Matteo Salvini non rinuncia all'”incasso”. Lo rinvia alzando la posta

Con o senza lo specchietto che Emilio Giannelli gli ha messo in mano sulla prima pagina del Corriere della Sera per farlo narcisisticamente ammirare nella “Potenza”, sotto tutti i sensi, dei risultati elettorali in Lucania, dove in un anno è riuscito a triplicare i voti della sua Lega e a ridurre a meno della metà quelli del Movimento delle cinque stelle, con cui governa a livello nazionale, Matteo Salvini non si rende forse conto di assomigliare al suo quasi omonimo Renzi. Di cui pure egli si è vantato una volta di avere sistemato un ritratto sul comodino, o dintorni, a titolo di monito, cioè per ricordarsi dei suoi errori e non condividerne la sorte.

            Le assicurazioni di lunga vita al governo anche dopo la nuova batosta presa dai grillini e l’apprezzamento del primo posto nella graduatoria dei partiti in Basilicata vantato da Luigi Di Maio Di Maio e Salvini.jpg“nonostante  c’erano” -ha detto testualmente il vice presidente pentastellato del Consiglio travolgendo anche la lingua italiana- tante altre liste in gara, anche unite contro quella solitaria della propria parte politica, fanno tornare alla memoria i messaggi e messaggini con cui Matteo Renzi, arrivato alla segreteria del Pd nel 2013, esortava l’amico e compagno di partito Enrico Letta Rolli.jpga “stare sereno” a Palazzo Chigi. Sereno un corno, naturalmente, come l’allora presidente del Consiglio scoprì rapidamente, e così sinceramente da passare con ostentato fastidio proprio a Renzi la campanella del governo nella cerimonia di passaggio delle consegne al vertice dell’esecutivo.

            Salvini non ha per niente rinunciato all’”incasso” – per ripetere il termine da lui adoperato- di quello che sta raccogliendo elettoralmente da un anno a questa parte. Lo ha solo rinviato a tempi migliori, quando potrà aumentare ancora di più la posta. Il che potrà accadere già dopo le elezioni europee ed amministrative di fine maggio o ancora più in là, magari davvero fra quattro anni, alla fine ordinaria della legislatura, come lui stesso dice, se i grillini continueranno a farsi Amaro Lucano.jpgspolpare dalla Lega pur di sfruttare sino all’ultimo i vantaggi, di potere ed altro ancora, derivanti dalla loro attuale consistenza parlamentare. E sempre che, naturalmente, il governo in carica, o rimaneggiato, si mostri davvero in grado di affrontare la recessione economica e di varare manovra correttiva, legge finanziaria e quant’altro, non limitandosi a sognare i miliardi di euro che camminano nella immaginazione di Di Maio sulla cosiddetta Via della Seta.

Speculare alla linea apparentemente tranquilla, rasserenante e altro ancora di Salvini è quella del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ben rappresentato nella vignetta di Vauro Senesi sulla prima prima pagina dell’insospettabile Fatto Quotidiano. Che ha praticamente riso dell’olimpica attesaVauro.jpg della “valanga” leghista da parte del professore e “avvocato del popolo”, appena espostosi tuttavia ad un’offerta, o disponibilità, negata dopo averne accennato nella conferenza stampa di fine anno: la verifica, revisione, aggiornamento del famoso “contratto” di governo stipulato circa un anno fa. Di cui ogni giorno sono sempre più evidenti le carenze, le ambiguità e le contraddizioni.

            E’ obiettivamente impagabile l’umorismo di Vauro, che ha avuto così modo di rifarsi anche della brutta sorpresa appena riservatagli da quella specie di vittima del sistema giudiziario italiano che gli era sembrato per tanti anni Cesare Battisti. Il quale, invece, una volta finito in carcere e interrogato dai magistrati, curiosi non di verificare le sue responsabilità di terrorista, già accertate con sentenze definitive, ma di conoscere solo gli aiuti di cui ha potuto disporre per sfuggire così a lungo alla giustizia del suo Paese, ha confessato i quattro omicidi per i quali fu a suo tempo condannato: tutti commessi naturalmente, secondo lui, nella convinzione di partecipare ad una “guerra civile”. Che aveva il torto di essere stata dichiarata e condotta solo da una parte: quella naturalmente dei terroristi.

            Stanco di scambiare il diavolo per l’acqua santa, il buon Vauro si è reso prudente. E, fatte naturalmente le debite ed enormi differenze, ha pensato di non cadere nelle trappole della indifferenza e della tranquillità di un presidente del Consiglio che, d’altronde, sembra così poco contento pure lui di come gli vadano le cose da avere avvertito che quella in corso è la sua prima e ultima, quindi unica, esperienza politica.

 

 

 

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I generosi tentativi di Sandro Fontana di sottrarre il centrodestra al populismo

In queste settimane di rievocazioni di grandi personaggi della Dc, fra centenari della nascita e anniversari della morte, mi è toccata la fortuna di assistere e partecipare anche al ricordo di Sandro Fontana. Che fu tra i pochi a muoversi costantemente nella Democrazia Cristiana combinando la professione dello storico e la passione del politico. Fu, fra l’altro, assessore alla Fontana.jpgCultura della Regione Lombardia, senatore, direttore del quotidiano ufficiale del partito, Il Popolo, e ministro dell’Università, Ricerca Scientifica e Tecnologica nel primo governo di Giuliano Amato, o penultimo -se preferite- della cosiddetta Prima Repubblica. Venne poi il governo della sua formale liquidazione, che fu presieduto nel 1993 da Carlo Azeglio Ciampi con il compito, assegnatogli dall’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, di gestire il cammino parlamentare della legge elettorale  con la quale nel 1994 si sarebbe rinnovato in anticipo il Parlamento. Ciò avvenne con un sistema misto, per tre quarti maggioritario e per un quarto ancora proporzionale: un sistema di fatto concepito in un referendum riguardante solo il Senato e promosso dai radicali e dal democristiano Mario Segni.

Quella legge prese il nome di chi ne fu relatore alla Camera: l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Mattarellum”, la chiamò Giovanni Sartori, che si divertiva a latinizzare tutto ciò che gli capitava di analizzare come politologo.  Essa diede agli italiani negli anni della cosiddetta Seconda Repubblica, con modifiche apportate lungo la strada, la possibilità che sarebbe stato e sarebbe più corretto definire illusione di eleggere contemporaneamente il Parlamento e il governo: con tanto di candidato a Palazzo Chigi indicato sulla scheda elettorale dalle coalizioni o partiti in corsa. Illusione, perché in realtà si alternarono in quel periodo presidenti del Consiglio proposti agli elettori ma anche scelti dai partiti durante crisi di governo non sfociate, come avrebbero dovuto in uno spirito autenticamente maggioritario, in nuove elezioni per restituire la parola e la scelta ai cittadini. Lamberto Dini, Massimo D’Alema, lo stesso Amato nella sua seconda esperienza di capo del governo, Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Giuseppe Conte, il primo della cosiddetta terza Repubblica, sono approdati tutti a Palazzo Chigi senza una designazione elettorale.

Sandro Fontana, rimasto sostenitore convinto del sistema proporzionale sino alle morte, nel 2013, e orfano della Dc quando il suo ultimo segretario, e conterraneo di Brescia, Mino Martinazzoli decise di scioglierla, tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, dietro la facciata di un ritorno al Partito Popolare di memoria sturziana, visse con grande sofferenza, persino fisica, quegli anni all’interno della coalizione di centrodestra. Dove cercò con una generosità pari, secondo me, alla irriconoscenza altrui di evitare gli errori che ne avrebbero poi determinato la curiosa crisi  nella quale ora si dibatte a livello nazionale, pur avendo conseguito nelle ultime elezioni politiche, l’anno scorso, il maggior numero di voti rispetto a tutti gli altri concorrenti al governo. E pur vincendo sistematicamente tutte le elezioni locali, comprese le regionali della Basilicata fresche ancora di risultati.

Sandro Fontana, pur non facendone parte per avere preferito le formazioni derivate direttamente dalla disciolta Dc e dalla tradizione culturale, sociale e politica del popolarismo cristiano di Luigi Sturzo, fu decisivo negli anni vissuti come europarlamentare per l’approdo di Forza Italia, e del suo amico Silvio Berlusconi, nel Partito Popolare Europeo.

Nel ricordare il compianto  Bertoldo -come lui amava firmare nel Popolo corrosivi e brillantissimi commenti politici- ne è stata giustamente sottolineata la profonda affinità con Carlo Donat-Cattin. Che fu il leader Donat-Cattin e Fontana.jpgdella sinistra sociale democristiana. Della cui corrente denominata Forze Nuove Sandro fu animatore infaticabile. Carlo Donat-Cattin gli faceva aprire tutte le edizioni degli storici convegni autunnali a Saint Vincent, che lui poi concludeva. E nel 1983, quando fu costretto ad una pausa da un infarto sopraggiunto alla tragedia della scoperta di un figlio terrorista di Prima Linea, Carlo affidò proprio a Sandro la conduzione anche organizzativa della corrente, tanto se ne fidava, e tale era la loro simbiosi politica.

Furono loro a sostenere per primi e a far maturare quella svolta politica che si tradusse nel famoso “preambolo” scritto dallo stesso Donat-Cattin e approvato dal congresso nazionale della Dc nel 1980. Fu il documento che segnò davvero la fine della stagione della cosiddetta solidarietà nazionale apertasi nel 1976, dopo le elezioni anticipate conclusesi -come disse Aldo Moro sostenendo la necessità di una tregua politica- con “due vincitori”, la Dc e il Pci, impossibilitati a tradurre il loro carattere alternativo in una maggioranza parlamentare dell’una contro l’altro, o viceversa.

Il Pci di Enrico Berlinguer, a dire il vero, si era ritirato autonomamente dalla maggioranza di solidarietà nazionale all’inizio del 1979, non riuscendo a reggere al logoramento elettorale subìto nella sua esperienza di appoggio esterno ad un governo di soli democristiani. Nell’ultimo dei quali, formato da Giulio Andreotti come quello precedente, Moro aveva peraltro impedito -pochi giorni prima che i brigatisti rossi riuscissero a rapirlo fra il sangue della sua scorta per uccidere anche lui dopo 55 giorni di prigionia- che fossero rimossi due ministri contro i quali i comunisti avevano cercato di imporre un veto politico: proprio Carlo Donat-Cattin, al dicastero dell’Industria, e Antonio Bisaglia, alle Partecipazioni Statali.

Forti tuttavia rimasero, dopo il ritiro del Pci dalla maggioranza, le speranze fra gli stessi comunisti e nella sinistra politica democristiana chiamata Base per una ripresa dei rapporti fra i due maggiori partiti dopo il passaggio elettorale anticipato di quel 1979. E ciò anche o soprattutto a dispetto della svolta fortemente autonomistica realizzatasi nel Psi con l’avvento e il consolidamento della segreteria di Bettino Craxi. Fu pertanto necessario un chiarimento congressuale della linea dello scudo crociato per chiudere, come dicevo, una stagione ed aprirne un’altra. Che fu quella del cosiddetto pentapartito, in cui si ritrovarono insieme con la Dc le forze liberali e socialiste incompatibili nelle esperienze degasperiane di centro e morotee di centro-sinistra.

Nella nuova stagione, maturata politicamente anche per effetto dell’indebolimento subìto con la sconfitta nel referendum sul divorzio gestito da Amintore Fanfani, la Dc pagò agli alleati il prezzo molto alto della guida di alcuni dei governi di coalizione, presieduti nel 1981 dal repubblicano Giovanni Spadolini e nel 1983 da Craxi. Che si insediò a Palazzo Chigi dopo unaForlani.jpg trattativa condotta per i democristiani da un segretario, Ciriaco De Mita, che pure si era assunto pubblicamente il ruolo di contenimento, se non di respingimento del nuovo leader socialista, troppo anticomunista per le abitudini o le visioni politiche e culturali della corrente di Base.

In occasione della presentazione di un pregevole libro su Sandro Fontana curato  con devozione dalla figlia Angelica e recentemente pubblicato da Marsilio -in cui il professore Renato Cristin, l’ex deputato del Pd Giorgio Merlo, già componente pure lui della corrente democristiana di Forze Nuove, e il giornalista bresciano Tonino Zana hanno ripercorso la vicenda umana, culturale e politica dell’indimenticabile Bertoldo- la bresciana Maria Stella Gelmini, presidente del gruppo di Forza Italia alla Camera, si è chiesta con spirito onestamente anche autocritico perché mai il centrodestra non abbia saputo o potuto evitare che la maggioranza del Paese slittasse dal popolarismo, così caro e così ben rappresentato dal suo conterraneo, al populismo oggi esondante.

La dirigente forzista ha cercato di coinvolgere nel suo spirito autocritico anche il presente Pier Ferdinando Casini chiedendogli se le cose non avessero potuto prendere un’altra piega rimanendo lui nel centrodestra, anziché uscirne e tornare al Senato, per la sua Bologna, candidandosi col Pd. Da cui tuttavia Casini aveva appena dissentito nell’aula di Palazzo Madama votando contro il processo al vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini, accusato dalla magistratura di Catania di sequestro aggravato di  170 e più immigrati, trattenuti l’anno scorso per alcuni giorni sul pattugliatore della Guardia Costiera italiana Diciotti, in attesa che ne fosse concordata la distribuzione fra vari paesi e la Conferenza episcopale italiana.

La capogruppo di Forza Italia a Montecitorio ha ricevuto come risposta da Casini, seduto in prima fila nella suggestiva sala dell’Istituto Luigi Sturzo che ospitava la presentazione del libro sul comune amico Fontana, un sorriso silente, e non credo autocritico. Egli aveva, in realtà, rotto politicamente con Berlusconi anni fa contestando proprio il forte peso nel centrodestra di una Lega che già conteneva, ai tempi di Umberto Bossi, tentazioni che oggi definiremmo populistiche. E che Salvini ha indubbiamente saputo tradurre di più in voti, tanto da toglierne anche agli attuali partner di governo grillini ridimensionandone rapidamente la consistenza, sia pure non ancora a livello parlamentare.

Un altro interrogativo tuttavia mi stimolano la storia e il ricordo dell’amico Sandro Fontana, andando ancora più indietro di Maria Stella Gelmini negli anni. Mi chiedo che cosa sarebbe accaduto della corrente Forze Nuove e poi della stessa Dc se nel 1991 la successione a Carlo Donat-Cattin, morto Martinazzoli.jpgper complicazioni subentrate a un intervento sul cuore, fosse caduta su Sandro, che già lo aveva sostituito temporaneamente nel 1983. Dubito, francamente, che Martinazzoli, indimenticabile anche lui con la sua ironia e cultura, avrebbe potuto resistere alla contrarietà di un Sandro Fontana capocorrente della sinistra sociale a quello scioglimento improvvisato, a dir poco, nel pieno di una tragica e strumentale offensiva moralistica, oltre che giudiziaria, contro la Dc e gli altri partiti protagonisti di mezzo secolo di democrazia italiana.

 

 

 

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