Nella ricerca ormai ossessiva delle discendenze o analogie politiche si è cercato di scavare nel passato anche a proposito della scissione del Pd consumata questa volta da Matteo Renzi, come due anni e mezzo fa dai suoi nemici ormai per la pelle Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni. Che avevano brindato alla sua sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale, dopo averla apertamente osteggiata.
Ho sentito da qualche parte evocare persino il povero Aldo Moro, già scomodato durante la crisi d’agosto come anticipatore di Giuseppe Conte, per usarne il ricordo stavolta contro Renzi. Che si sarebbe comportato con la stessa irrazionalità e assurdità di un Moro che nel 1976, dopo avere spinto la Dc verso l’intesa di carattere eccezionale col Pci di Enrico Berlinguer, nonostante la contrapposizione elettorale, se ne fosse andato dal suo partito.
Il paragone, sia pure rovesciato -ripeto- in negativo, fatto per deplorare e non per giustificare l’iniziativa di Renzi, è di una evidente esagerazione per l’abisso, più che per la differenza, fra i due personaggi, anche se l’ex segretario del Pd e fondatore di “Italia Vera” è in qualche modo riconducibile alla storia della Dc: più a quella però del suo corregionale Amintore Fanfani che a quella di Moro, l’altro “cavallo di razza” dello scudo crociato.
Eppure, scavandoci sotto o riflettendoci sopra, il riferimento a Moro potrebbe diventare meno stravagante e assurdo di quanto non abbia pensato chi vi ha fatto ricorso in funzione antirenziana. E spero che quanto sto per scrivere, ove mai letto dall’interessato, non lo imbaldanzisca troppo facendolo molto, troppo paradossalmente sentire un nuovo Moro. Cui Renzi potrebbe paragonarsi davvero se solo volesse esprimere pubblicamente eventuali riserve sulla natura strutturale, persino a livello locale, che la dirigenza del Pd vorrebbe dare all’accordo con i grillini da lui proposto, a sorpresa, in via del tutto eccezionale, e con una prospettiva non di legislatura.
Moro fu certamente l’artefice dell’intesa del 1976 con Berlinguer, al quale però fece ingoiare persino un governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti: uno degli esponenti della Dc fra i più lontani, obiettivamente, dal Pci. E che proprio per questo costituiva un elemento di riequilibrio e di garanzia oltre Tevere e Oceano Atlantico. Il guaio fu, per l’allora presidete della Dc, che ad un certo punto la gestione di quell’intesa da parte di Andreotti a Palazzo Chigi e del suo amico ed estimatore Benigno Zaccagnini a Piazza del Gesù, come segretario del partito, andò ben oltre i suoi progetti o intenzioni. Se ne accorse, poveretto, un anno e mezzo dopo, verso la fine del 1977, quando Berlinguer non ce la fece più a trattenere i mal di pancia nel Pci e provocò la crisi reclamando un passo avanti sulla strada di nuovi equilibri politici.
Il leader comunista chiese ad Andreotti e a Zaccagnini per via riservata, ma non tanto da sfuggire alle orecchie e all’intuito di Moro, di fare entrare nel governo almeno due indipendenti di sinistra eletti nelle liste del Pci.
Quando Moro se ne accorse non si lasciò certo tentare -figuriamoci, col suo carattere- di minacciare e tanto meno di preparare e realizzare un’uscita dalla Dc, come ha appena fatto Renzi col Pd. Egli lavorò con pazienza e ostinazione per impedire che la richiesta di Berlinguer fosse accettata da Andreotti e da Zaccagnini, che ne erano molto tentati pur di non chiudere anzitempo la stagione politica della cosiddetta “solidarietà nazionale” e trattare un nuovo centrosinistra col Psi passato nel frattempo dalla guida di Francesco De Martino a quella di Bettino Craxi. Che era disponibile a riprendere la collaborazione con lo scudo crociato, e ricacciare il Pci all’opposizione, ma non a buon mercato, diciamo così.
Moro afferrò nelle sue mani le trattative, dietro e davanti alle quinte, e convinse Berlinguer della impraticabilità
politica della sua richiesta, sul piano interno per i rischi di rottura dell’unità democristiana e sul piano internazionale per i rapporti con gli Stati Uniti. Dove già avevano storto il muso per la mezza partecipazione del Pci alla maggioranza, astenendosi nelle votazioni di fiducia al governo Andreotti, e avrebbero storto qualcosa di più e di diverso in caso di nomina a ministri di eletti nelle liste comuniste.
Berlinguer si acquietò ripiegando su un programma di governo da concordare più dettagliatamente e incisivamente di quanto non fosse stato fatto nel 1976. E ciò per consentire al Pci di passare dall’astensione al voto di fiducia vero e proprio, dalla mezza maggioranza alla maggioranza intera, dall’anticamera alla camera della spartizione del potere e sottopotere, perché esistevano già allora enti pubblici, consigli d’amministrazione, cariche di alta burocrazia e quant’altro da assegnare con criteri politici.
A trattativa conclusa, tuttavia, Berlinguer tentò, con un altro approccio diretto ad Andreotti e a Zaccagnini, di ottenere qualcosa in più da spendere sul terreno della propaganda: la testa di qualche ministro uscente. Furono individuate, in particolare, quelle di Antonio Bisaglia e di Carlo Donat-Cattin, distintisi nella Dc durante la crisi per le resistenze opposte ad una maggiore apertura al Pci. Ma quando Moro se ne accorse, leggendo la lista dei ministri portata di sera da Andreotti a un vertice democristiano alla Camilluccia, prima di salire al Quirinale per sottoporla alla firma del capo dello Stato, il presidente del partito disse no. E impose la conferma di entrambi i democristiani dicendo che la Dc sarebbe finita se avesse accettato di farsi selezionare la classe dirigente dagli altri.
Alcune decine di migliaia di copie del giornale ufficiale del Pci già stampate con la lista dei ministri promessa a Berlinguer dal presidente del Consiglio furono ritirate dalla spedizione e macerate. Nei gruppi parlamentari comunisti il malumore crebbe sino alla minaccia di non votare più la fiducia al governo che stava per presentarsi alle Camere. Lo stesso Zaccagnini nella Dc voleva dimettersi da segretario. Tutto rientrò solo perché la mattina del 9 marzo 1978, andando proprio alla presentazione del governo a Montecitorio, Moro fu sequestrato dai brigatisti rossi fra il sangue della sua scorta, decimata. Dopo 55 giorni di drammatica prigionia, e di convulsa gestione governativa e partitica della cosiddetta linea della fermezza imposta dal Pci ad una Dc a dir poco sconvolta dagli eventi, sarebbe stato ucciso pure Moro. Meno di un anno dopo sarebbe finita anche la maggioranza di “solidarietà nazionale”, o di “compromesso storico”, come preferiscono chiamarla persone di cattiva memoria o storici improvvisati. Il compromesso storico proposto da Berlinguer era tutt’altra cosa dall’operazione concepita e gestita da Moro.
Pubblicato su Il Dubbio
delusione procurata dal segretario del Pd Nicola Zingaretti, sottrattosi all’ultimo momento ad un analogo appuntamento per non dipingersi troppo di rosso dopo la rottura consumatasi con Matteo Renzi, il presidente del Consiglio ha svelato una poco consolante abitudine praticata nei quattordici mesi di alleanza e collaborazione con i leghisti di Matteo Salvini. Cui egli non ha perdonato il tentativo di investire in elezioni anticipate il raddoppio di voti conseguito il 26 maggio nel rinnovo del Parlamento Europeo, e il dimezzamento di quelli dei grillini. E neppure, o soprattutto, la oggettivamente imprudente richiesta di “pieni poteri” avanzata agli elettori da una delle spiagge frequentate a ridosso della crisi di governo.
scorso ad agosto di quest’anno i suoi week end al telefono con Bruxelles, Parigi, Berlino, Madrid, Lisbona, Malta e chissà quante altre capitali europee per chiedere “la cortesia personale” di accollarsi una parte dei migranti via via bloccati sulle navi dal suo ministro dell’Interno -Salvini, appunto- con la pratica dei porti chiusi, sino a quando non se ne fosse ripartito il carico di turno fra i paesi dell’Unione.
ai suoi primi vagiti sono seguite le cronache giudiziarie del Fatto Quotidiano e altre testate sulle inchieste e perquisizioni a carico del presidente della fondazione a lungo finanziatrice “Open”, Alberto Bianchi. E ciò per il reato di “traffico di influenze”, come si chiama ora penalmente la vecchia pratica delle raccomandazioni.
segretario. Ma non è un problema solo personale dei due ex amici, dei quali rimane negli album qualche fotografia di incontri
cordiali e scambi di regali. No, Renzi con la sua scissione ha creato questioni serie di schieramento e persino d’identità nel Pd di Nicola Zingaretti. Che non a caso ha disertato all’ultimo momento la partecipazione ad una festa di partito in cui doveva confrontarsi col ministro Speranza. Il quale, a sua volta, ha smentito pure lui, come D’Alema, sia pure in modo meno accidioso, il ritorno nel Pd -almeno per ora- degli scissionisti del 2017.
meno peso e forse anche spazio di manovra che in una maggioranza a tre, pur disponendo al Senato dei voti necessari per affondare il governo. Ciò, naturalmente, a meno di soccorsi sotto traccia che potrebbero provenire a questo punto solo da Forza Italia. Dove le cronache attingono voci e quant’altro, senza uno straccio di smentita, di affannosi contatti fra Conte in persona e la Corte, diciamo così, al maiuscolo, di Arcore divisa fra la paura di un centrodestra a forte trazione leghista e di un ricorso anticipato alle urne che, specie dopo la scissione di Renzi, metterebbe ancora più a rischio la sopravvivenza di Forza Italia.
direttamente, come capo di un partito autonomo che ha l’azione d’oro della maggioranza almeno al Senato. Dove lo stesso Renzi e i parlamentari che hanno già deciso di seguirlo, trasferendosi nel gruppo misto per mere ragioni di regolamento, non per insufficienza numerica, potrebbero fargli mancare la fiducia in qualsiasi momento, a meno di soccorsi berlusconiani sotto banco, con sapienti assenze all’occorrenza.
partito come “una minchiata”. Ne ha sviluppato il concetto Marco Travaglio scrivendo sul Fatto Quotidiano dell’irriducibile, incontenibile abitudine di Renzi di essere insieme “furbo e fesso”.
Eppure sulla stessa prima pagina del suo giornale Travaglio, in un titolo sotto la testata, ha attribuito agli obiettivi di Renzi quello non proprio secondario e “fesso” di contrastare la corsa dei suoi ormai ex compagni di partito verso la trasposizione della maggiorana giallorossa a livello locale, facendone un’operazione strutturale e strategica da straordinaria e provvisoria, in funzione antisalviniana, come lui invece l’aveva concepita rinunciando ai già ricordati pop-corn.
da destra Maurizio Belpietro con la sua Verità prendendosela col “contaballe” Renzi e con gli “allocchi” che gli andrebbero dietro, ancor più se
dovessero decidere di votarlo alla prima occasione possibile. Più sobrio, in fondo, è stato il manifesto rovesciando sarcasticamente in “senza di te” il veccio hastag “senza di me” di Renzi e amici quando di grillini non volevano sentir parlare. E Luigi Di Maio neppure
sognava di poter dire un giorno a Renzi dall’interno del governo ciò che gli ha fatto dire Repubblica: “Non tollero nuove tensioni. Lo ha già fatto qualcun altro e ci è bastato”. L’altro è naturalmente Salvini, Matteo anche lui.
sarebbe ricorso ad un’altra formula, esortandolo a “non avere ansie”. Che invece il presidente del Consiglio ha avvertito e avverte, al centro, e di spalle, in quel murale che lo ritrae tempestivamente sotto il tiro del nuovo Cupido mentre parla allegramente con Zingaretti e Di Maio. Sarà almeno la fortuna dei vignettisti e simili.
battaglia contro Radio Radicale con la totale copertura del Ministero dello Sviluppo Economico da cui materialmente dipendeva la sorte della convenzione, guidato d’altronde dal capo in persona del suo Movimento, Luigi Di Maio, il mio amico Massimo coniò per l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio la definizione di “gerarca minore”. Me ne sono ricordato quando ho visto rimuovere Crimi da quell’incarico nel nuovo governo di Conte, sia pure promosso a vice ministro dell’Interno, per essere sostituito da Andrea Martella, del Pd.
Renzi scegliendo le testate
di Repubblica e del Giornale della famiglia di Silvio Berlusconi, al quale peraltro egli spera di portar via, tra Montecitorio e Palazzo Madama, qualcuno stanco della declinante Forza Italia, già insidiata a destra dalla Lega di Matteo Salvini e dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
ugualmente “allibito” secondo il titolo del Secolo XiX- di “allargare la base parlamentare”
del suo secondo governo. E’ stato insomma un invito dei suoi, diciamo così, a stare sereno, su cui ha scherzato il vignettista del Foglio immaginando però all’altro capo del telefono di Renzi non Conte, ma il segretario del Pd Zingaretti, e alludendo naturalmente all’esperienza amara di Enrico Letta. Che di “serenità” promessagli da Renzi con un messaggio elettronico conobbe nel 2014 solo quella procuratagli con una crisi costatagli la guida del governo.
autonoma della nuova maggioranza giallorossa creata in funzione antisalviniana. L’uomo siederà al tavolo di questa maggioranza anche “per le nomine” del vasto, anzi vastissimo campo del sottogoverno, come ha perfidamente osservato sulla sua Verità Maurizio Belpietro. Che non gli ha mai perdonato di averci mezzo lo zampino, diciamo così, nella rottura con l’editore Angelucci e la perdita della direzione di Libero durante la campagna referendaria sulla riforma costituzionale.
al tradizionale raduno settembrino del Carroccio -valutata dagli 80 ai 90 mila partecipanti- ha superato anche quella dei tempi migliori di Umberto Bossi.
pagina del Corriere della Sera a consigliare prudenza ai protagonisti della nuova maggioranza di governo, impegnati ora a ripetere l’operazione antisalviniana anche a livello locale, a cominciare dall’Umbria, dove si voterà fra poco più di un mese. “Il Pd e i Cinque Stelle -ha scritto l’editorialista del più diffuso giornale italiano- farebbero molto male a non prestare attenzione alla folla in estasi salviniana che ha riempito il tradizionale pratone di Pontida”.
avvertito sulla Stampa: “Il punto sarà l’imprevedibile risposta che daranno nelle urne i due elettorati, allenati da anni a suonarsele di santa ragione”. In più, egli ha sottolineato l’aspetto un po’ ipocrita dell’operazione, in cui gli attori della maggioranza giallorossa si camuffano dietro accordi “civici” per fare ciò che non hanno il coraggio di dire con franchezza.
delle occasioni imprudentemente fornite dall’interessato con gesti e parole oltre misura. Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari si è limitato a
riferire su tutta la sua prima pagina “l’urlo di Pontida: torneremo”, resistendo alla tentazione dell’attacco o della derisione della sua inviata -credo- Brunella Giovara. Che nella cronaca ha inchiodato Salvini alle parole di Mussolini durante la sciagurata guerra mondiale condotta con Hitler: “Vincere” e “Vinceremo”. Lo sventurato, come ricorderanno i meno giovani, anche quelli nati dopo la guerra ma che se le rtrovarono per un bel po’ viaggiando per le strade, insozzò di quelle parole con vernice nera i muri d’Italia.
cominciare naturalmente da Silvio Berlusconi in persona, col quale ha pranzato qualche giorno fa a Milano, Salvini non è francamente sembrato in grandi difficoltà davanti alla sua gente a Pontida. Dove ha sventolato lo strumento pannelliano del referendum contro il tentativo di relegarlo a lungo all’opposizione col ripristino della vecchia legge elettorale proporzionale della cosiddetta prima Repubblica. Ed ha contrapposto -con demagogia, certamente, ma anche con una certa efficacia che essa assume in certi momenti- il “governo del Palazzo”, appena realizzato da Giuseppe Conte cambiando repentinamente maggioranza, al “governo del popolo” da lui evocato durante la crisi chiedendo le elezioni anticipate, dopo avere dimezzato nel voto europeo del 26 maggio i consensi dei grillini e raddoppiato i propri.
e smontare alleanze, come una volta accadeva a uomini come Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer o Bettino Craxi, con i loro partiti alle spalle; e forse un po’ deluso anche da Giuseppe Conte, su cui pure aveva tanto scommesso durante la crisi agostana compiacendosi di vederlo all’opera per il suo secondo governo, Eugenio Scalfari si è dedicato ad altro questa domenica sulla sua Repubblica di carta. Egli si è proposto di trovare un ruolo per un amico al quale tiene giustamente molto e vale moltissimo di certo: il presidente uscente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, in partenza da Francoforte, dove sarà sostituito dalla francese Christine Lagarde.
propria e vada a divertirsi al cinema o al teatro”. O porti ai giardinetti i nipoti o pronipoti, se ne ha, contento di non vedersi più rappresentato su qualche giornale tedesco come Dracula alle prese con i risparmiatori virtuosi d’oltr’Alpe per acquistare e salvare i titoli del debito pubblico italiano.
centrodestra si è ricompattata con un incontro chiarificatore, a Milano, fra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Il quale è uscito dalla villa milanese del Cavaliere, in via Rovani, senza fare dichiarazioni, ripromettendosi di dire quel che ha da dire nel comizio di domani nel raduno tradizionale dei leghisti a Pontida, ma ha lasciato riassumere così l’incontro dall’alleato: “Tutto bene. E’ andato bene. Siamo in piena sintonia”.
a Goffredo Bettini, che nel Pd ha fatto da ostretrico e anche da officiante funerario per più di una leadership. Egli si è occupato pure dell’agitazione crescente dell’ex segretario Matteo Renzi, promotore del nuovo governo con i grillini ma tentato dalla scissione, ora anche a causa dell’esclusione dei toscani dallo squadrone dei sottosegretari e vice ministri. Se n’è occupato non per trattenere Renzi ma per dire che una sua rottura non sarebbe “uno scandalo” se limitato al partito, rimanendo nella maggioranza e nel governo, dove non mancano suoi uomini e donne.
usata nei mesi scorsi per un’offensiva, sostenuta anche dal presidente del Consiglio Conte,
contro Radio Radicale, procurandosi dallo storico direttore Massimo Bordin, nonché conduttore della famosissima e apprezzata rassegna “Stampa e regime”, la qualifica di “gerarca minore”. Bordin è morto il 19 aprile scorso, in piena campagna grillina contro la sua radio. E Crimi, benché promosso -ripeto- al Viminale, rimane inchiodato mediaticamente, fra l’altro, a quella impietosa foto che lo ritrae assopito, a suo tempo, nel banco di capogruppo al Senato.