Attenti alle speculazioni sul dolore dei familiari di Giulio Regeni

La famiglia del povero Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano ucciso al Cairo sicuramente con la complicità, quanto meno, dei servizi segreti egiziani, che lo avevano scambiato per una spia, ha tutto il diritto di dissentire, per carità, dalla decisione del governo di Roma di nominare e rimandare al Cairo un ambasciatore. Che sostituirà il diplomatico ritirato l’8 aprile dell’anno scorso per protesta contro le troppe omertà già emerse dalla vicenda ormai giudiziaria di quel delitto.

         Sono invece meno certo del diritto di quei familiari di consentire che all’ombra del loro comprensibile e condivisibile dolore s’imbastisca da parte delle opposizioni di vario colore una campagna politica ed elettorale, visto il momento in cui si svolge, contro il governo nazionale. Che nei rapporti con altri governi e Stati deve tutelare interessi generali, e non solo particolari. E non si venga a dire che non sono generali, riguardanti cioè tutta la collettività nazionale, gli interessi per un nuovo e più stabile assetto degli equilibri politici in Libia, dove l’Egitto svolge un ruolo rilevante e si gioca, fra l’altro, la partita drammatica del controllo e della gestione del fenomeno migratorio che si rovescia sulle coste italiane.

         La campagna scatenata contro il ritorno di un ambasciatore italiano al Cairo rimane non condivisibile, anzi diventa ancora meno condivisibile, di fronte all’uso che si sta cercando di fare non solo del dolore e dei timori dei familiari di Giulio Regeni di non vedere scoperte e punite le responsabilità della tragica fine del giovane friulano, ma anche della rivelazione fatta dal New York Times di un vecchio rapporto del governo americano a Roma sul coinvolgimento dei servizi segreti egiziani nella vicenda.

         Penso che l’attuale presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, all’epoca ministro degli Esteri, non avesse avuto bisogno in quei giorni del rapporto dei servizi statunitensi per capire come fossero andate le cose al Cairo, e anche per sapere che di un rapporto di quel genere le autorità italiane non potessero fare alcun uso per determinare chissà che cosa nello sviluppo delle indagini giudiziarie in Egitto e del loro coordinamento con quelle italiane condotte dalla Procura di Roma.

         Un problema esisterebbe, e darebbe ragione ai familiari di Giulio Regeni e a quanti ne sfruttano il dolore, se la decisione di rimandare un ambasciatore italiano al Cairo significasse la rinuncia del governo italiano al dovere di reclamare e di agire perché le indagini sulla fine del giovane italiano proseguano e si concludano seriamente. Ma la relazioni diplomatiche sono state ripristinate anche a questo scopo, come ha precisato il ministro degli Esteri in carica Angelino Alfano, finalmente sottratto per un po’ della sua giornata alla fatica meno istituzionale di salvaguardare la sopravvivenza politica ed elettorale sua e del suo partito, o della sua corrente, trattandola nelle ore pari con gli emissari di Silvio Berlusconi e nelle ore dispari con quelli di Matteo Renzi.

 

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Chi e come specula sul dolore dei familiari di Giulio Regeni

Gù le mani, per favore, da Sandro Pertini

Giù le mani, per favore, da Sandro Pertini. Che fra i presidenti della Repubblica succedutisi al Quirinale è stato meritatamente il più popolare, anche o forse soprattutto perché eletto nel 1978, poche settimane dopo la tragedia dell’assassinio di Aldo Moro, nel più imprevedibile dei modi, al di là di ogni schema partitico e correntizio, più subìto che cercato dalle momenclature politiche, bloccatesi in una serie lunghissima di votazioni. Era un socialista ma non designato dal Psi allora guidato da Bettino Craxi. Fu proposto dai comunisti, in particolare da Giancarlo Pajetta, cui però seppe riservare la sorpresa già l’anno dopo di mettere in pista per la guida del governo proprio l’odiato segretario socialista, conferendogli un incarico che sconvolse il confronto politico. E che si tradusse nel 1983 in un governo, il primo nella storia d’Italia, a guida socialista, per liberarsi del quale, ma dopo che Pertini aveva esaurito il suo mandato, la Dc di Ciriaco De Mita dovette ricorrere a un rocambolesco scioglimento anticipato delle Camere, nel 1987. Rocambolesco, perché i democristiani negarono con l’astensione la loro fiducia ad un governo monocolore dc improvvisato da Amintore Fanfani, pur di provocare le elezioni prematuramente.

Eletto controvoglia dai democristiani puntando sulla sua tarda età, e quindi scommettendo su di una interruzione luttuosa del mandato settennale, secondo una cinica previsione formulata dall’allora capogruppo alla Camera Flaminio Piccoli, che poi ebbe il buon gusto di scusarsene direttamente con l’interessato, Pertini non solo portò regolarmente a termine il suo lavoro, ma rischiò la conferma, come sarebbe invece capitato a Giorgio Napolitano nel 2013.

Ho perso il conto dei funerali ai quali Pertini partecipò da presidente della Repubblica negli anni cosiddetti di piombo, ma non la certezza che fu proprio lui, più ancora dei governi che si succedevano, a fare da propulsore nella lotta al terrorismo e nella sua sconfitta. Fu lui a correre nella sua Liguria, accanto alla bara del coraggioso operaio Guido Rossa, ucciso nel 1979 dalle brigate rosse, per spezzare fisicamente quel filo di paura e di omertà che aveva sino ad allora permesso ai terroristi di poter puntare sulle fabbriche per il loro progetto rivoluzionario. Da quel momento, più ancora che dall’assassinio di Moro, l’anno prima, per i brigatisti rossi cominciò davvero la fine.

Ricordato tutto questo, per ora, non so francamente se indignarmi -si, indignarmi- più per la disinvoltura politica con la quale il giovane vice presidente grillino della Camera Luigi Di Maio, aspirante persino alla presidenza del Consiglio, ha adottato come suo “modello” Pertini, che avrebbe preso a pedate il sostanziale anti parlamentarismo del movimento delle 5 stelle, o per ciò che di Pertini ha scritto in questa occasione sul Messaggero Mario Ajello. Che non per sarcasmo verso Di Maio ma davvero, per convinzione, ha lamentato “la Pertini-mania” e ha cercato di spiegare a Di Maio perché ha scelto un “maestro sbagliato”, capace persino di eguagliare la sua “congiuntivite”, come il costituzionalista Paolo Armaroli ha felicemente definito il rapporto, diciamo così, difficile che il vice presidente grillino di Montecitorio ha mostrato di avere anche con i congiuntivi, oltre che con la geografia fisica e politica, calpestata attribuendo al Venezuela la dittatura cilena del generale Pinochet.

Nel criticare o macchiettizzare Pertini il corsivista del Messaggero ha cercato di farsi forte del “ritrattino gustoso” fattone dal leader e compagno del Psi Pietro Nenni dicendo: “Io non sono un intellettuale, ma qualche libro l’ho letto grazie anche a Mussolini, che mi mandò al confino a Ponza. Con noi c’era anche Sandro. Lui l’unica cosa che leggeva era L’Intrepido”. Eppure aveva conseguito due lauree prima di essere costretto all’esilio e al carcere dal fascismo.

            Non bastando evidentemente Nenni, l’antipertini-manista del Messaggero ha rispolverato anche gli umori dell'”elegante” Riccardo Lombardi, altro compagno di partito che del futuro presidente della Repubblica disse che aveva “cuor di leone e cervello di gallina”. E infine Ajello si è in qualche modo travestito da Indro Montanelli per immaginarne la definizione di Pertini “coerente con le proprie idee perché ne aveva pochissime”. Cosa che di Montanelli, pur avendo per un bel po’ lavorato con lui, non ho mai letto e sentito a proposito dell’esponente socialista.

Non nego, per carità, che Pertini avesse avuto rapporti difficili con i dirigenti del suo partito. Poco mancò nel 1973 ch’egli, presidente della Camera, non facesse rotolare per le scale di Montecitorio l’allora segretario socialista Francesco De Martino, che era andato a proporgli di dimettersi per lasciare il posto ad Aldo Moro, in esecuzione di un’intesa con la Dc per la ripresa del centrosinistra dopo la pausa neo-centrista seguita all’elezione al Quirinale di Giovanni Leone. Che si era impegnato, a sua volta, a compensare il sacrificio di Pertini conferendogli il laticlavio alla morte del primo senatore a vita di nomina presidenziale.

La scenata del presidente della Camera contro “il mercato delle cariche istituzionali” fu sentita da segretarie e commessi, finendo sui giornali con gli “auguri di lunga vita ai senatori a vita” gridati da Pertini ai giornalisti nella buvette di Montecitorio.

Saputo che Moro non aveva apprezzato le sue proteste e sapendo dei miei rapporti con lui, Pertini mi chiese di comunicargli il suo rammarico per la lettura personale cui le sue rimostranze potevano essersi prestate. E Moro, rimasto intanto in attesa di una nomina a ministro degli Esteri nel nuovo governo di centrosinistra che avrebbe formato Mariano Rumor, si affrettò a chiamarlo per assicurargli di comprendere la sua reazione all’iniziativa di De Martino.

Per ciò che infine riguarda Nenni, credetemi, egli a Pertini non perdonava tanto le letture dell’Intrepido al confino quanto il realismo politico col quale alla vigilia delle elezioni politiche del 1948 accolse ridendo la sua domanda se il partito socialista avesse tutto il personale politico necessario a coprire i posti di governo che gli sarebbero spettati con la vittoria del fronte popolare realizzato con i comunisti.

A sconfitta avvenuta, e da lui largamente prevista, toccò proprio a Pertini accorrere da Nenni, accasciato su una poltrona, a consolarlo prima e a incoraggiarlo poi. Ma neppure in quell’occasione -mi raccontò poi l’ormai presidente della Camera- Pertini rinunciò a rinfacciargli di avere preferito nel 1944 “Peppino” Saragat a lui nel gruppo dei detenuti da liberare a Roma con falsi ordini di scarcerazione, non essendovene abbastanza per tutti i compagni originariamente inseriti nel piano. “Tanto, Sandro al carcere è abituato”, disse Nenni a Giuliano Vassalli, che stava preparando l’operazione. E che per fortuna trovò il modo per salvare entrambi, sfuggiti così all’infame rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine, fra i detenuti di Regina Coeli, dopo l’attentato in via Rasella.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

          

Il bastone e la carota del Giornale ad Angelino Alfano

         Anche il Giornale della famiglia Berlusconi ha scoperto l’utilità marginale, diciamo così, di Angelino Alfano e dei suoi voti nelle elezioni regionali del 5 novembre in Sicilia, ma forse anche in quelle politiche nazionali che seguiranno dopo qualche mese.

         Il tanto bistrattato Alfano, quello che osò quattro anni fa staccarsi dall’ormai ex senatore Berlusconi per rimanere attaccato all’allora presidente del Consiglio Enrico Letta, di cui era vice e ministro dell’Interno, per lasciarsi poi ridimensionare a solo ministro dell’Interno da Matteo Renzi e per lasciarsi infine trasferire alla Farnesina da Paolo Gentiloni lasciando il Viminale a Marco Minniti, al cui confronto il predecessore certamente non brilla sul fronte caldissimo dell’immigrazione; il tanto bistrattato Alfano, dicevo, non è in fondo da buttar via.

         Egli potrebbe risultare utile a Forza Italia, e quindi a tutto il centrodestra, se mai Berlusconi dovesse riuscire a riorganizzarlo dopo le elezioni unendo i voti presi singolarmente dalle varie componenti e rinverdendo alleanze di tanti anni fa, nonostante la tanta acqua, non sempre limpida, trascorsa sotto i ponti non dico dal 1994 ma più modestamente dal 2010. Che è l’anno in cui Gianfranco Fini abusando politicamente del ruolo istituzionale di presidente della Camera scombinò le carte distribuite solo due anni prima dagli elettori dell’allora Pdl.

         Va detto, in verità, che prima ancora del Giornale della sua famiglia, e già all’indomani della rottura consumatasi con Alfano, lo stesso Berlusconi aveva invitato gli amici radunati per la rifondazione di Forza Italia a non esagerare con i fischi e gli insulti all’indirizzo dei fuoriusciti perché -aveva detto da buon giocatore al tavolo della politica- essi avrebbero potuto tornare a rivelarsi utili nei successivi appuntamenti elettorali. Ma pochi stettero a sentire il loro leader, pensando che, al solito, egli fosse troppo buono, troppo generoso. E riuscirono, quei livorosi, a far dimenticare spesso a Berlusconi il suo monito, a renderlo a volte persino irriconoscibile nella versione del tradito, del risentito, dell’uomo fermo sulla riva del fiume per veder passare prima o dopo davanti a sè i cadaveri, si fa per dire, dei nemici.

         Ora, pur di sottrarlo alla corte che gli stanno facendo gli uomini e le donne di Renzi per associarlo alla prima metà del nuovo centrosinistra in Sicilia e poi nel resto d’Italia, il direttore del Giornale ha tirato fuori dalla credenza un po’ di carote da allungare ad Alfano, bastonato per quattro anni come un cane, anche quando sosteneva nel governo e in Parlamento le stesse cose proposte dai banchi formali dell’opposizione da Forza Italia. Dico “formali” perché onestamente, sia con Renzi sia con Gentiloni a Palazzo Chigi Berlusconi ha spesso spinto i suoi in Parlamento a salvare i governi di turno col sapiente uso delle assenze al Senato, dove i numeri della maggioranza sono notoriamente quelli che sono, cioè traballanti.

         Ora Alfano è stato esortato dal bastonatore di una volta, il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, a non fidarsi troppo, anzi a non fidarsi per niente di Renzi, d’altronde più volte troppo rude e scortese con lui sino a qualche settimana fa, e a non prendere sul serio quelli che nell’area di ciò che fu il centrodestra –Matteo Salvini e Giorgia Meloni- continuano a trattarlo come un animale rognoso, e a minacciare Berlusconi delle peggiori reazioni se riuscisse a sottrarlo alla corte del segretario del Pd.

         Che cosa deciderà alla fine Alfano, e con quali conseguenze all’interno del suo partito, diviso tra filoberlusconiani e filorenziani, vedremo. E con quali aggiornamenti di linea al Giornale, vedremo anche questo.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net il 16 agosto 2017 col titolo: Perché il Giornale di Sallusti usa la carota dopo il bastone con Angelino Alfano

Il tardivo processo di Marco Travaglio a Laura Boldrini

In via di principio -che è molto, sia chiaro, ma non tutto quando si sale in cattedra e si giudica- il direttore del Fatto Quotidiano ha ragione da vendere quando attacca pure lui, come la destra o il centrodestra che fu o forse tornerà, la presidente di sinistra della Camera Laura Boldrini. Che non è rimasta politicamente neutrale di fronte alle polemiche sul codice di condotta finalmente imposto dal governo ai volontari impegnati nel Mediterraneo a soccorrere gli immigrati. O imposto almeno dal ministro dell’Interno Marco Minniti con l’appoggio dichiarato del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e, di risulta, del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.

         Le cose -non dimentichiamolo- stanno purtroppo così, essendo il governo composto anche dal ministro Graziano Delrio e da altri esponenti che storcono quanto meno il naso di fronte alle scelte e alle direttive di Minniti, per non parlare dei dubbi attribuiti anche al segretario del partito principale della maggioranza. Che è naturalmente il Pd, guidato da un Matteo Renzi quanto meno diviso fra i compagni ed amici Minniti e Delrio: il primo a capo del Viminale, e quindi delle forze dell’ordine, e il secondo a capo della Guardia Costiera.

         In via di principio, dicevo, Travaglio ha ragione a contestare la Boldrini schieratasi, secondo lui, contro la posizione del governo, e non solo di Minniti. Il o la presidente della Camera, come anche quello del Senato, o di qualsiasi asssemblea, dovrebbe avvertire l’obbligo di rimanere al di sopra delle parti che si scontrano politicamente attorno ad un problema o ad una legge. Ma se questo è vero, è anche vero -debbo dire a discolpa almeno parziale della ormai ex vendoliana e ora pisapiana Boldrini- che la neutralità dei presidenti delle assemblee legislative è andata a farsi benedire da un pezzo nella storia della nostra Repubblica.

         Nei mesi del governo Tambroni, nel 1960, l’allora presidente del Senato Cesare Merzagora ne criticò l’uso della polizia nelle piazze contro quanti protestavano per la partecipazione dei post-fascisti del Movimento Sociale alla sua maggioranza.

         Sempre alla presidenza del Senato arrivò poi un Amintore Fanfani, ex segretario della Dc, per niente neutrale. Il cui peso, già rilevante, aumentò all’interno del partito proprio per il suo ruolo istituzionale. E fu proprio in una sede istituzionale come quella di Palazzo Giustiniani, dirimpettaio di Palazzo Madama, che egli promosse una riunione dei capicorrente del suo partito per svuotare un congresso ormai imminente e predisporre il licenziamento politico di Giulio Andreotti e del suo primo governo neo-centrista e di Arnaldo Forlani dalla segreteria della Dc, destinata a tornare a lui, Fanfani. La sinistra tacque, grata della svolta. La destra o il centrodestra- perché era tale quello che Andreotti aveva realizzato allora- si adeguarono al richiamo evangelico di Fanfani alla sequenza della Quaresima e della Pasqua, della morte cioè e della resurrezione.

         Non fu molto neutrale, secondo i suoi compagni di partito, neppure la lunga e dignitosissima presidenza della comunista Nilde Jotti alla Camera, rimproverata personalmente da Enrico Berlinguer nella direzione del Pci per non avere consentito l’ostruzionismo della sua parte politica contro il decreto legge sui tagli alla scala mobile dei salari varato dal governo dell’odiatissimo Bettino Craxi. La Jotti ripose peraltro per le rime al suo segretario di partito, che abbozzò.

         Non fu sicuramente neutrale il presidente del Senato Pietro Grasso quattro anni fa, quando assecondò il ricorso addirittura allo scrutinio palese per far decadere dal Parlamento Silvio Berlusconi, che a scrutino segreto una parte del Pd avrebbe probabilmente salvato rimettendo alla valutazione della Corte Costituzionale la legittimità delle norme applicate retroattivamente al leader dell’allora Pdl, prima che tornasse a chiamarsi Forza Italia.

         Ma soprattutto, a discolpa purtroppo della Boldrini, caro Marco Travaglio, ci sono i cinque anni lasciati trascorrere tranquillamente anche dal Fatto, senza alcun editoriale di critica, a Gianfranco Fini. Nel cui ufficio di presidente della Camera, nel 2010, si svolsero riunioni di corrente, di partito e interpartitiche per promuovere la sfiducia al governo in carica presieduto da Berlusconi, Con i cui voti, peraltro, da alleato lo stesso Fini era stato eletto al vertice di Montecitorio, dopo esserne stato il ministro degli Esteri e il vice presidente del Consiglio. Ora l’ex leader della destra missina ha altri problemi, di natura giudiziaria, ma le sue gesta politiche restano indimenticabili.

         Quando si consente, per convenienza politica o solo personale, di calpestare il galateo si perde il diritto poi di protestare, quando si trova il gioco non più conveniente alla propria parte, confusa all’occorrenza naturalmente con gli interessi generali del Paese. Come quando la buonanima di Giovanni Agnelli diceva che gli interessi della sua Fiat coincidevano con quelli dell’Italia. Ma che dico? Dell’Europa, prima ancora che nascesse l’Unione; dell’Occidente; addirittura del mondo, per favore con la minuscola.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio e il processo (giusto ma tardivo) a Laura Boldrini

        

L’ultimo strappo di Scalfari dalla sua Repubblica a favore di Renzi

 

L’ultimo strappo di Eugenio Scalfari -ultimo in ordine di tempo naturalmente, augurandogli personalmente una vita ancora più lunga di quella accumulata sinora con i 93 anni compiuti il 6 aprile- è davvero clamoroso sul piano politico e professionale. Politico, perché -come spiegherò- incita Matteo Renzi a non perdere tempo a inseguire chi è già uscito dal Pd come Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, e neppure l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia, che si è proposto praticamente come pontiere fra di loro e altri ancora. Professionale, perché nel suo ruolo di fondatore e editorialista principe di Repubblica, i cui articoli domenicali aprono il giornale diretto ora da Mario Calabresi, e posseduto praticamente dalla famiglia di Carlo De Benedetti, si è staccato dalla linea del quotidiano. Che è stata, almeno sino a ieri, di sostegno al ruolo e agli obiettivi, per quanto non ben definiti o chiari, di Pisapia.

         Con l’aria di volere sfidare Renzi a dire finalmente se si sente o no un uomo di sinistra, precisando di averglielo chiesto inutilmente altre volte direttamente, senza passare per i propri editoriali, Scalfari gli ha facilitato al massimo una risposta positiva abbassando -diciamo così- il livello dell’asta di una sinistra da lui considerata moderna.

         In particolare, dopo un excursus storico e filosofico che ha cercato lodevolmente di contenere al massimo citando uomini e fatti, Scalfari ha detto che ci si può sentire e dichiarare di sinistra, quando si vuole “sollevare le condizioni del popolo, la sua occupazione, il suo reddito, la sua consapevolezza culturale e politica”.

         Messa così l’identità della sinistra, senza addentrarsi in alcuno dei dettagli, o problemi, a cominciare da quello dell’immigrazione, che pure alimentano il confronto fra e nei partiti di quell’area estesa dal Pd a ciò che resta del movimento di Nichi Vendola e oltre, bisogna ammettere che vi si possono riconoscere tutti: anche Silvio Berlusconi. Non parliamo poi di Angelino Alfano e di altri centristi con i quali Renzi si mostra quanto meno tentato di accordarsi dopo, ma anche prima delle elezioni. L’intesa con i quali consentirebbe al segretario del Pd di realizzare né più né meno che un centrosinistra, con o senza il trattino, come preferite.

         Se si sente un uomo di sinistra alle condizioni poste da Scalfari, cui si deve aggiungere quella, anch’essa però riconosciuta al segretario del Pd, di un’azione concreta a favore di un’Europa federale e non solo confederale, cioè di un’Europa più unita e forte, a dispetto delle posizioni di leghisti, grillini e post-missini, Renzi -ha scritto il fondatore di Repubblica– “non ha bisogno di Pisapia, Bersani o D’Alema” per aspirare col suo partito al governo, e magari anche per tornare a Palazzo Chigi. Ma a quest’ultimo obiettivo, in verità, Scalfari non è arrivato. Sarà forse il prossimo strappo.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Repubblica, ecco come Scalfari si smarca da Pisapia e occhieggia a Renzi

        

Amleto di casa da Alfano, ma anche da Berlusconi

Non so se occorra più un politico, uno psicanalista o un giallista per cercare di capire e spiegare ciò che sta accadendo in quella specie di triangolo delle Bermuda che sembra essere diventata l’area in cui si muovono direttamente o per interposte persone Matteo Renzi, Angelino Alfano e Silvio Berlusconi, con un occhio rivolto alle elezioni regionali siciliane del 5 novembre e l’atro alle elezioni nazionali previste, salvo sorprese, nella primavera dell’anno prossimo.

         Alfano cominciò quattro anni fa a definirsi “diversamente berlusconiano” opponendosi alla decadenza di Berlusconi da senatore, dopo la condanna definitiva per frode fiscale e in applicazione retroattiva della cosiddetta legge Severino, ma rifiutandosi di rompere con gli alleati di governo che, da sinistra, quella decadenza vollero e permisero a scrutinio addirittura palese, per evitare che qualche esponente del Pd votasse segretamente a favore del Cavaliere. In fondo, si trattava solo della possibilità, condivisa nel Pd addirittura da un pezzo da novanta della dottrina giuridica come l’ex presidente della Camera Luciano Violante, di sospendere tutto per attendere che la Corte Costituzionale si pronunciasse sugli aspetti più controversi della legge Severino, peraltro imprudentemente approvata meno di un anno prima anche dal partito di Berlusconi.

         Adesso Alfano, nel frattempo passato nel governo da vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno a ministro dell’Interno soltanto e poi a ministro degli Esteri, è tentato di diventare diversamente renziano, anche a costo di perdere altri pezzi del suo partito non più di “nuovo centrodestra, come si chiamò alla nascita, ma di centro col nome di “Alternativa popolare”.

         Ciò potrebbe tornare a rendere Alfano compatibile, oltre che con Renzi per comporre la prima metà del centrosinistra, anche con Berlusconi per comporre la prima metà del centrodestra. Ma come Renzi viene diffidato dalla sinistra a imbarcare Alfano, così Berlusconi da destra. Ma mentre Renzi sembra deciso a infischiarsene, Berlusconi no, o meno, perché non vuole confondersi ma neppure rompere con leghisti e post-missini. E ciò sia perché Forza Italia vi collabora in tre regioni importanti come Lombardia, Veneto e Liguria, sia perché non si sa mai. Congiunzioni astrali ed errori di avversari e concorrenti potrebbero anche riservare a Berlusconi la sorpresa di potere incollare dopo le elezioni i cocci di un centrodestra premiato nelle urne rispetto ai grillini e al Pd.

         L’attrazione di Alfano nei riguardi di Renzi, nonostante i torti e gli sgarbi riservatigli dal segretario del Pd, irridendone per ultimo anche le dimensioni elettorali, salvo rendersi poi conto che esse potrebbero essergli utili per la partita siciliana, non può stupire più di tanto. Lo stesso Berlusconi, diciamo la verità, ne è stato attratto. E lo è tuttora, a dispetto dell’opposizione che gli fa praticare dai forzisti nelle aule parlamentari, salvo farli uscire dall’aula del Senato quando il governo corre davvero il rischio di essere battuto con i berlusconiani a ranghi completi. Ma soprattutto Berlusconi non esclude di potere essere piacevolmente costretto ad allearsi dopo le elezioni con Renzi per il bene naturalmente del Paese, se l’alternativa dovesse essere l’ingovernabilità.

         Pure la Dc, anche quella di Aldo Moro, si dichiarava elettoralmente e politicamente “alternativa” al Pci per poi collaborarvi per esigenze che furono definite, fra il 1976 e il 1978, di “solidarietà nazionale”: versione ridotta, anzi ridottissima del “compromesso storico” inseguito da Enrico Berlinguer.

         A pensarci bene, c’è dell’amletico nei rapporti con Renzi sia in Alfano sia in Berlusconi. Essere o non essere alleati del segretario del Pd? Il primo però prima delle elezioni, il secondo dopo. E ritrovarsi così curiosamente tutti insieme, a dispetto delle curve dello stadio nella campagna elettorale in corso –non dimentichiamolo- da almeno otto mesi, da quando cioè il mito renziano fu violato dalla sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale.

Colpo grosso di Minniti contro Delrio e Galantino

A questo punto, dopo avere portato la maggioranza dei vescovi dalla sua parte col monito del cardinale Gualtiero Bassetti ai volontari a non dare pretesti o alibi a chi li sospetta di soccorrere con le loro mavi più gli scafisti che i migranti, più gli sfruttatori che gli sfruttati nel traffico di carne umana in corso da troppo tempo nelle acque del Mediterraneo, il ministro dell’Interno Marco Minniti può rovesciare la pratica dello sfottò usata contro di lui dal collega di governo Graziano Delrio. E godersi anche l’imbarazzo in cui si è forse trovato il segretario del suo partito, Matteo Renzi, vedendosi spiazzato pure lui dal presidente della Conferenza Episcopale Italiana sul fronte delicatissimo dell’immigrazione. Che avrà nelle elezioni politiche un peso maggiore dei tanto decantati 80 euro mensili a chi se ne vede portati via altrettanti dall’aumento che nel frattempo ha dovuto subire alla pompa di benzina o nelle utenze domestiche.

         Dalla prospettiva di un incontro con Delrio per ricevere sarcasticamente l’augurio di buone vacanze Minniti è passato a quella di un incontro col collega di governo per dargli lui, altrettanto sarcasticamente, le buone ferie: in Sardegna, dove è stato già visto con la famiglia, o altrove.

         Ma il potente ministro dei lavori pubblici, dei trasporti e della marina mercantile unificati nel dicastero delle Infrastrutture, doverosamente al maiuscolo, non è il solo al vantato comando della Guardia Costiera a dovere riflettere ora, anche come fedele di Santa Romana Chiesa, sull’intervento del cardinale Bassetti. Gli fa compagnia, all’interno però delle gerarchie ecclesiastiche, il notissimo monsignor Nunzio Galantino. Al quale il predecessore di Bassetti, quel gran signore del cardinale Angelo Bagnasco, aveva forse concesso troppo spazio scambiandolo per un mezzo portavoce del Papa. Che, a sua volta, sarà magari sotto sotto in imbarazzo pure lui per la piega presa dalla nuova gestione del fenomeno migratorio in Italia, e in Libia, ma non può fare a meno di pensare gesuiticamente, sotto tutti i punti di vista, che nelle parrocchie italiane, persino nel bianchissimo Veneto, la misura di certa tolleranza a spese altrui è ormai colma.

         Nelle parrocchie non si vota per il parroco, come nei seggi elettorali per il Parlamento, pur al netto delle liste bloccate e di tutti gli altri inconvenienti regalatici anche dai giudci della Corte Costituzionale sforbiciando le leggi approvate in materia dalle Camere, ma i fedeli hanno preso anche loro l’abitudine degli elettori di astenersi dalla pratica, come si dice distinguendo appunto fra credenti e praticanti.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Ong, Cei e il colpo da maestro di Minniti che interroga Renzi

Delrio concede a Minniti l’augurio di buone ferie

Uno dei tanti, soliti retroscena che afflollano e spesso sostituiscono le pur abbondanti cronache politiche, qualche volta sostituendo con la fantasia le notizie, ma col curioso effetto ogni tanto di anticiparle, ha riferito di un Marco Minniti rimasto interdetto dopo una telefonata ricevuta da Matteo Renzi mentre correva ad una manifestazione di partito a suo favore: cioè, a favore del segretario del Pd.

         Minniti, che prima di diventare ministro dell’Interno si è occupato a lungo di servizi segreti come sottosegretario, e dovrebbe essere quindi abituato a districarsi fra misteri e doppiezze, non sarebbe riuscito a capire bene con chi Renzi stesse e stia davvero nella partita in corso fra i ministri dell’Interno e delle Infrastrutture nella gestione dell’immigrazione. Che poi, nonostante i cali annunciati o davvero registrati negli ultimi giorni, è più gestione dei soccorsi in mare che gestione degli immigrati, una volta sbarcati, poco importa a questo punto se da una nave militare o da una nave civile di volontari.

         Ad occhio e croce il buon senso, condiviso dal presidente della Repubblica col sostegno dichiaratogli pubblicamente, vorrebbe che Minniti da ministro dell’Interno, e responsabile finale del fenomeno, come dimostra il fatto che è lui a risponderne sistematicamente al Parlamento, avesse in materia la prevalenza sul ministro delle Infrastrutture. Che però, avendo assorbito le competenze dei trasporti per mare e per terra con quel mostro di dicastero che è nato unificandone tre senza prevedenre le complicazioni, e non solo i benefici, é ben convinto di avere lui l’ultima parola. Che nel suo caso è sempre una buona parola, diciamo così: buona nel senso di buonismo, di carità ed assistenza ad ogni costo, o quasi, per cui una nave di volontari che ha caricato a bordo una certa quantità di migranti praticamente consegnati dai trafficanti può cavarsela, evitare guai e quant’altro trasferendo al largo delle coste italiane il suo carico su altre navi, militari o civili che siano, agli ordini o col beneplacito di Graziano Delrio. D’altronde, cos’altro può fare e distribuire se non grazie uno che ha quel nome: Graziano?

         Il ministro delle Infrastrutture, non so francamente se più di suo o più di non suo, contando per esempio sull’aiuto dell’amico segretario del partito con cui ha avuto più frequentazioni di Minniti, è talmente sicuro di sé che si è preso il lusso, o lo sfizio, come preferite, di sorridere davanti alle telecamere delle diversità di idee col suo collega di governo, non convinto di quei trasbordi in mare di cui parlavo prima

         Forte anche, in verità, dell’avventata intervista in cui lo stesso Minniti aveva escluso “diversità” nel governo sulla materia degli imbarchi e sbarchi dei migranti, Delrio ha allegramente annunciato all’intervistatore di turno della Rai di avere con Minniti un solo, scontatissimo e banalissimo problema, in questi giorni: come, dove e quando incontrarsi per scambiarsi gli auguri di buone vacanze, o ferie. Buone, si fa per dire naturalmente.

Ora il ministro Minniti deve guardarsi da se stesso

         Il rischio che corre ora il ministro dell’Interno Marco Minniti è di perdere la guerra, sul fronte della gestione dell’immigrazione, dopo avere vinto una battaglia pur decisiva come quella ingaggiata contro le ambiguità, i trucchi e quant’altro delle organizzazioni non governative impegnate nei soccorsi ai migranti nelle acque del Mediterraneo con le loro navi. Che spesso non sono di soccorso, ma semplicemente di trasporto, ricevendo i migranti dai cosiddetti scafisti, come si chiamano i disumani trafficanti di gente disperata, cioè dandosi appuntamenti con loro, o quasi, anche a poche bracciate di nuoto dalle coste libiche. Dove è augurabile che la musica sia cambiata, dopo la svolta di Minniti, visto che i libici, appunto, hanno appena allontanato col fuoco dalle loro coste una nave “umanitaria” spagnola pronta al solito trasbordo con destinazione probabilmente italiana.

         Minniti vanificherebbe la battaglia vinta con l’aiuto decisivo del presidente della Repubblica, schieratosi con lui per evitarne le dimissioni dopo avere polemicamente disertato una riunione del governo in cui il collega Graziano Delrio lo attendeva per fargli le pulci dall’alto delle sue troppo numerose competenze, dai lavori pubblici ai trasporti e alla marina mercantile, dai porti ai guardiacoste; Minniti, dicevo, vanificherebbe la battaglia vinta con l’aiuto del capo dello Stato se continuasse a fare il finto tonto. O semplicemente il diplomatico, che non è la sua funzione. Lui non può ripetere, come purtroppo ha detto, che non c’è “nessuna divisione con Delrio”. Che invece, non sentendosi giustamente un diplomatico, ha confermato di avere problemi col ministro dell’Interno, tanto da averlo attaccato, con regolare intervista, per essersi sottratto a un confronto con lui nella seduta del Consiglio dei Ministri dove era atteso.

         Minniti deve essere ora quello che ha preteso di diventare giustamente usando tutte le armi a disposizione di un politico, a cominciare dalla minaccia delle dimissioni, pur non ufficialmente confermata, anche se pare esista addirittura una lettera di dimissioni, appunto, scritta dopo un tentativo inutile di chiarimento telefonico col presidente del Consiglio in persona, Paolo Gentiloni, immediatamente prima della riunione del governo.

         Il ministro dell’Interno farebbe un errore se si lasciasse trattenere dalle voci, raccolte da vari giornali, di un segretario del suo partito, Matteo Renzi, sospettoso o addirittura geloso della popolarità crescente del titolare del Viminale, e anche per questo incline a dare una mano a Delrio. Col quale pure -va detto anche questo- egli ebbe occasioni di dissentire, diciamo così, quando lo assunse a Palazzo Chigi come braccio destro in veste di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, prima di liberarsene mandandolo al dicastero delle Infrastrutture. Dove c’era da sostituire il dimissionario Maurizio Lupi, del partito di Alfano, incorso nell’infortunio di un orologio offerto al figlio da un amico che aveva però rapporti amministrativi con lui.

         Personalmente non credo che Matteo Renzi sia davvero tentato, qualunque ne fosse la ragione, dall’idea di preferire la posizione di Delrio a quella di Minniti sul fronte della lotta ai trafficanti di carne umana da troppo tempo lasciati impuniti nelle acque del Mediterraneo, e sulla terraferma libica.

         Il segretario, anzi risegretario del Pd ha commesso già troppi errori nella sua ormai non breve esperienza di partito, e di governo, ricordando i mille giorni e più trascorsi a Palazzo Chigi prima della clamorosa sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale, per permettersi il lusso di compiere anche questo, di errore. Sarebbe semplicemente la sua tomba elettorale, sia pure con la prece del solito, immancabile monsignor Nunzio Galantino, o del Papa in persona.

 

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net il 10 agosto 2017 col titolo: Vi racconto i rischi per Renzi e Minniti su ong e migranti

L’aiuto del Quirinale al ministro dell’Interno Minniti

Questa volta, dunque, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni non ce l’ha fatta a tenere sotto controllo il suo governo, per quanto l’articolo 95 della Costituzione glielo imponga conferendogliene la “responsabilità”. Egli “mantiene -dice quell’articolo- l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”.

         Deve avere pensato proprio a queste parole il ministro dell’Interno Marco Minniti quando, al telefono, si è doluto con Gentiloni dei problemi procuratigli, fra gli altri, dal ministro delle infrastrutture -ex lavori pubblici, trasporti e marina mercantile insieme- Graziano Delrio, peraltro collega di partito e di corrente, essendo entrambi renziani, pur provenendo da direzioni diverse: Minniti dal Pci, e dalla corrente di Massimo D’Alema in particolare, Delrio dalla Margherita, per non dire Dc.

         Probabilmente il ministro delle infrastrutture, nello scontro neppure sotterraneo avuto col titolare del Viminale, deve avere perso la testa con quella concentrazione di competenze derivata dall’unificazione, già accennata, dei lavori pubblici, dei trasporti e della marina mercantile, sino a pensare che i porti italiani siano praticamente roba sua. Dove è lui a stabilire chi può accedervi e chi no, e persino con quali regole, se accettando o rifiutando -nel caso delle navi di soccorso ai migranti gestite dalle cosiddette organizzazioni non governative delle più diverse bandiere- la presenza di agenti della polizia giudiziaria italiana. Che sono armati non solo e non tanto di pistole quanto di occhi per vedere dove finisce l’attività di soccorso e comincia invece la collusione di fatto, voluta o non voluta, con quelli che ci siamo abituati a chiamare scafisti. E sono invece criminali trafficanti di carne umana, decisi a guadagnare sempre di più e a rischiare sempre di meno, usando per il trasporto dei povericristi finiti nelle loro mani carrette che pretendono di riportare indietro sulle coste libiche per ricaricarle a dovere, riportarle al largo, sia fa per dire, e trasferirli sui mezzi sicuri dei cosiddetti volontari.

         Nella sua onnipotenza ministeriale, ripeto, di titolare insieme dei lavori pubblici, dei trasporti e della marina mercantile, con annesse capitanerie di porto e guardie costiere, e in più con la sua sensibilità religiosa, allineato a Papa Francesco, così largo di vedute in materia di accoglienza, Delrio si è dimenticato che in Italia, dove le coste sono più lunghe dei confini terrestri, i porti sono anche posti di frontiera. Dove, volente o nolente il ministro delle infrastrutture, ha il diritto e il dovere di farsi vedere e sentire anche, se non soprattutto, il ministro dell’Interno.

         Presumo che nella conversazione telefonica col presidente del Consiglio il ministro Menniti non sia rimasto molto convinto delle parole e dei concetti del suo interlocutore se poi non ha ritenuto di partecipare alla riunione del governo indetta per discutere della gestione dell’immigrazione. Debbo anche presumere che avessero fondamento le voci che lo davano per dimissionario, o quasi, se poi il presidente della Repubblica ha dovuto assumere l’iniziativa “irrituale” -come l’ha definita il quirinalista principe del giornalismo italiano, che è Marzio Breda, del Corriere della Sera- di una nota di “grande apprezzamento” per Minniti. E anche di richiamo alle organizzazioni non governative che continuano a considerare le loro navi di soccorso abilitate anche a concorrere, di fatto, al traffico clandestino di immigrati. Gentiloni, bontà sua, si è adeguato o associato.

         E’ auspicabile che il Papa una volta tanto si trattenga da prediche e moniti, ricordandosi che, oltre ad essere il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella è un fedele, anzi fedelissimo, di Santa Romana Chiesa, anche se ha meno figli di Delrio.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Ecco come Mattarella ha evitato le dimissioni di Minniti

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