Pericolo scampato in Nuova Zelanda per la politica interna in Italia

            Per un giorno lasciatemi ignorare lo spettacolo, del resto assai noioso ormai, della politica italiana e delle sue baruffe più o memo serie, più o meno recitate, sui versanti sia della maggioranza gialloverde sia delle opposizioni di sinistra e di quel che del centrodestra è rimasto fuori dal governo un po’ perché rifiutato e un po’ per calcolo.

            Lasciatemi pure liquidare con una levatina di spalle la solita ossessione complottistica sull’altrettanto solito cavaliere, d’altronde già indagato per stragismo, avvertito a torto o Il Fatto.jpga ragione di fronte alla copertina del Fatto Quotidiano sull’olgettina avvelenata alla maniera dei dissidenti di Putin in Occidente. La giovane avrebbe saputo troppi segreti, par di capire, sull’ex presidente del Consiglio imputato di corruzione in atti giudiziari, o simili, per le sue vicende o abitudini erotiche.

            No. Oggi voglio riflettere sulla prima pagina de La Repubblica  e complimentarmi col nuovo direttore Carlo Verdelli per avere scelto come copertina la vignetta di Francesco Tullio Altan. Che ha opposto alla “speranza” dei tanti giovani festosamente scesi per strada chiedendo di proteggere il mondo dagli uomini che lo rovinano  “l’orrore” di quel disgraziato “suprematista” che ha assaltato a suo modo due moschee in Nuova Zelanda facendo 49 morti.

            Per fortuna quel disgraziato, avvolto idealmente nel suo “manifesto” contro gli immigrati, in una trasferta mentale a 19 mila chilometri di distanza, quanti separano la Nuova Zelanda dall’Italia, si è fermato a Macerata e all’ex candidato della Lega Luca Traini, che sparò all’impazzata, anche lui contro l’immigrazione, non facendo vittime, salvo sei feriti, tutti stranieri, ma riuscendo a cambiare in qualche modo il clima della campagna elettorale dell’anno scorso.

            Non voglio neppure immaginare se il disgraziato emulo in Nuova Zelanda dell’”infastidito” Traini, come si è autodefinto l’uomo di Macerata scoprendosi nodello di tanto orrore,  si fosse avventurato nel suo viaggio ideale sino a Roma  avvicinandosi festosamente al Viminale. Pericolo scampato, per il ministro dell’Interno, per i suoi infelici e rischiosi  slogan contro le “pacchie” e per l’Italia.

 

 

 

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Andreotti e Donat-Cattin: i due coetanei che si ritrovano nel loro centenario

A cento anni dalla nascita due campioni della Dc fra i più diversi, se non opposti, Giulio Andreotti e Carlo Donat-Cattin, si sono ritrovati nelle celebrazioni che ne hanno fatto al Senato, a poche settimane di distanza, storici e amici che li hanno studiati e frequentati. E li hanno ricordati con una nostalgia ben comprensibile, vista la qualità, francamente, di molti dei loro successori a livello partitico e di governo, come ha osservato il senatore ed ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, democristiano doc.

I due coetanei ritrovati nel rimpianto dei colleghi di partito, ma forse anche al di fuori di quella he fu la Dc, sono peraltro accomunati da passaggi drammatici della loro lunga esperienza politica. A ricordare i quali viene un po’ la pelle d’oca.

Ad Andreotti capitò, dopo essere stato sette volte presidente del Consiglio e ancora più volte ministro in postazioni anche delicatissime come quelle della Difesa e degli Esteri, di essereAndreotti.jpg processato per omicidio e per mafia. E di uscirne assolto, per fortuna prima di morire, anche se sull’assoluzione per mafia il suo accanito accusatore, l’allora capo della Procura di Palermo Gian Carlo Caselli, gli rimprovera ancora una prescrizione parziale: quella riferita ai fatti, agli incontri, alle frequentazioni precedenti la primavera del 1980. Che la Corte d’Appello ritenne accertati, in riferimento al reato di associazione a delinquere, con argomentazioni e deduzioni ritenute però nella sentenza definitiva della Cassazione ragionevoli quanto quelle di segno opposto: cosa che gli avvocati difensori di Andreotti ricordano giustamente  ogni volta che al loro defunto cliente viene contestata dai suoi irriducibili avversari l’assoluzione.

Ma prima ancora di essere processato, ad Andreotti era capitato drammaticamente di gestire alla guida del governo nel 1978 la gestione di quella tragedia costituita dal sequestro di Aldo Moro. Che le brigate rosse rapirono fra il sangue della sua scorta, sterminata come in una macelleria -parola di una terrorista partecipe dell’operazione- a poche centinaia di metri da casa, per ucciderlo dopo 55 giorni di prigionia e di tentativi più o meno sinceri di trattarne il rilascio.

A Carlo Donat-Cattin, che visse quella tragedia con l’angoscia di un amico appena salvato proprio da Moro come ministro dell’Industria a conclusione di una crisi di governo in cui  aveva rischiato di non essere confermato per un veto posto dai comunisti, partecipi della maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale, sarebbe capitata due anni dopo la tragedia di scoprirsi padre di un terrorista. E questo proprio a lui che come ministro del Lavoro, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, con l’esperienza abbinata di sindacalista e di politico, aveva saputo spegnere i fuochi sociali nei quali covavano già le prime tentazioni della lotta armata.

La vicenda del figlio terrorista, per la quale l’allora presidente del Consiglio Francesco Cossiga rischiò il processo davanti alla Corte Costituzionale sotto l’accusa di avere aiutato l’imputato a scampare allora all’arresto, spezzò il cuore a Carlo Donat-Cattin. Che sarebbe stato colto dal primo infarto accompagnando la moglie dopo qualche anno a trovare il figliolo in carcere. E, tornato alla piena attività politica da protagonista, per esempio di un congresso della Dc destinato ad aprire la stagione del pentapartito a guida alternata fra socialisti e democristiani, di cuore sarebbe morto nel 1991, dopo un’operazione in cui i medici avevano cercato di ripararglielo.

So bene che la storia non si fa con i se. Ma lasciatemi sospettare che ben difficilmente Mino Martinazzoli sarebbe riuscito a tradurre la crisi della Dc sopraggiunta a Tangentopoli nella chiusura del partito se fosse stato ancora vivo Carlo Donat-Cattin. Glielo avrebbe fisicamente impedito. La morte di un uomo come lui fu il colpo di grazia alla Dc dopo la fine di Moro. Che della Democrazia Cristiana era stato il cervello, come Donat-Cattin avrebbe continuato per tredici anni ad esserne il cuore, purtoppo già segnato di suo per la tragedia ricordata del figlio.

Fra Aldo Moro e Carlo Donat-Cattin, come è stato ricordato dallo storico Francesco Malgeri nella Moro e Donat Cattin.jpgcerimonia celebrativa del centenario della nascita dello stesso Donat-Cattin, svoltasi nell’affollata Sala Koch del Senato alla presenza significativa del capo dello Stato Sergio Mattarella,  moroteo dichiarato nella storia della Dc, fu vero scambio costante di amicizia e stima, personale e politica, pur nella diversità dei loro temperamenti, pari se non superiore a quella di entrambi con Andreotti.

Della diversità fra Moro e Carlo Donat-Cattin ho ancora nitido un ricordo personale che risale al mese di dicembre del 1971, quando si cercava di eleggere a Montecitorio, a Camere naturalmente congiunte, il successore di Giuseppe Saragat al Quirinale.

Il candidato col quale la Dc si era presentata all’appuntamento, l’allora presidente del Senato Amintore Fanfani, era stato ormai messo fuori gioco dai cosiddetti franchi tiratori del suo partito. Dove tuttavia si stentava a trovare un’intesa fra le correnti su un altro candidato. Donat-Cattin spingeva per la designazione di Moro, allora ministro degli Esteri. E voleva che l’amico non si limitasse, come faceva, ad aspettare pazientemente che maturassero le condizioni di partito a lui favorevoli. Che in effetti non sarebbero mai arrivate, essendosi alla fine i gruppi parlamentari dello scudo crociato espressi a favore di Giovanni Leone, sia pure per una manciata di voti a scrutino segreto.

Donat-Cattin, peraltro già espostosi contro Leone sette anni prima, in occasione della successione anticipata ad Antonio Segni, impedito al Quirinale da un ictus nell’estate del 1964, chiese ad un certo punto che Moro si facesse votare in aula al primo scrutinio a portata di mano contando su mezza Dc e sui comunisti, pronti a sostenerlo dopo avere contribuito all’insuccesso di Fanfani, “l’altro cavallo di razza” del partito di maggioranza, come si diceva allora.

Ebbene, a Moro che si sottraeva alle sue sollecitazioni, ancora fiducioso che l’ormai sconfitto Fanfani Moro.jpgdesse via libera alla sua candidatura, l’insofferente Donat-Cattin, seduto su un divano nel “Transatlantico” di Montecitorio, mandò a dire tramite il fedelissimo Renato Dell’Andro, rosso in volto e ancora più minuto del solito per l’imbarazzo: “Si convinca che per fare i figli bisogna fottere”.

Moro, informato del messaggio nell’ufficio dell’amico Tullio Ancora, un funzionario della Camera curiosamente provvisto al centro della fronte di una frezza bianca simile a quella del leader democristiano, ne sorrise. E quando dai gruppi parlamentari uscì la candidatura di Leone, e il segretario del partito Arnaldo Forlani temeva, come confidava agli amici, di assistere a un “safari natalizio”, data la stagione, Moro chiamò personalmente anche Donat-Cattin per raccomandargli un voto disciplinato per l’uomo designato dalla maggioranza dei parlamentari dello scudo crociato.

Non so francamente se Donat-Cattin ubbidì a Moro e al suo partito, nei cui riguardi Andreotti soleva rimproverare il mio amico Carlo di comportarsi come “un anarchico”, neppure tanto simpatico, spintosi una volta a disertare per polemica proprio con lui una cerimonia di giuramento come ministro al Quirinale. Leone comunque fu eletto alla seconda delle due votazioni svoltesi in aula sulla sua candidatura. E sei anni e mezzo dopo fu tra i pochi, forse anche a costo di perdere la Presidenza della Repubblica, a prodigarsi davvero, per cercare di strappare Moro alla morte predisponendosi a graziare una terrorista contenuta nell’elenco dei tredici detenuti con i quali i brigatisti rossi avevano reclamato di scambiare l’ostaggio.

Donat-Cattin, parlandogliene una volta a Saint Vincent, dove ogni anno riuniva in autunno la sua corrente, mi confidò di essere anche lui convinto che Leone con quelle dimissioni impostegli nel mese di giugno del 1978,  sei mesi prima della scadenza del mandato e un mese dopo l’assassinio di Moro, avesse pagato proprio la colpa di quella grazia peraltro mancata. I terroristi infatti, informati chissà da chi, ma con tempestività a dir poco inquietante, l’avevano preceduta uccidendo il prigioniero.

 

 

 

 

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Salvini non ha digerito il piatto cinese servitogli a colazione al Quirinale

            A vederlo arrivare, sereno e sorridente, al convegno nella Sala Koch del Senato per la celebrazione del centenario della nascita di Carlo Donat-Cattin, il leader della sinistra sociale della Dc morto il 17 marzo 1991 dopo un’operazione al cuore, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non sembrava proprio contrariato di quanto gli stava politicamente accadendo intorno di spiacevole, a dir poco. Che era lo strappo della tela tessuta in una colazione al Quirinale con mezzo governo a favore del memorandum d’intesa commerciale con la Cina preparato sulla cosiddetta Via della Seta. E che, nonostante le proteste, le preoccupazioni e persino le minacce levatesi dagli alleati al di qua e ancor più al di là dell’Atlantico, dovrebbe essere firmato la settimana prossima, in occasione di una lunga visita ufficiale del presidente della Cina in Italia.

            Il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini, pur avendo dato a Mattarella l’impressione, in quella colazione organizzata in vista del Consiglio Europeo, di avere rinunciato alle riserve espresse o attribuitegli sino al giorno prima, ha riaperto il caso cinese con tale vigore da avere imposto al presidente del Consiglio un altro, l’ennesimo vertice di maggioranza e di governo.

            Sembra che a fare sobbalzare di nuovo Salvini sia stata la lettura di un testo aggiornato del memorandum a causa delle modalità di accesso dei cinesi, in senso lato, ai porti di Trieste e di Genova. Ma del ripensamento di Salvini viene, a torto o a ragione, attribuita al suo omologo grillino Luigi Di Maio, dietro la facciata sempre meno convincente dei loro buoni rapporti personali e politici, una spiegazione da anni, diciamo così, della guerra fredda. Durante i quali politica interna e politica estera si intrecciavano tra sgambetti, complotti, doppi giochi, spionaggio camuffato da diplomazia e via mescolando.

            Dalle parti dei grillini, decisamente filocinesi in questa partita della cosiddetta Via della Seta immaginata a Pechino per penetrare -anche qui in senso lato- in Europa con la stessa forza usata in Africa, si leggono le resistenze di Salvini alla luce di un recente viaggio del sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti negli Stati Uniti, di un incontro successivo dello stesso Giorgetti con l’ambasciatore americano a Roma e dei contatti costanti di un altro sottosegretario dello stesso partito con quell’ambasciata. Sono passati evidentemente i tempi pur recenti dei rapporti privilegiati dei leghisti con la Russia di Putin, dove Salvini disse una volta di senirsi di casa.  

Quella che viene adesso avvertita fra i grillini è una tentazione del leader leghista di scalare Palazzo Chigi con l’aiuto non delle cinque stelle di casa, che ne sarebbero esautorate, ma delle stelle e strisce americane. Il che presupporrebbe la preparazione di una crisi di governo dopo le elezioni europee di fine maggio, e il prevedibile sorpasso dei leghisti sui pentastellati su tutto il territorio nazionale: non più ora in una regione e domani in un’altra, com’è avvenuto dall’anno scorso, cioè della formazione del governo. E come si ripeterà probabilmente domenica 24 marzo nella piccola ma significativa Basilicata.

            Vasto programma, avrebbe detto scherzando ma non troppo la buonanima del generale Charles De Gaulle. Vi lascio immaginare cosa potrebbe sfuggire di bocca e di testa a Beppe Grillo, che già non perde occasione nei teatri dove si esibisce col suo spettacolo vantandosi di avere chiesto alla madre di Salvini, passatagli una volta incautamente al telefono dal leader leghista in un aeroporto, perché mai non avesse usato la pillola piuttosto che concepire quel figlio.

            In questo Carnevale continuo, e quindi fuori stagione, che sembra essere il dibattito politico in Italia, con annessi e connessi riflessi nell’azione di governo, non si sa più neppure come rincorrere gli argomenti: dalla Via della Seta, percorsa a grande velocità da Luigi Di Maio con due visite in pochi mesi in Cina, giusto per dimostrare quanto lenti fossero stati su quella strada i precedenti governi di Matteo Renzi e di Paolo Gentiloni, al decreto legge reclamato da Salvini per sbloccare una trentina di cantieri, e persino al raduno veronese di fine mese sponsorizzato dai leghisti per valorizzare e aiutare le famiglie naturali, o normali. Che Di Maio ha preferito invece definire in un salotto televisivo “sfigate”, con tutto ciò che ne è conseguito, compresa la rimozione del simbolo di Palazzo Chigi dall’evento di Verona, adoperato dagli organizzatori scambiando il Ministero leghista della famiglia con la Presidenza del Consiglio. Sono cose che possono accadere, appunto, di Carnevale.

 

 

 

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Il Quirinale garantisce e blinda il tratto italiano della Via della Seta

            Con dovizia di particolari superiore al solito il solerte Marzio Breda ha riferito ai lettori del Corriere della Sera sulla sostanziale blindatura, da parte di Sergio Mattarella, del tratto italiano Titolo Corriere.jpgdella cosiddetta “Via della Seta” che ha tanto allarmato i nostri alleati al di là e al di qua dell’Atlantico. Dove anche il capo dello Stato, e non solo il presidente grillino del Consiglio Giuseppe Conte, ha sentito puzza di “parecchi pregiudizi, magari interessati” verso l’Italia, colpevole solo di volere fare con la Cina affari forse anche inferiori a quelli che hanno già realizzato in Europa gli inglesi, i francesi e i tedeschi.

            Il “dossier Cina”, come lo ha chiamato il quirinalista del Corriere, è stato squadernato dal presidente della Repubblica con molta attenzione già prima di una coalizione al Quirinale Colazione al Colle.jpgcon “mezzo governo”, ricevuto in vista dell’imminente Consiglio Europeo. Ma anche della quasi contemporanea visita del presidente della Cina in Italia, durante la quale sarà firmato il “memorandum d’intesa”. Sul quale peraltro aveva già cominciato a lavorare il precedente governo guidato da Paolo Gentiloni, che sta per assumere adesso la presidenza di un partito, il Pd, da cui si sono levate voci critiche o preoccupate: al pari, del resto, di Forza Italia dai banchi dell’opposizione e della Lega dai banchi della maggioranza.

            Eppure il leader leghista, vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini non ha avuto Colazione al Colle 2 .jpgnulla, proprio nulla da ridire -ha assicurato Breda- con i commensali al Quirinale, dove si è presentato in un abito completo di camicia azzurrina e cravatta.

            Sulla “partita” cinese aperta dalle polemiche mentre si spegnevano quelle sulla Tav, pur essendo materia di “competenza dell’esecutivo”, il presidente della Repubblica “è molto sereno e tranquillo”, ha riferito Breda. Che ha continuato: “Egli ha assunto tutte le informazioni utili a valutare il caso, ci ha riflettuto sopra e ne ha ricavato la convinzione che le polemiche, interne e internazionali, non sono giustificate. Insomma tanto rumore (e minacce) Colazione al Colle 3.jpgper nulla”. Ma proprio per nulla, nemmeno per la parte finita nei giorni scorsi all’esame e alla discussione del Copasir, l’acronimo del comitato parlamentare di sicurezza della Repubblica ed è attualmente presieduto da un deputato del Pd notoriamente amico di Matteo Renzi: Lorenzo Guerini, ben protetto peraltro, proprio per questa carica istituzionale, dal progetto di “derenzizzazione” attribuito al nuovo segretario del partito che sta per insediarsi, Nicola Zingaretti.

            Ciò di cui si è occupato, più in particolare, il, Copasir a proposito del memoramdum d’intesa commerciale con la Cina è l’ipotesi di un uso della tecnologia informatica G5 attraverso la Gazzetta.jpgsocietà cinese, appunto, Huawei, di cui è stato appena aperta un ufficio a Milano. E che gli americani sembra che vedano come il fumo negli occhi, tanto da avere minacciato o già programmato misure non si sa se più ritorsive o cautelari nei rapporti informatici e di sicurezza con l’Italia. Ma anche su questo il presidente della Repubblica ha maturato riflessioni, diciamo così, distensive.

            Quella dell’uso della tecnologia G5 attraverso la società cinese presente ora anche in Italia “è un’ipotesi separata dall’accordo e da approfondire”, ha scritto il quirinalista del Corriere riferendo delle notizie e delle opinioni maturate dal presidente della Repubblica, rimanendo sempre ferma -si presume- la competenza del governo.

            Di fronte a così abbondanti e consolanti informazioni passate in qualche modo attraverso il canale del Quirinale resta solo da capire -senza volere minimamente mancare di rispetto al capo Rolli.jpgdello Stato- i motivi per cui il governo, a parte la presenza di Conte alla riunione riservata del Copasir, non ha mai ritenuto né doveroso né opportuno prestarsi alle sollecitazioni giuntegli a riferire pubblicamente e preventivamente alle Camere, come si fa per tante altre cose e questioni. E perché mai i presidenti delle Camere, di solito così solerti a rappresentarne aspettative e umori, non si siano attivati. O lo hanno fatto con tale discrezione che nessuno davvero se n’è accorto, forse neppure nel governo.

 

 

 

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La gara davvero insolita al caos politico fra la Gran Bretagna e l’Italia

            Buone notizie da Londra per Roma. Dove sembra che, per quanto ridotti male fra rinvii, pasticci, stagnazione e campagne elettorali continue, siamo messi un po’ meglio degli inglesi. O competiamo abbastanza con loro.

             I titoli dei giornali italiani sulla nuova bocciatura rimediata in Parlamento dalla prima ministra Theresa May sulla strada della Brexit sono, a dir poco, allarmanti e allarmati, fatta Il Foglio.jpgeccezione per Il Foglio. Il cui fondatore e attivissimo editorialista Giuliano Ferrara non ha voluto tradireMessaggero.jpg la sua vocazione a stupire, o a cantare fuori dal coro, titolando in azzurro il suo commento “May una gioia”. Di fronte alla quale impallidisce il predecessore David Cameron, il collega di partitoIl Giornale.jpg che ebbe la grandissima idea di promuovere il referendum sulla permanenza nell’Unione Europea perdendolo. E ora si ha francamente la sensazione che molti oltre Manica vorrebbero tornare indietro non sapendo come farlo.

            La “zuffa inglese”, come ha più realisticamente e felicemente titolato il manifesto, si può ben tradurre in zuffa italiana quando si scorrono le notizie politiche di casa nostra, specie quelle Corriere 1.jpgprovenienti dalla maggioranza gialloverde e dal governo guidato ormai dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte con tanta imperscrutabilità, pur ammantata di buone maniere, cheRepubblica.jpg un giornale come il Corriere della Sera ha messo in campo due giornalisti – non uno, e che giornalisti, lo stesso direttore Luciano Fontana e il notista politico Massimo Franco- per intervistarlo sulla grana di giornata. Che è naturalmente la cosiddetta “Via della Seta”, percorsa dal governo italiano per arrivare ad un accordo commerciale, di imminente firma a Roma, in occasione della visita del presidente della Cina, che ha messo in allarme i nostri alleati al di là e al di qua dell’Atlantico.

            Ma quale allarme? Quali preoccupazioni ? Ha praticamente chiesto Conte ai due interlocutori del Corriere immaginando dietro i loro volti quelli di Donald Trump, Jean-Claude Juncker e compagnia bella. Intanto -ha precisato il presidente del Consiglio con la sua competenza di professore universitario di diritto e di avvocato civilista- quello che sta per essere firmato è solo “un memorandum, senza vincoli giuridici”.Gazzetta.jpg E ciò avrebbe esonerato il governo dal dovere o dalla sola opportunità di riferirne prima al Parlamento, tenendone informato -se si è capito bene- solo il presidente della Repubblica. Il quale pertanto, specie considerando la visita ufficiale compiuta personalmente in Cina, non avrebbe ragione di nutrire quelle perplessità, apprensioni e quant’altro attribuitegli dai soliti giornali disinformati o, peggio ancora, ossessionati.

            Di “ossessione” il presidente del Consiglio ha parlato, in particolare, e con una certa insofferenza, quando i due intervistatori hanno osato mettere a confronto il suo passo deciso sulla “Via della Seta” e Corriere.jpgquello di segno opposto sulla Tav, cioè sulla linea d’alta velocità ferroviaria per il trasporto delle merci da Lione a Torino, indigesta al movimento delle cinque stelle. E della quale l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti proprio sul Corriere della Sera ha perfidamente prospettato l’utilità che potrebbero avvertire i cinesi  in arrivo -in senso lato- nel porto di Genova.

            Un’altra “ossessione” dei giornali sarà diventata agli occhi e alle orecchie di Conte quella arrivata sulle prime pagine con le notizie, indiscrezioni, retroscena sulla frenata dei grillini al decreto legge reclamato dal leader leghista Matteo Salvini, vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, per sbloccare i tantissimi, davvero troppi cantieri fermi in Italia: una frenata dietro la quale è stata vista la paura del ministro pentastellato Danilo Toninelli di perdere competenze proprio nel momento in cui pendono su di lui mozioni parlamentari di sfiducia.

            I giornali sono considerati ossessivi anche dal vice presidente del Consiglio e capo del movimento delle 5 stelle Luigi Di Maio, che se n’è appena doluto nel salotto televisivo di Giovanni Floris assicurando che i suoi rapporti personali e politici con l’omologo della Lega sono eccellenti. Incalzato da altri ospiti, che gli ricordavano giustamente dichiarazioni alquanto polemiche con Salvini, sino allo “sbigottimento” espresso per una sua presunta o reale minaccia di crisi per la Tav, Di Maio se l’è cavata vantando il diritto di mandare e ricevere messaggi “mediatici”. Ma che bisogno hanno, i due vice presidenti del Consiglio, di parlarsi e minacciarsi a distanza se hanno fra di loro, in realtà, rapporti diretti così buoni e frequenti? Ma forse anche questa è una domanda da ossessione.

 

 

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Nicola Zingaretti in fuga, tra nostalgie e paure, dalla sede del Nazareno

          Dalla sinistra, almeno da quella post-comunista, il nuovo segretario del Pd Nicola Zingaretti ha Nazareno.jpgsicuramente ereditato quella che al Fatto Quotidiano hanno giustamente chiamato “la sindrome dei traslochi”. Cui si ricorre quando si vuole fuggire da un passato diventato troppo scomodo, per quanta nostalgia si continui forse a colvitarne dentro di sé. E Nicola Zingaretti, sotto sotto, un po’ di nostalgia per la storica sede del Pci dei suoi anni giovanili, in via delle Botteghe Oscure, deve avvertirla ancora se, volendo portar via il Pd dall’attuale via del Nazareno verso una sede meno centrale, meno costosa dei 600 mila euro l’anno dell’affitto odierno e meno sfortunata, ne ha immaginata Bottegone.jpguna provvista al piano terra di un ampio spazio aperto al pubblico come una libreria. Fu proprio di una libreria al piano terra, chiamata come la storica rivista comunista da lui diretta, Rinascita, che Palmiro Togliatti volle attrezzare  la sede nazionale del Pci in via delle Botteghe Oscure, come di uno spazio aperto.

           Tra le sfortune dell’attuale sede del Pd, peraltro ereditata in qualche modo da un altro partito – quello de La Margherita post-democristiana di Francesco Rutelli, unificatosi nel 2007 con i Dsex Pci di Piero Fassino-  credo che Nicola Zingaretti includa, prima ancora della scoppola elettorale dell’anno scorso, la lunga segreteria di Matteo Renzi e il patto per le riforme che proprio in quella sede lo stesso Renzi volle stringere con Silvio Berlusconi. Che pure era stato da poco condannato in via definitiva per frode fiscale ed espulso conseguentemente dal Senato.

           Quel patto, in verità, durò poco più di un anno, naufragando nel 2015 per l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. Dove Berlusconi aveva cercato di convincere l’allora presidente del Consiglio Renzi, oltre che segretario del partito, a mandare invece il giudice costituzionale Giuliano Amato, commettendo però l’imperdonabile errore di spendere a suo favore l’accordo di Massimo D’Alema da lui personalmente accertato. Fu una cosa che il Matteo di Firenze scambiò per una provocazione, tanto lui era convinto di avere ormai meritatamente rottamato quel pezzo grosso della nomenclatura comunista e post-comunista che era appunto D’Alema.

           Pur di breve durata, e così rovinosamente finito, con effetti pesanti sulla stessa sorte politica di Renzi, passato da una sconfitta all’altra,  quel patto chiamato “del Nazareno” è rimasto come una dannazione nella memoria del Pd. Dove Berlusconi non è meno inviso di Matteo Salvini, e forse persino di Beppe Grillo ed amici, per quanto ogni tanto si avvertano sospiri sotto le cinque stelle ricambiati da qualche volenteroso piddino.

           Eppure, c’è ancora del Nazareno, inteso come patto col centrodestra di conio berlusconiano, in qualche piega del Pd. Lo hanno scoperto e denunciato a Nicola Zingaretti nella redazione del Fatto Quotidiano con “la cattiveria” di giornata, sulla prima pagina, dedicata alle elezioni comunali siciliane Il Fatto.jpgdel mese prossimo. “Il Pd di Zingaretti -hanno scoperto dalle parti di Marco Travaglio- sostiene Forza Italia e altre liste di destra. E Montalbano muto”.  Ma va detto che il fratello del commissario televisivo Luca si insedierà alla segreteria del Pd solo domenica prossima, non so se in tempo per tagliare o far tagliare la coda nazarenica in Sicilia segnalatagli impazientemente dal Fatto.

Le solite coincidenze fra cronache giudiziarie e politiche

Per carità, non parliamo di orologi e orologiai. E neppure di calendari, e di chi si annota tutte le scadenze utili a fare gli auguri, o a rovinare la festa di turno. Anche questa volta le coincidenze sono state casuali, o incidentali. Ma, appunto, anche questa volta i passaggi politici si sono sovrapposti, o sono stati sottoposti, come preferite, a passaggi giudiziari, o paragiudiziari. In quest’ultimo modo possono essere chiamati quelli in cui i politici agiscono e decidono come magistrati per competenze loro conferite dalla Costituzione, e non ancora soppresse da chi forse non vedrebbe l’ora di farlo se disponesse in Parlamento dei numeri necessari allo scopo.

Il conflitto latente, a dir poco, sin dalla nascita del governo gialloverde sul progetto della linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci da Lione a Torino è alla fine esploso, con la     “minaccia di crisi” contestata dallo “sbigottito” vice presidente grillino del Consiglio al suo omologo leghista Matteo Salvini, nelle stesse ore della diffusione della notizia di indagini su Silvio Berlusconi per presunta corruzione in atti giudiziari.

Che cosa c’entrasse Berlusconi nei venti di crisi soffiati per un po’ sul governo gialloverde, sino alla sopraggiunta soluzione dilatoria dei bandi a lungo corso per gli appalti, lo avevano spiegato gli stessi grillini, volenti o nolenti, quando avevano contestato la posizione di Salvini a favore della Tav sfidandolo a “tornare” dal Cavaliere. Che Di Maio in persona aveva rappresentato, secondo i giorni o le ore dei suoi incubi, come il ministro degli Esteri, o dell’Economia, o della Giustizia di un governo di centrodestra, forse già prima e senza elezioni anticipate, presieduto da un Salvini tornato appunto all’ovile.

In verità, c’era già un’ampia letteratura retroscenista che dava Salvini contrario o quanto meno refrattario all’idea di rimettersi a livello nazionale con Berlusconi, relegato dopo le elezioni politiche dell’anno scorso ad alleato locale, o periferico. Ma evidentemente essa non era bastata a rasserenare Di Maio e a risparmiargli nelle riunioni con i compagni di partito inquieti, o addirittura smaniosi di rompere con Salvini, la rivendicazione del ruolo di “argine” attribuitosi rispetto al fantasma di un Cavaliere addirittura guardasigilli, con tutti i problemi, vecchi e nuovi, che costui ha con la giustizia.

Secondo Michele Serra, sulla Repubblica, Berlusconi sarebbe un uomo ormai chiaramente “al tramonto”, tanto che sarebbe praticamente caduta nel nulla la notizia sulle sue presunte manovre per strappare al Consiglio di Stato tre anni fa una sentenza a favore di una consistente partecipazione a Mediolanum, contestatagli invece dalla Banca d’Italia perché condannato per frode fiscale. Troppo ingenuo, direi, il buon Serra.

Era invece bastato e avanzato che la notizia delle indagini su Berlusconi per la sentenza del Consiglio di Stato comparisse sulle agenzie, sulle prime pagine dei giornali e nei titoli di testa dei telegiornali perché le cronache politiche sulla Tav e sull’avvicinamento alla crisi di governo si tingessero ulteriormente di giallo. E si moltiplicassero dietro l’angolo o nel “buco” della montagna tanto contestato in Val di Susa sospetti, congetture e quant’altro sul minore o maggiore potere contrattuale derivante a Salvini nella partita con Di Maio, e viceversa, dalla nuova  o rinnovata vicenda giudiziaria del Cavaliere. E si facessero spallucce alla convinzione espressa, magari a ragione, dai difensori di Berlusconi sull’esito delle indagini scontato a favore del loro assistito, tornato intanto alla piena agibilità politica tanto temuta dal vice presidente grillino del Consiglio guardando ben oltre la candidatura del presidente di Forza Italia al Parlamento Europeo nelle elezioni di fine maggio.

D’altronde, è appena fresco di stampa l’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera in cui si immaginano elezioni anticipate, all’esaurimento della ennesima tregua, destinate a produrre “un quadro movimentato dalla ritrovata libertà d’azione dei 5 stelle nuovamente partito di lotta, da una sinistra che ha ritrovato la baldanza e da qualche inchiesta giudiziaria” capace di disturbare il centrodestra a trazione leghista destinato a uscire vincente dalle urne. Così “il nuovo quadro -ha scritto il nient’affatto sprovveduto Mieli- a fatica potrebbe presentarsi come più stabile di quello attuale”.

Nel culmine delle polemiche sulla “testa dura” rivendicata da Salvini contestando anche i “forti dubbi e perplessità” espressi pubblicamente dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla “convenienza” della Tav, o della sua versione maschile, Di Maio non  aveva soltanto commesso la gaffe istituzionale di anteporsi al capo del governo -“Io e Conte”- per definire minoritaria la posizione dello scomodo e cocciuto ministro dell’Interno. Egli aveva anche ricordato a quest’ultimo -casualmente, per carità, in attesa del voto del 20 marzo nell’aula del Senato sulla richiesta del cosiddetto tribunale dei ministri di Catania di processarlo per la vicenda della nave “Diciotti”, con l’accusa di sequestro aggravato di oltre 170 immigrati, abuso d’ufficio e non ricordo cos’altro ancora- che “avremo problemi in futuro”  insistendo a reclamare la Tav. ” Problemi in futuro”, ripeto.

Un no al processo a Salvini per l’affare “Diciotti” è stato già espresso dalla competente giunta del Senato, presieduta dal forzista Maurizio Gasparri, col concorso dei componenti grillini dopo una consultazione digitale dei militanti del movimento delle cinque stelle. Ma non è per niente scontata, nelle nuove condizioni politiche createsi con gli sviluppi delle polemiche sulla Tav,  neppure dopo la frenata sulla crisi compiuta ricorrendo all’espediente degli appalti con la clausola della dissolvenza incorporata, un’automatica ripetizione del voto e/o degli schieramenti della giunta  nell’assemblea di Palazzo Madama. Dove è richiesta la maggioranza assoluta, i numeri della coalizione gialloverde, già striminziti alla partenza del governo, si sono ulteriormente ridotti con alcune espulsioni di dissidenti dal gruppo pentastellato e permangono resistenze, sempre fra i grillini, alla linea contro il processo a Salvini espressa a pur larga maggioranza -59 per cento contro 41- dalle tastiere dei computer collegati con la “piattaforma Rousseau” di Davide Casaleggio.

Certo, Salvini potrà contare, sul piano personale come senatore e sul piano politico come leader leghista, anche sui voti dei gruppi che rappresentano in Parlamento i partiti di Berlusconi e di Giorgia Meloni, forse più che sufficienti a colmare i dissensi grillini combinati con l’opposizione targata  Pd. Che è pregiudizialmente schierata in tutte le sue anime o correnti con la richiesta della magistratura di turno. Pregiudizialmente, perché persino l’ex segretario del partito Matteo Salvini, il senatore di Scandicci che voleva una volta ripristinare il primato della politica sulla magistratura, ha avuto questo approccio dichiarato pubblicamente con la pratica Salvini: “Mi riservo di leggere bene le carte per votare sì al processo”. O, come imporranno le procedure, no alla proposta della giunta di rifiutare l’autorizzazione ai giudici di Catania.

Naturalmente nel caso di un no del Senato al processo a Salvini condizionato dai voti forzisti o, più in generale, di un centrodestra pienamente riesumato, avremmo un rovesciamento della maggioranza di governo, con tutte le conseguenze prevedibili, o magari senza conseguenze, come potrebbe anche accadere in una situazione politica così anomala e imprevedibile  quale è diventata da tempo quella italiana.

Ma ciò avverrebbe -questo è il punto accennato all’inizio di queste riflessioni- all’incrocio fra iniziative politiche e giudiziarie, o paragiudiziarie, com’è l’intervento del Senato attivato costituzionalmente dall’azione della magistratura. Se questa non è una patologia ormai del sistema, risalente a molti anni fa, persino a prima dello spartiacque comunemente considerato di Tangentopoli, o “Mani pulite”, ditemi voi come si debba o possa definire.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Sotto le cinque stelle non se la bevono la vittoria contro la Tav

          Già disorientati e scettici di loro, i grillini non si sono lasciati incantare dalla rappresentazione anti-Tav tentata dai vertici del loro movimento con l’espediente dilatorio trovato a Palazzo Chigi. Dove hanno praticamente cambiato nome ai bandi per gli appalti della società italofrancese costituita per realizzare la linea d’alta velocità per il trasporto ferroviario delle merci da Lione a Torino. E hanno annunciato, sempre a Palazzo Chigi. contatti, incontri, negoziati e altro ancora fra Roma, Parigi e Bruxelles per cercare, fra l’altro, di ripartire diversamente gli oneri concordati nel trattato italo-francese maledettamente in vigore.

          A dare forse il colpo di grazia alle illusioni di una vittoria conseguita o alle porte nella lotta addirittura “identitaria” del movimento contro “il buco”, com’è chiamata la Tav con dileggio dal Fatto Quotidiano, è stato il perfido leader leghista Matteo Salvini. Che, di buon umore anche per la festa del suo 46.mo compleanno gustata in un importante albergo milanese durante la coda di rito ambrosiano del Carnevale, ha riempito di elogi e carinerie il suo omologo grillino al governo Luigi Di Maio. Che pure, “sbigottito”, gli aveva dato dell’”irresponsabile” per avere reclamato i bandi chiamandoli col loro nome e avere ostentato la propria “testa dura” a sostegno dell’opera tanto indigesta ai suoi alleati.

         Ma sì, al netto delle polemiche che tante volte apre o rilancia, il giocane capo del movimento delle cinque stesse -ha assicurato Salvini parlando appunto di Di Maio- “è serio, corretto, leale e coerente”. Chissà in quanti vorrebbero chiedere fra i grillini a Salvini se ci fa o ci è, come si dice in gergo popolare. E chiedere al tempo stesso a Di Maio che razza di partita stia veramente giocando con l’amico.

        Uno specialista, diciamo così, dei fatti e degli umori grillini, Ilario Lombardo, ha sottolineato sulla Stampa l’assenza di un anti-Tav come Alessandro Di Battista dal Villaggio Rousseau Villaggio Rousseau.jpgallestito a Milano da Davide Casaleggio nei giorni scorsi sul tema dell’Europa. E haLa Stampa.jpg così convintamente attribuito all’”ex eroe dei due mondi” del movimento pentastellato la convinzione di essere stato abbandonato, tradito e quant’altro per la sua intransigenza dal duttile Di Maio che nel titolo dell’articolo c’è finito uno “scaricato”.

         Non minore, di fronte a quanto è accaduto negli ultimi giorni sul fronte della Tav, sopra e sotto le cinque beppe grillo.jpgstelle, è il disincanto, a dir poco, di Beppe Grillo in persona. Che nel sommario, e poi nel testo, della nota sulla 56.ma settimana del suo blog ormai personale, distinto e distante da quello ufficiale del movimento di cui pure è “elevato garante”, dà l’impressione di voler includere anche la presunta vittoria contro la Tv, o la forse meno presunta sconfitta, nel “nulla cosmico cui stiamo assistendo”.

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it policymakermag.it

Trovato nella coda ambrosiana del Carnevale l’espediente pro-Tav

         Il rumore stridente dei freni non si è sentito, e non si sono neppure viste le scintille sulle rotaie, semplicemente perché mancano i binari e il treno di presunta alta velocità ferroviaria per il trasporto delle merci da Lione a Torino. Ma il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, professore manifesto.jpgdi diritto, avvocato civilista  “del popolo”, per sua stessa definizione, e ora anche prestigiatore è riuscito frenare la corsa politica verso la crisi di governo. Che procederà ora a velocità ridotta, o addirittura a passo d’uomo, almeno sino alle elezioni europee di fine maggio.

         Il gioco di prestigio di Conte, condotto tra udienze, lettere e telefonate, si è concluso in tempo per non oltrepassare la coda di rito ambrosiano del Carnevale. Che, come si sa, è finito martedì scorso 5 marzo nel resto Salvini.jpgd’Italia, ma  a mezzanotte di sabato 9 a Milano . Dove il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini, deciso a salvare la Tav con “la testa dura” che si è vantato di avere contrapponendosi all’omologo grillino Luigi Di Maio, si era ritirato qualche giorno fa per festeggiare proprio sabato con familiari e amici i suoi 46 anni.

         In particolare, Conte ha strappato alla società italo-francese incaricata di realizzare il progetto ferroviario tanto contestato dai grillini il consenso a indire sì i bandi per i lavori previsti oltr’Alpe ma con una cosiddetta clausola Messaggero.jpgdi dissolvenza che si presume non possa compromettere la prenotazione dei contributi dell’Unione Europea, versabili ad opera realizzata. Le imprese rispondono ai bandi solo per prenotare la loro partecipazione alle gare, in attesa delle quali sarò tentato un negoziato tecnico e politico fra Italia e Francia per rivedere il trattato in vigore sul progetto e sulla ripartizione degli oneri. 

         Grazie a questo espediente ciascuno dei due partiti del governo gialloverde potrà far credere, o tentare di far credere ai suoi elettori, in vista delle urne europee  di fine maggio e delle altre consultazioni locali che le precederanno e accompagneranno, di avere tenuto il punto contro o a favore della Tav, oRolli.jpg della versione maschile -il Tav- preferita in particolare dai grillini. Su questo effetto a dir poco ambiguo, basato sulla speranza delle due parti che gli elettori abbiano l’anello al naso, come si dice in gergo popolare, e non si arrabbino, o solo non si insospettiscano, si sono naturalmente sprecati titoli e vignette sulle prime pagine dei giornali.Libero.jpg Che potrebbero iscriversi a loro volta ad un’altra gara, organizzata da qualche volenterosa associazione di buontemponi, per aggiudicare dopo le elezioni europee di fine maggio, e le conseguenze politiche dei loro risultati, fra e all’interno dei due partiti della maggioranza gialloverde, uno o più  premi di attendibilità o preveggenza.

         Ora naturalmente può proseguire la Quaresima, in tutti i sensi, e a livello questa volta davvero nazionale, anche a Milano e dintorni.  

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it policymakermag.it

Quelle cose sulla Tav, e sul governo, al sen sfuggite a Luigi Di Maio…

            Se la Tav, o il Tav in versione maschilista, non fosse quella cosa seria che è sempre stata, e che è aumentata di consistenza con i venti di crisi non tanto e non solo sul governo gialloverde quanto su un Paese già in recessione di suo, si potrebbe anche condividere l’ironia di Vauro Senesi. Che sul Fatto Quotidiano, lodevolmente e per niente condizionato dalla linea politica del giornale favorevole al no di Luigi Di Maio, prende in giro il capo del movimento delle cinque stelle e vice presidente del Consiglio accomunandolo nella sua vignetta di prima pagina all’omologo leghista Matteo Salvini: l’uno impegnato a rimettere nel contestatissimo buco in Val di Susa la terra rimossa dall’altro scavando la montagna. E ridiamoci su per un attimo anche noi.

            Ma la Tav, o il Tav, è appunto una cosa persino drammaticamente seria, per cui limitarsi a ridere non è possibile. Bisogna ragionarci sopra. Di Maio raccomanda di farlo con criteri addirittura “scientifici”. Peccato che mentre parlava così, alludendo chiaramente ai costi e ai benefici calcolati dal professore Marco Ponti, si scopriva che questo specialista di calcoli ne ha fatti altri sulla stessa opera assai diversi, anzi opposti a quelli commissionatigli dal ministro grillino delle Infrastrutture Danilo Toninelli. Gli altri calcoli di Ponti, commissionatigli a Bruxelles e a Berna, sono favorevoli alla realizzazione dell’opera contestata invece sotto le cinque stelle.

            Si ha insomma la sensazione, a torto o a ragione, che il professore Ponti, quasi omonimo di Monti, sia quello che la buonanima di Bettino Craxi disse una volta del suo ex braccio destro a Palazzo Chigi Giuliano Amato, dal quale si sentì poi tradito: “un professionista a contratto”. E si sa quanto importante sia per i grillini un contratto, non a caso adottato come formula giuridica e politica per definire quello che una volta si chiamava programma quando due o più partiti di governo lo concordavano per allestire un governo, e relativa maggioranza.

            Ma al senno di Di Maio è scappata anche un’altra affermazione che lo mette francamente in serie difficoltà, al plurale. Per spiegare e al tempo stesso denunciare la pretesa, secondo lui, di manifesto.jpgMatteo Salvini di dettare ad ogni costo la linea al governo, anche a costo di farlo cadere, egli ha detto, testualmente: “Quando su tre, due la pensano in un modo, io e Conte, poi non decide solo uno. Altrimenti avremo problemi in futuro”.

            Vi raccomando quell’”io e Conte”, quanto meno irriguardoso sul piano personale e costituzionale nei riguardi del presidente del Consiglio, ma anche del capo dello Stato che li ha nominati mettendo Conte prima e sopra Di Maio. Ma vi raccomando anche quei problemi accennati, o minacciati, “in futuro”.

            Quale futuro, di grazia? Non vorrei che fosse quello abbastanza vicino di mercoledì 20 marzo, quando in Senato si dovrà votare sul no espresso e proposto dalla competente giunta al processo a Matteo Salvini, chiesto dal cosiddetto tribunale dei ministri di Catania, fra l’altro, per sequestro aggravato dei 170 e più  immigrati trattenuti l’anno scorso per alcuni giorni sul pattugliatore “Diciotti” della Guardia Costiera italiana nel porto etneo.

             Al no della giunta senatoriale delle autorizzazioni, e alla relativa proiezione nell’aula di Palazzo Madama, i grillini sono arrivati il mese scorso dopo una tormentata consultazione Rolli.jpgdigitale dei militanti non ritenuta vincolante da tutti i parlamentari pentastellati. Alla cui disciplina nei piani alti del movimento, diciamo così, potrebbero non tenere più tanto dopo i problemi creati da Salvini sul versante della Tav, o del Tav, anche se -a dire il vero- il leader leghista nella sua vicenda giudiziaria può ancora contare sulla riserva del centrodestra, sufficiente a metterlo al riparo dai voti grillini combinati con quelli del Pd. Ma sarebbe la nascita di una nuova maggioranza, o di una nuova opposizione, come si preferisce.

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