Formidabile, a suo modo, cronicamente insolito. Luigi Di Maio, ingessato nei suoi abiti monopetto e ora anche nelle dimensioni ad una sola cifra cui ha ridotto domenica scorsa nelle elezioni regionali umbre il Movimento delle 5
Stelle, di cui Beppe Grillo lo tiene ancora a capo, pure lui a suo modo, tra sberleffi e semi-parolacce, è tornato a gonfiare il petto contro Radio Radicale. Che per lui è “una vergogna”. “una porcata“, “una mangiatoia” costata allo Stato, cioè a tutti noi, dal 1990 qualcosa come 250 milioni di euro. Cui il Pd, nuovo alleato di governo dei grillini, complice evidentemente di tanta ignominia, ha voluto aggiungerne altri 24 per i prossimi tre anni nell’ultima bozza di bilancio capitata nelle mani del ministro degli Esteri nei vertici di maggioranza che continuano a svolgersi sui conti dello Stato.
Annunciata ai giornalisti con le solite procedure sommarie del microfono a portata di bocca, Di Maio ha
trasferito l’offensiva contro la radio storicamente legata alla memoria di Marco Pannella, che trasmette anche buona parte dei lavori parlamentari ignorati dalla Rai e delle attività e iniziative dei partiti e movimenti politici, sul blog delle sue 5 stelle. Egli ha invitato in una specie di improvviso referendum digitale a scegliere a chi destinare i 24 milioni rimessi sul tavolo: a Radio Radicale o ai terremotati ?
In verità, non è seguito il coro che forse Di Maio si aspettava contro la “mangiatoia” da lui rinverdita nell’offensiva, essendosi registrati molti dissensi pari, anche per insulti, alle proteste levatesi contro il capo ancòra dei grillini dal Pd e dall’opposizione di centrodestra.
Eppure, dopo averlo sommerso di proteste, invitato per esempio dal capogruppo piddino al Senato Andrea Marcucci a “farsene una ragione”, essendosi a suo avviso esaurita la battaglia contro Radio Radicale con la sconfitta nella formazione stessa del nuovo governo, il partito del prode Nicola Zingaretti una concessione a Di Maio l’ha voluta fare lo stesso. Magari, egli avrà pensato così di ammorbidire Di Maio su un altro fronte che gli sta evidentemente
più a cuore della sorte di Radio Radicale e di tutto ciò che l’emittente pannelliana ha finito per diventare nell’immaginario collettivo di tanti suoi ascoltatori: l’emblema della libertà d’informazione, da cui nascono in fondo tutte le altre libertà essendo vero che per deliberare bisogna conoscere, come dice uno degli slogan, appunto, della radio dove per tanti anni, per esempio, un uomo come Massimo Bordin, stimato in vita e in morte anche dagli avversari, ci ha abituati all’ascolto e alla lettura della politica. Il fronte che sembra stare più a cuore a Zingaretti è, in particolare, quello dell’alleanza con i grillini anche in sede locale, nonostante il fiasco umbro, che per il Pd, in verità, è stato assai relativo, pur nell’ambito della sconfitta della maggioranza giallorossa.
Forse Zingaretti, meno sprovveduto di quanto non appaia, come il ministro dei beni culturali Dario Franceschini che gli tiene banco nel partito, pensa di riuscire in questo modo a ridurre i grillini ad una sola e sempre più decrescente cifra anche nel resto d’Italia. Che è la paura dalla quale Di Maio cerca di difendersi negando altri accordi locali, ma restando ugualmente al governo nazionale con i suoi potenziali aguzzini.
In ogni caso Di Maio nell’offensiva contro Radio Radicale ha strappato ai suoi alleati l’impegno, o “compromesso”, come altri hanno preferito chiamarlo, di mettere a gara l’anno prossimo la concessione, e relativo finanziamento, di cui gode oggi l’emittente pannelliana. La guerra quindi continua, pure essa a suo modo.
Ripreso da http://www.policymakermag.it
governo in periferia, nel timore non infondato -credo- di ridurre anche altrove il movimento delle 5 stelle a una sola cifra, il presidente del Consiglio ha invocato il carattere ormai “irreversibile” dell’alleanza che gli ha permesso di realizzare il suo secondo governo.
di Repubblica “Fate pace o si vota”. Al ricorso anticipato alle urne sembra ormai rassegnato anche il presidente della Repubblica, forse confortato dall’idea di poter mandare all’occorrenza il Paese al voto con un governo di garanzia non del buon Carlo Cottarelli, come aveva pensato l’anno scorso, prima dell’accordo fra grillini e leghisti, ma -senza offesa per Cottarelli- dell’ancor più prestigioso Mario Draghi, fresco di onori meritati e di feste per la fine del mandato di presidente della Banca Centrale Europea, che lo ha impegnato per otto anni a Francoforte.
scontro, da qualcuno allargato- come sul Fatto Quotidiano– ad altri partiti della coalizione, che sarebbero “separati in casa”, c’è stata anche l’esordio ottimistico, fiducioso e quant’altro di Conte come cantante, dopo la prova d’orchestra di qualche tempo fa in un oratorio di Avellino, prima di apparire alla nomenclatura residua della vecchia Dc per commemorare Fiorentino Sullo. Stavolta Conte ha voluto cantare per volare alla maniera di Domenico Modugno sulle miserie della cronaca politica.
parlando di esperimento non riuscito e non ripetibile, non foss’altro per evitare che quel 7 per cento e rotti cui il movimento sé è ridotto in Umbria si ripeta altrove, e magari cali ancora. Ma dietro le parole giunte ai giornali deve esserci stato ben altro fra i due se Grillo, comico ma non fesso, ha rimosso dal proprio blog la sua uscita.
del solito Marzio Breda della prudente decisione di Sergio Mattarella di mettersi
alla finestra per vedere la maggioranza alla prova parlamentare della manovra finanziaria e del bilancio, ma anche della piena consapevolezza del capo dello Stato che “la maggiore incognita” del quadro politico è il partito -quello appunto delle 5 stelle- di cui ha voluto conservare la cosiddetta centralità o prevalenza in Parlamento evitando le elezioni anticipate nella gestione della crisi di agosto.
lettori l’informazione “severa” fornita da Mattarella in persona ai suoi interlocutori in questi giorni che la prossima volta si andrà davvero alle elezioni in caso di crisi, “senza tener conto -sentite bene- dei calcoli su quali forze di Camera e Senato eleggeranno il suo successore al Quirinale” nel 2022. Il Presidente della Repubblica, insomma, non è all’incanto. Nessuno gli farò salvare le Camere con la promessa -imprudentemente adombrata durante la crisi d’agosto- di rieleggerlo. E’ un doveroso avviso ai naviganti.
L’unica che potrà forse proteggerlo è la moglie Maria Serena Cappello. Alla quale, consapevole evidentemente dei rischi, e sicuro dell’affetto che li tiene insieme da 44 anni, lo stesso Draghi ha invitato i giornalisti a rivolgersi più o meno direttamente quando gli hanno chiesto, nella cerimonia di chiusura della propria esperienza a Francoforte, se avesse o vedesse prospettive politiche, o d’altro tipo, anche ora che avrebbe tutto il diritto di fare il pensionato. E non è certamente tipo da reddito di cittadinanza, come ha osservato l’ex sottosegretario leghista a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti, ancora in preda agli incubi quando pensa a quella misura mai digerita al tavolo con i grillini nella stagione gialloverde.
contenere mediaticamente in Italia il botto della regione incautamente scelta per esportare in periferia la maggioranza giallorossa. Che non ha perso, ma straperso con i venti punti di distacco accumulati dal candidato della coalizione nazionale di governo nella improba gara con la candidata del centrodestra Donatella Tesei, scelta personalmente da Matteo Salvini. Della cui vittoria, pertanto, hanno
ben poco da consolarsi al Fatto Quotidiano declassando a “consolazione”, appunto, nel titolo di prima pagina la festa di piazza fisica e mediatica del leader leghista, dopo la debacle della crisi agostana di governo.
arroccatisi nelle ultime
battute della campagna elettorale nella speranza di una vittoria di misura degli avversari, magari grazie alle preghiere dei frati francescani d’Assisi annunciate con una certa imprudenza, a dir poco, da inviati speciali accorsi al Sacro Convento. Si è visto e letto, purtroppo, anche questo nei giorni scorsi.
dalle foglie cadenti, com’è del resto normale in autunno. Ma qui il Cristo in croce, col Movimento grillino sceso a una sola cifra, perdendo ancora più rapidamente di quanto non gli fosse capitato nelle prime elezioni regionali seguite alla sua alleanza con i leghisti, più che Conte è il suo ex vice presidente e ora ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Le cui già forti difficoltà nel quasi partito di cui è ancora “capo” sono destinate ad aumentare. E a tradursi, intanto, in una maggiore diffidenza, presa di distanza e quant’altro proprio da Conte, accusato solo qualche giorno fa dai ministri grillini riunitisi a Palazzo Chigi, nell’ufficietto a disposizione di Di Maio, di avere instaurato un rapporto sostanzialmente privilegiato col Pd. Che, guarda caso, è riuscito in qualche modo a contenere le perdite nell’appuntamento elettorale in Umbria, per quanto avesse sul groppone l’eredità della precedente amministrazione regionale travolta da uno scandalo nel settore della sanità.
sarcasticamente che “non tutto il male viene per nuocere a me”, l’annuncio di quello che al plurale starebbe
dicendo in queste ore il capo ancòra delle 5 Stelle, nonché ministro degli Esteri, addirittura, e capo della delegazione grillina nel secondo governo di Giuseppe Conte: “Se perdiamo male addio coalizione”. Alla quale lo stesso Di Maio si è più rassegnato che convinto, spinto energicamente da Beppe Grillo in persona, dopo la fine della coabitazione con i leghisti. Certo, ci sarebbe da valutare quanto male debba intendersi una eventuale sconfitta arrivata in testa ai sondaggi nella corsa alle urne: quanto letali o comunque pericolosi debbano considerarsi gli eventuali punti percentuali di distacco da uno a dieci, per fermarci qui e risparmiarci il fastidio di essere scambiati per menagrami.
mi permetterei di aggiungere, visto il livello dello scontro in corso fra i grillini. Di cui, pur avendovi in qualche modo contribuito per la diffusione che ha il suo giornale sotto le 5 stelle, ha dato una prova lodevolmente trasparente sul Fatto Quotidiano l’onnipresente e vigilante direttore Marco Travaglio con un editoriale godibile, diciamo così, sin dal titolo: “L’ora del cretino”. Che non è naturalmente, e una volta tanto, avendo avuto qualche volta
anche lui problemi almeno con i vignettisti del Fatto, il giovane e sofferente Di Maio, ma chi gli vorrebbe fare la festa nel movimento, e fargli pagare con qualche mese di ritardo la metà dell’elettorato perduto in meno di un anno di alleanza con Salvini. “Il problema dei malpancisti” in azione o solo in letargo contro Di Maio -ha assicurato Travaglio con l’aria di chi li conosce bene- “non è la pancia ma la testa”. Cretino, del resto, secondo il dizionario della lingua italiana, anche il più sofisticato e indulgente, significa “stupido, imbecille”. Non so francamente se fra i grillini Travaglio stia maturando il sospetto di una versione anche infettiva di questo increscioso accidenti.
Di Maio in rappresentanza ancòra del
Movimento delle 5 Stelle, da Nicola Zingaretti come segretario del Pd e da Edoardo Speranza per conto della sinistra radicale di Pier Luigi Bersani e Massino D’Alema, che sono riusciti a portarlo all’ultimo momento alla guida del Ministero della Sanità. Il cui solo nome -Sanità- evoca peraltro guai politici in Umbria, dove l’ amministrazione di sinistra è stata travolta da uno scandalo naturato fra ospedali, aziende sanitarie, assessorati e segreteria regionale del Pd.
dopo averla fatta nascere mettendosi in proprio con la sua Italia Viva– non è stata certamente soppressa dalla foto successiva, che ha ripreso in piedi, anziché seduti, Conte, Di Maio, Zingaretti e Speranza attorno al candidato “civico” alla guida della regione, Bianconi: Vincenzo, come lo ha familiarmente chiamato il presidente del Consiglio.
comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, e per il controllo sui servizi segreti, finito a sua volta per effetto proprio della crisi e del cambiamento della maggioranza sotto la presidenza del leghista Raffaele Volpi. Da cui francamente Conte non può attendersi un aiuto alla confusione che ha mostrato di desiderare, dopo una lunga audizione, fra il Russiagate di Trump e quello di Matteo Salvini, almeno per ora nelle mani solo della Procura di Milano. Dove si sta indagando sulle trattative intercettate in un albergo di Mosca fra il leghista Gianluca Savoini e altri su un affare petrolifero svanito poi per strada, da cui si presume che dovesse derivare un finanziamento al Carroccio.
si sia fatto prendere troppo la mano dalla fantasia il direttore del Foglio Claudio Cerasa scrivendo di “un’operazione Mario Draghi”. Che potrebbe scattare in caso di sconfitta di quello che il capo della delegazione governativa del Pd Dario Franceschini è appena tornato a definire ottimisticamente sulla Stampa “il primo passo” di un cammino “insieme in tutte le regioni”.
regionale, nei prossimi mesi. Draghi, sempre secondo Cerasa, potrebbe garantire l’estensione dell’area giallorossa, non memo rissosa e da maschere anti-gas di quella gialloverde, verso il centro con le adesioni che si è proposto di raccogliere Renzi alla sua Italia Viva. Dove è atteso, auspicato e quant’altro l’arrivo di un bel po’ di parlamentari forzisti, anche se nelle ultime ore, a dire il vero, vi è appena arrivata dalla sponda di Pier Luigi Bersani la deputata molisana Giuseppina Occhionero.
scorso Fabrizio Roncone ha r
accontato sul Corriere della Sera, con tanto di virgolette di chi gli è capitato a tiro, l’ostilità del Convento a Matteo Salvini e alleati, tanto che il custode, frate Mauro Gambetti, ha dovuto mandare una lettera al giornale per precisare, o assicurare, che “la Comunità di Assisi è un luogo di preghiera” e non una sezione di partito, di movimento e quant’altro, per quanto Roncone avesse immaginato “preghiere al tramonto” per chiedere a San Francesco “il miracolo” di far perdere le elezioni al centrodestra e farle
vince vincere invece ai giallorossi. E avesse anche cercato di coinvolgere in queste preghiere l’arcivescovo locale, diciamo così, che incidentalmente, ma solo incidentalmente, per carità, è anche il presidente della Conferenza Episcopale Italiana: Gualtiero Bassetti.
più diffusi: il Corriere della Sera e
la Repubblica, l’uno riferendo che “Conte attacca Salvini” e l’altro pure ma in forma più diretta, equivalente a “Salvini, rispondi su Mosca”, anche se Salvini non era né di fronte, né dietro né di lato al presidente del Consiglio nella sala del Copasir.
all’ingrosso, rivendicato in particolare dall’asse grillino Luigi Di Maio-Alfonso Bonafede. Al quale asse il presidente del Consiglio sta mostrando la stessa disponibilità dei tempi del suo primo governo, con i leghisti, quando lasciò inserire nella cosiddetta legge spazzacorrotti la supposta dell’abolizione della prescrizione con l’emissione della sentenza di primo grado, a cominciare dal 1° gennaio prossimo, anche in mancanza di una seria, concreta riforma del processo penale. Si sta così avvicinando la prospettiva allucinante di un imputato a vita, anche se assolto nel primo giudizio.
primo grado
rovesciata però in appello, non avrà accolto bene la notizia -penso- nella nuova postazione di capo del tribunale del Vaticano. Dove è approdato il 3 ottobre scorso per volontà personale del Papa, spero non nella presunzione, sospetto e quant’altro che la mafia si sia affacciata anche oltre le Mura, visto ciò che vi accade da qualche tempo e che ha procurato al Pontefice un bel po’ di delusioni e preoccupazioni.
sindaca fu aiutata a vincere la sua partita, di cui i romani stanno in prevalenza non godendo ma subendo gli effetti, da quella “fiction”, come giustamente l’ha definita nel titolo di prima pagina Il Foglio, che si è rivelata “Mafia Capitale”.