascinato lo stesso Zingaretti sulla strada dell’intesa con i grillini a conclusione della crisi agostana del governo e della maggioranza gialloverde provocata dal leader leghista Salvini: l’”altro Matteo”, come lo chiama lo stesso Renzi facendogli in qualche modo l’occhiolino tra uno scontro e l’altro.
E’ tutto chiaro allora nella confusione -scusate l’ossimoro- della maggioranza ? Per niente, come in Vaticano dopo il ritiro della firma di Benedetto XVI dal libro del cardinale Sarah. Lo stesso Zingaretti, nel medesimo colloquio attribuitogli -ripeto- dal Messaggero, ad un certo punto si è lasciata scappare “la consapevolezza” che “un’eventuale tensione del Movimento 5 Stelle potrebbe riverberarsi sul governo”, a dispetto del “sano rapporto” di Conte col Pd.
Considerate le ben diverse dimensioni parlamentari del movimento grillino e di quello di Renzi, in attesa di verificare quelle elettorali quando si potrà o si dovrà farlo, si stenta francamente a credere che davvero i pericoli maggiori nella coalizione giallorossa provengano da Renzi e dalla sua “Italia Vera”. Il focolaio dell’infezione, o dell’infiammazione, come preferite, sembra essere quello grillino, con le lotte interne sempre più evidenti e cruente: un focolaio cui pure Zingaretti, volente o nolente, ha finito per appendere anche il destino del suo partito nel momento in cui ha cercato, e cerca, di trasformare in scelta strategica, di lungo respiro, il rapporto di collaborazione o alleanza con i pentastellati che Renzi considera invece emergenziale e temporaneo, in funzione antisalviniana.
Non resta che sperare
che prima o poi Zingaretti e Renzi si confessino direttamente fra di loro e si mettano magari a pregare in una chiesa, sconsacrata o no, come i due Papi nelle immagini storiche reperibili in qualsiasi archivio elettronico.
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
e redini a Claudio Cerasa, senza tuttavia smettere giustamente di occuparsene a tempo pieno. E Dio solo sa quanto spazio anche fisico riesca a riempire Giuliano.
nella collocazione riservatagli dal quotidiano di Giuliano, e ora anche di Cerasa, che contano insieme più del generoso editore subentrato a quelli originari, fra i quali Veronica Lario, l’allora moglie di Silvio Berlusconi, ancora oggi affettuosamente e simpaticamente chiamato “l’amor nostro” dai foglianti, anche se ogni tanto gli riservano cattive sorprese, com’è del resto giusto che avvenga nei rapporti fra persone libere e d’ingegno. Ma, insisto, anche a costo di apparire villano e insolente, un posticino in prima pagina sul Foglio la morte di un collega come Giampaolo Pansa se lo meritava. E non si può neppure dire, tragicamente, che sarà per la prossima volta.
e in Calabria. Essa teme con quel sì di favorire Salvini per le buone ragioni che evidentemente sa a disposizione del leader leghista in veste di vittima di una macchinazione politica. Non a caso l’ex ministro sfida in questi giorni i giallorossi della politica a mandarlo sotto processo, così come sfida la magistratura ad allestire a Catania un’aula capace di contenere tutto il pubblico a lui favorevole e desideroso di farsi sentire e vedere.
altro: fatti nei quali convergono le esigenze tattiche contro Salvini di grillini, piddini, renziani e sinistra di “liberi e uguali”. E dei quali si guardano bene dal discutere i piddini nel ritiro in cui sono
impegnati in questi giorni un’abbazia del Reatino, in vista della verifica di governo di fine mese, sempre dopo le elezioni
regionali del 26 gennaio, e poi di un congresso che vorrebbe essere di rifondazione del partito E’ un appuntamento, quello nell’abbazia, che si è prestato a non pochi titoli di giornale, commenti e vignette più o meno sfottenti, e forse non immeritati, perché la trasparenza non va solo invocata ma anche praticata nella pur dura lotta politica in cui si è impegnati.
affollata di editori, diciamo così, di risulta: spesso più improvvisati che professionali, o più impuri che puri, come si dice comunemente per dolersi di quanti usano i loro giornali più per coltivare meglio altri e prevalenti loro interessi, senza la trasparenza distintiva come quella della nostra testata, che per tutelarne e diffonderne il successo nelle edicole. E’ proprio strana questa nostra editoria, dicevo, se ad uno come Pansa non è mai capitato di diventare direttore di un quotidiano o di un settimanale, fra quelli per i quali ha lavorato o quelli che avrebbero potuto benissimo assumerlo solo per farsi da lui guidare.
traditore per avere voluto raccontare e ricostruire con onestà la Resistenza, nel rispetto dei “vinti” e non solo dei vincitori, spesso sanguinari al di là delle esigenze di una pur drammatica guerra civile; negli ultimi tempi, dicevo, Pansa era diventato molto pessimista sulle sorti del Paese. Egli era sopraffatto dall’incompetenza dei grillini, dai limiti della sinistra e dalla paura del “seduttore autoritario” Matteo Salvini. Una volta si lasciò scappare persino un mezzo auspicio che venisse fuori un generale a rimettere ordine, come capitò di pensare a Ugo La Malfa nel 1978 reagendo al sequestro di Aldo Moro con la richiesta ad altissima voce, nel famoso “transatlantico” di Montecitorio, della pena di morte. Che solo un regime militare avrebbe potuto e potrebbe ripristinare.
col binocolo dalle postazioni della stampa palchi e tribune dei congressi di partito, nell’epoca in cui erano ancora di moda questi riti della democrazia, credo che il più clamoroso resti quello del 1976.
per i militanti da essere ignorato, cioè censurato, il giorno dopo dal giornale ufficiale del partito. In particolare, sapendo bene quanto forti fossero i timori fuori e dentro l’Italia di una maggioranza condizionata dai comunisti, e dai loro rapporti già difficili ma pur sempre forti con l’Unione Sovietica, Berlinguer disse di considerare l’autonomia del suo partito più al sicuro sotto l’ombrello della Nato.
al Corriere della Sera, che “l’incisività e la credibilità dell’Italia in politica estera è fuori discussione”. E che “con la Libia siano in prima linea” , parlando “con tutti non per ambiguità ma per alimentare il dialogo” attorno alla “nostra posizione limpida e trasparente, politicamente insuperabile” contro una soluzione militare del conflitto in corso in quel Paese fra intromissioni esterne di ogni tipo.
editoriale, a dir poco, urticante contro le prove di incoerenza, di confusione e di “sprovvedutezza” date
dallo stesso Conte e dal suo ministro degli Esteri Luigi Di Maio, a volte persino in concorrenza fra di loro. “Provare a presentarsi come statisti in grado di sanare, sia pur provvisoriamente, un conflitto che va avanti da otto, nove anni, è stata una ingenuità”, ha scritto l’ex direttore Paolo Mieli. Il quale ha aggiunto, impietosamente, che “le pezze successive- l’incontro di Conte con Haftar e, dopo tre giorni, con Sarraj e il tour diplomatico di Di Maio- non sono servite a nascondere il buco”.
dalla precedente maggioranza gialloverde. Esso fu promulgato nel testo della conversione parlamentare tanto malvolentieri dal capo dello Stato da chiedere con una lettera ai presidenti delle Camere e del Consiglio correzioni condivise e propostesi dalla nuova maggioranza giallorossa, ma rimaste per aria.
una festa, quella del giornale di Marco Travaglio per l’operatività governativa guastata solo dalla “santificazione” salottiera di Bettino Craxi nel pomeriggio domenicale di Rai1
praticata in tandem dalla figlia Stefania e dall’amica Mara Vernier in vista del ventesimo anniversario della morte del leader socialista. Che peraltro comincia ad essere rimpianto pubblicamente anche fra i grillini, per quanto dissidenti, come il senatore Emanuele Dessì.
domenicali con i lettori della “sua” Repubblica l’argomento o l’evento di politica interna e persino internazionale su cui attardarsi, tanto è confusa o sgradita la situazione. Pertanto egli ricorre alla filosofia, alla religione, alla cultura e via dicendo per sollevarsi lo spirito. Lo ha appena confessato quasi scusandosene col pubblico, prima di approdare stavolta alla musica.
giorno, come Gesù Cristo, del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, da lui notoriamente molto apprezzato. Che, sommerso
dalla gaffe unanimemente considerata dello spericolato e mancato incontro a Palazzo Chigi fra i due rivali che si contendono la Libia a suon di armi e di alleanze o pertugi internazionali, è riuscito dopo la visita del solo generale Haftar a far venire a Roma anche al Sarraj, il premier di Tripoli riconosciuto dall’Onu. Non è stato l’incontro a tre che Conte avrebbe desiderato, e che invece sembra che stia per svolgersi al Cremlino con la più felice o fortunata regìa di Putin, ma non fa niente, almeno nella visione e per i gusti del Fatto Quotidiano.
essersi vantato della svolta estiva contro l’altro Matteo, cioè Salvini- va evitato l’immobilismo. Conte si è preso qualche giorno per la verifica: aspettiamo le elezioni in Emilia” del 26 gennaio, in contemporanea con quelle in Calabria, neppure citate dall’ex presidente del Consiglio, “e poi tireremo le somme”. Che, senza voler fare l’uccello del malaugurio, non sembra proprio un modo di dire tranquillizzante. Sa tanto, piuttosto, di quello “stai sereno” dallo stesso Renzi indirizzato nel 2013 come segretario del Pd fresco di elezione all’allora presidente del Consiglio Enrico Letta. Che, apprestatosi ad una verifica, si ritrovò sfrattato da Palazzo Chigi.
Zingaretti, incoraggiato da Repubblica con un titolone da rima come “Tanti sì al nuovo Pd”, Renzi si è praticamente fregato le mani per la soddisfazione, pensando ai vantaggi che potrebbero derivare, sulla strada della concorrenza verso il centro o il versante moderato, alla sua Italia Viva.
amici di partito- che la soluzione sia davvero aprire alle Sardine, alla società civile recuperandoun rapporto con la Cgil o assorbendo Leu”, cioè la formazione creata contro di lui nel 2017 da Pier Luigi Bersani e Massino D’Alema, in ordine rigorosamente alfabetico, “noi di Italia Viva
non saremo in difficoltà. Anzi, ci si apre un’autostrada, Spostandosi sulla piattaforma di Corbyn o di Sanders”, il laburista inglese sconfitto recentemente nelle elezioni britanniche dai conservatori e il senatore democratico americano in corsa contro Trump, “si perde. Noi siamo un’altra cosa: radicalmente riformisti. In bocca al lupo a ciò che verrà dopo il Pd. Italia Viva sarà una casa accogliente per tutti i riformisti”. Se questa di Renzi non è una sfida, destinata in quanto tale a moltiplicare anche i problemi della comune maggioranza giallorossa di governo, ditemi voi come chiamarla.
dell’Enel, per quanto contestata da un’interrogazione parlamentare di Oscar Luigi Scalfaro. Al rifiuto di Lepri, e a notizia quindi regolarmemte diffusa dall’Ansa, Guerzoni dovette telefonare personalmente a tutti i giornali perché la ignorassero, riuscendovi con le sole eccezioni de La Nazione e del Secolo d’Italia, il giornale della destra missina. Per la Nazione valse il no opposto dal direttore Enrico Mattei, che a Moro non gliene faceva passare una, ma per il giornale del Movimento Sociale valse solo “la mancanza di voce” confessata dallo stesso Guerzoni a Lepri per spiegare la rinuncia a fare la sua “cinquantatreesima telefonata”.
e il direttore in persona, Marco Travaglio, gli dedica con un misto di generosità e di orgogliosa furbizia, un editoriale per rendergli “l’onore delle armi”. Che da
quelle parti è sempre una cosa apprezzabile per chi la riceve, visto il silenzio che si procurò nei mesi scorsi, per esempio, l’appena detronizzato ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, scaricato come un sacco di rifiuti nel passaggio dal primo al secondo governo di Giuseppe Conte.
e liberatorio, da parte dello stesso Di Maio, degli “Stati Generali” dei pentastellati per quel periodo, che costò la vita a Cesare nell’antica Roma. Ma gli “Stati Generali” richiamano alla mente, o all’immaginazione, anche un’altra tragica fine: quella di Luigi XVI e della moglie Maria Antonietta, che li affrontarono nel 1789 avviandosi inconsapevolmente alla Rivoluzione francese e alla ghigliottina.
proprio per questo la solidarietà di Alessandro Di Battista dopo quella offerta da “Dibba” al senatore Gian Luigi Paragone appena fatto cacciare dal movimento dallo stesso Di Maio e amici, l’immagine che torna alla mente è quella più recente e vicina di Beppe Grilo fattosi riprendere a Capodanno mentre scavava una trincea o una fossa prevedendo un 2020 “magnifico”. E’ lo stesso Grillo che il vignettista Stefano Rolli sul Secolo XIX propone ai lettori con una sostanziale lettera di licenziamento in mano, che azzera il giovanotto inginocchiato davanti a lui.
pagina che Luigi Di Maio è “vicino a lasciare la guida dei cinquestelle forse già prima delle regionali” del 26 gennaio in Calabria e in Emilia-Romagna, e si è s
piegato all’interno, in un articolo di Luca de Carolis, che “il rapporto con Giuseppe Conte gli deve sembrare un Moloch” perché “di certo per lui è una pietra di paragone pesante come una montagna” anche all’interno del suo movimento, dove il presidente del Consiglio sta acquistando una influenza crescente; mentre -dicevo- tutto questo è stato sciorinato dal giornale diretto da Marco Travaglio, lo stesso Di Maio ha rilasciato al Corriere della Sera una intervista a dir poco imbarazzante e imbarazzata. Che al vignettista Emilio Giannelli ha ispirato un ministro degli Esteri quasi sfottente verso il capo del governo.
continuamente”, ha assicurato Di Maio, incalzato dall’intervistatore sulla questione libica dopo il tentativo fallito del presidente del Consiglio di fare incontrare a Roma i due rivali che si contendono il governo di quel Paese, cioè il premier riconosciuto dall’Onu al Sarraj e il generale Haftar, l’unico presentatosi all’appuntamento a Palazzo Chigi.
distanze dicendo che “il presidente ha la sua agenda, specie se deve ricevere un omologo. Il governo si muove in sintonia”. Ma, andando al sodo della questione, chi è davvero considerato da Conte il suo omologo in Libia: ancora Sarraj, sostenuto sempre più vigorosamente dal presidente turco Erdogan, o già il generale che gli sta facendo la guerra con l’aiuto anche del presidente russo Putin?
libico ormai sfuggito di mano all’Italia, chissà se destinata a ricevere almeno un invito alla cerimonia che segnerà l’accordo fra turchi e russi sulla testa dell’Europa. “L’Italia ha perso la sua guerra”, ha titolato del resto in prima pagina anche la Repubblica.
con Haftar. Questi appuntamenti vanno gestiti nell’assoluto riserbo. Haftar andava incontrato presso la caserma di Tor di Quinto, non a Palazzo Chigi. Lo strombazzamento ha irritato Sarraj e la coalizione che lo sostiene. Esiste un’opinione pubblica anche in Libia. E Haftar è l’uomo che, pochi giorni or sono, ha rivendicato l’attacco aereo sull’accademia militare di Tripoli, salvo poi smentire”.
compiaciuta nel titolo di prima pagina sulle guance del presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte dalla solita e presunta Verità, traduzione italiana di
quella che nel regime sovietico era chiamata la Pravda, ci si può ben fermare alla “gaffe” e al “pasticcio diplomatico” cui hanno fatto ricorso altri giornali -dal Corriere della Sera al Sole 24 Ore e alla Stampa– per descrivere quanto
è successo a Palazzo Chigi. Dove, con una mossa che sembrava una trovata di genio, quasi in concorrenza
con l’incontro altrove di Putin e di Erdogan, riusciti a imporre una tregua d’armi da domenica prossima ai due assenti ma da loro dipendenti rivali che si contendono il controllo della Libia, Conte aveva organizzato un incontro diretto fra i combattenti nel suo ufficio di Palazzo Chigi.
con la Francia un rapporto pivilegiato essendo l’unico riconosciuto dalle Nazioni Unite, sarebbe stato all’ultimo momento informato dal presidente Emmanuel Macron di quella specie di trappola tesagli a Roma e convinto a sottrarvisi, probabilmente con qualche ragione in più di diffidenza verso gli interlocutori romani.
reduce da una visita e da un colloquio col presidente del Consiglio proprio mentre
stava per compiersi lo sfortuntato intervento del governo italiano, potrebbe consolarsi in qualche modo con la vignetta del corregionale Nico Pillinini. Che sulla prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno lo ha immaginato e rappresentato arbitro di un incontro di pugilato vinto da Haftar per avere l’altro pugile al Sarraj “gettato la spugna”.
tra i vasi, e appena preso in giro da Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera mentre insegue nel suo abito borghese e la borsa in
mano, a piedi, la camionetta di Haftar e altri militari che non se lo filano per niente, non immaginando chi fosse o forse proprio perché al corrente della sua identità. A lui l’impietoso e sempre billante manifesto ha potuto risparmiare il fotomontaggio e il titolo odierno di prima pagina “Conte senza l’oste”.