I falsi filantropi dei soccorsi guidati in mare

Non sta andando molto bene agli abitudinari del giustizialismo passati improvvisamente sul fronte per loro inedito del garantismo quando a finire nei sospetti di una o più Procure della Repubblica sono finiti non i soliti politici, i colletti bianchi e simili ma le organizzazioni del volontariato mobilitate nelle acque del Mediterraneo. Dove vengono soccorsi parecchi migranti su richiesta di quelli che dalle coste libiche li hanno appena imbarcati, naturalmente a pagamento, non gratis, su natanti fatiscenti che non galleggerebbero più di qualche ora, se non meno.

La Procura di Trapani ha appena aperto un’inchiesta, visto che i difensori del volontariato per partito preso si lamentavano che ne mancassero, pur parlandosene tanto. E il capo della Procura di Catania, Carmelo Zuccaro, ha ripetuto, e persino rincarato, tutti i suoi sospetti e allarmi davanti alla stessa commissione del Senato, quella della Difesa, dove il collega di Siracusa lo aveva smentito fra gli applausi dei nuovi, improvvisati garantisti.

La musica sta cambiando anche nel palazzo dei marescialli, sede del Consiglio Superiore della Magistratura, dove si parla adesso più di una pratica “a tutela” di Zuccaro che di una contro di lui, che qualcuno già dava per destinato a un trasferimento per cosiddetta incompatibilità ambientale.

Anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando, finalmente liberatosi dell’impegno aggiuntivo di candidato alla segreteria del suo partito, deve avere avuto nuove informazioni per passare dalla posizione critica assunta nei riguardi del suo collega degli Esteri Angelino Alfano, schieratosi a favore di Zuccaro “al cento per cento”, al più cauto riconoscimento della necessità che si indaghi più approfonditamente. D’altronde, prima ancora che al capo della Procura di Catania, peraltro spalleggiato adesso anche da Nicola Gratteri, che non è certamente un collega di second’ordine, dubbi su ciò che accade fra volontari che soccorrono e delinquenti che mettono in mare le persone da raccogliere sono venuti a Frontex. Che non è un’organizzazione esoterica, un’associazione di mitomani, o a delinquere, una postazione di intercettazione di dischi volanti, ma un’agenzia ufficiale dell’Unione Europea, addetta alla guardia di frontiera e control

 

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Ciò non significa naturalmente che non possa capitare anche a Zuccaro di sbagliare, come accade a tutti gli umani e, per restare nel suo campo specifico di azione, ai magistrati che si sentono titolari anche di funzioni che non hanno, spettando esse alla tanto vituperata politica.

Il capo della Procura di Catania, per gli elementi a sua conoscenza e per quelli che potrebbero derivargli dalla disponibilità di maggiori mezzi investigativi, ha il pieno diritto di non scambiare per “filantropi”, come ha detto ai commissari del Senato, tutti i volontari e tutte le organizzazioni private di soccorso operanti nel Mediterraneo. Ma non spetta dire a lui, come ha invece cercato di fare, se e in che misura l’Italia possa accogliere e sopportare l’onere dell’immigrazione che si rovescia sulle sue coste. Questo è un discorso che spetta al governo e al Parlamento che gli accorda o gli nega la fiducia. Zuccaro può naturalmente avere anche su questo le sue opinioni, da elettore però, non da magistrato. E un magistrato è bene che le sue opinioni personali in materia politica se le tenga per sé. I precedenti dei vari Antonio Ingroia quando era ancora in toga non autorizzano il capo della Procura di Catania a imitarlo.

Interessano e sono pertinenti invece le opinioni di Zuccaro in materia di compatibilità del comportamento di talune organizzazioni volontarie con le leggi del territorio dove hanno l’abitudine, la comodità, la premura, chiamatela come volete, di sbarcare quelli che hanno soccorso, pur battendo le loro navi altre bandiere, e potendo andare in altri porti. Glielo ha appena riconosciuto anche il Fatto Quotidiano elencando tutte le “rivincite” che il capo della Procura si sta prendendo dopo “42 gio di polemiche. Hanno smesso quindi per fortuna dalle parti di quel giornale di diffidare del povero Zuccaro da quando ha avuto la sventura di difenderlo un politico abitualmente dileggiato da Travaglio come Angelino Alfano in tutti i ruoli di governo che gli sono capitati: ministro della Giustizia con Silvio Berlusconi, vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno con Enrico Letta, ministro solo dell’Interno con Matteo Renzi e ministro degli Esteri con Paolo Gentiloni: sempre l’uomo sbagliato al posto sbagliato, secondo il direttore del Fatto.

 

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Si è detto e scritto contro Zuccaro, al netto -ripeto- dei suoi sconfinamenti nella valutazione politica e sociologica del fenomeno immigratorio, che il rappresentante dell’accusa deve comunque tacere sui suoi sospetti. Ma perché si pretende dal capo della Procura di Catania di essere l’eccezione in un paese dove tutti i procuratori -lasciatemolo dire- parlano, straparlano e anticipano?

Vorrei ricordare agli smemorati i “livelli alti” dove stavano dirigendosi le sue indagini annunciati dall’allora capo della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli, ben prima che venisse notificato all’allora presidente del Consiglio Berlusconi, peraltro a mezzo stampa, un avviso di garanzia per un reato persosi poi per strada.

Vorrei inoltre ricordare le anticipazioni fornite dal pur ottimo procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, sulla bomba di giudiziaria di Mafia Capitale parlando in un convegno politico.

Ho appena ritrovato, navigando in internet, dichiarazioni rilasciate nel 2012 dall’allora capo della Procura di Palermo, Francesco Messineo, sulla “certezza” che ci fossero state nel 1992-93 trattative fra lo Stato e la mafia delle stragi. Eppure il processo per quelle presunte trattative sarebbe cominciato solo il 27 maggio dell’anno dopo. Ed è ancora in corso, cioè da quattro anni, con imputati alcuni dei quali assolti praticamente per gli stessi fatti in altri processi, o con rito abbreviato. Ma di che cosa stiamo, anzi stanno parlando, per favore?

 

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Mattarella intercettato al Quirinale da una mosca

Sono una mosca, fastidiosa e impertinente come tutte le mosche, per giunta fuori stagione, ma fortunata a tal punto da essermi capitata l’avventura di infilarmi nel palazzo del Quirinale da una finestra aperta da qualche salutista. E volando di qua e di là mi sono trovata addirittura nello studio del presidente della Repubblica. Dove mi sono sfacciatamente adagiata sullo scrittoio senza esserne scacciata, come di solito fanno tutti questi impazienti di umani ben vestiti e con la puzza sotto il naso.

Ho potuto perciò sentire ben bene una telefonata di Sergio Mattarella. Con chi esattamente, non l’ho ben capito perché il presidente si limitava a chiamare di tanto in tanto il suo interlocutore Piero. Piero, e basta. Ma doveva essere un amico fidato, per la delicatezza degli argomenti trattati. Fidato e anche ben incensurato, al di sopra di ogni sospetto, senza il timore quindi di finire intercettato in via indiretta e sfortunata, avendo dall’altra parte del filo qualcuno finito a sua insaputa sotto sorveglianza di un magistrato e relativo maresciallo di polizia giudiziaria. Sennò, poverino, il presidente ha rischiato la disavventura di un anziano predecessore, costretto a chiamare in soccorso la Corte Costituzionale, non bastandogli per legge quegli imponenti Corazzieri a sua disposizione, pronti a intervenire già davanti all’ufficio

Il presidente si compiaceva con Piero della rielezione di “Matteo” alla segreteria del Pd e della fine ch’essa comporterebbe dell’”argomento o pretesto” accampato “da Pietro e Laura”, ma soprattutto “Laura” a giustificazione del ritardo delle Camere sulla strada di “riforma o riformetta elettorale”: giusto quello che occorre per “armonizzare” le leggi in vigore e rinnovare in modo ordinato le assemblee parlamentari. Leggi adesso tanto poco omogenee che in caso di crisi, da lui temuta specie in autunno, quando si dovrà predisporre il bilancio, non lo metteranno in grado di mandare gli italiani alle urne per sbrogliare la matassa. Verrebbero elette, con le regole in vigore, non una Camera accanto all’altra ma una Camera contro l’altra. E io allora che dovrei fare, Piero? Scioglierle daccapo? E quante altre volte ancora?, chiedeva il presidente all’amico.

Con tutta la fretta che Le ho messa, Laura che mi fa, una volta tornata a Montecitorio dopo avere pranzato con “me e Pietro” e riunita la conferenza dei capigruppo? Mi chiama -racconta sempre Mattarella a Piero- e mi dice che la legge arriverà in aula il 29 maggio. E questa sarebbe rapidità? Non fra una settimana, ma dopo un mese, quando già immagino il poco tempo che tutti diranno di avere a disposizione a causa degli impegni della campagna elettorale delle amministrative dell’11 giugno e dei ballottaggi di due settimane dopo. Campa cavallo che l’erba cresce, specie quando l’erba diventerà quella del Senato, dove i numeri sono quelli che sono ed è facile avere più gramigna che erba.

A questo punto io, povera mosca, rischio di perdere la mia postazione d’ascolto perché il presidente allunga una mano verso di me. Ma si ferma ad afferrare un tagliacarte solo per giocarvi, non per scacciarmi via. E così posso godermi e raccontarvi la prosecuzione dello sfogo del presidente con l’amico Piero.

Questa volta non è più’ Laura il bersaglio, ma diventa la Corte Costituzionale. Non posso parlarne e, al limite, non potrei neppure pensarlo, dice il presidente, sia per il ruolo che ho sia per averne fatto parte come giudice. Ne sarei diventato prima o poi anche presidente, visto che finiscono per esserlo tutti, con l’abitudine che hanno preso di eleggere quello più vicino alla scadenza del mandato, quindi anche per pochi mesi. Sarei ancora lì, in attesa del mio turno, se a Matteo non fosse venuta in testa due anni fa l’idea di mettermi qui, facendomi semplicemente attraversare la piazza, dalla Consulta al Quirinale. Ma di questo pasticcio della legge elettorale debbo riconoscere la responsabilità anche della Corte, che ha dichiarato immediatamente applicabili sia il Porcellum per il Senato sia l’Italicum per la Camera, pur avendoli entrambi amputati di parti importanti.

Eppure, specie quando sono intervenuti sull’Italicum, a febbraio, i miei ex colleghi -dice il presidente all’amico- avrebbero dovuto rendersi conto che il combinato disposto delle due leggi avrebbe prodotto non più un Parlamento ma un mostro, fatto di due corpi contrapposti, inconciliabili. Bontà loro, hanno detto che le Camere avrebbero potuto tornare a legiferare sulla materia, se avessero voluto. Ma, appunto, lo vogliono? E pure se lo volessero, lo potrebbero, con tutti i contrasti che ci sono fra e nei partiti che vi sono rappresentati? In che pianeta pensano di vivere i miei ex colleghi?

Non so se stimolato da chissà quale osservazione dell’amico, il presidente ha detto che quello combinato dalla Corte Costituzionale è stato solo l’ultimo “pasticcio in ordine di tempo”, risalendo tutto all’ordinanza con cui permise nel 1991 il primo referendum abrogativo in materia di legge elettorale. Abrogativo, poi, un corno, non potendosi concepire l’abolizione pura e semplice di una legge elettorale senza condannare il Paese al caos, cioè allaimpossibilità di rinnovare in qualsiasi momento, per scadenza ordinaria o straordinaria, all’occorrenza valutata dal presidente della Repubblica, la sua rappresentanza parlamentare.

La Corte decise, allora per le preferenze e due anni dopo per il sistema proporzionale, che l’abrogazione “parziale” di una legge, compresa quella elettorale, potesse avvenire usando le forbici o il bisturi, togliendo una parola qua e un’altra la’, una virgola sopra e un punto sotto, cioè modificando le norme sino a farle diventare altre, del tutto diverse, se non opposte al senso voluto originariamente dal legislatore.

Non contento di questa licenza permessa ai promotori dei referendum con quesiti lunghi e complicatissimi, da addetti ai lavori e non certo da elettori comuni, com’è la grandissima maggioranza della gente chiamata alle urne, la Corte Costituzionale -ha proseguito all’incirca il presidente, scusandomi dell’approssimazione con la quale forse ve ne riferisco- quella licenza se l’è presa anche lei direttamente, quando ha deciso di accogliere i ricorsi della magistratura ordinaria e si è messa a trattare la legge impugnata davanti alla Consulta con le forbici, il filo e il gesso di una sartoria. E meno male che la riforma costituzionale di Matteo, pur da me votata il 4 dicembre, e anche da te su mio consiglio, nonostante tutti i dubbi confessatimi, è stata bocciata. Essa infatti prevedeva addirittura il passaggio obbligatorio di ogni nuova legge elettorale per l’esame della Corte prima di potere essere applicata. Una concessione semplicemente folle, denunciata inutilmente in Parlamento solo da Roberto Giachetti, vice presidente della Camera, uno dei pochi, se non l’unico a intendersi davvero di legge elettorale da quelle parti.

Ci deve essere stata a questo punto un’altra osservazione dell’amico Piero se il presidente ha detto che “aveva certamente ragione la buonanima di Giulio Andreotti” a contestare il “pasticcio originario”, avvenuto nel 1947 all’Assemblea Costituente. Dove fu approvato un emendamento che includeva le leggi elettorali fra quelle precluse al referendum abrogativo, come le tasse e i trattati internazionali. Ma per una dannata svista degli uffici la modifica scomparve dal testo promulgato con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Un errore dannatamente irrecuperabile.

           Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

 

 

 

 

 

La puntualità svizzera dei soccorsi ai migranti

Chiusa, almeno per ora, la partita del Pd con la rielezione di Matteo Renzi, e con le solite contestazioni degli sconfitti sui decimali, che danno da soli la misura della loro qualità politica, come quella dei fuoriusciti, rimane aperta, anzi si aggrava il giallo del Mediterraneo. Nelle cui acque non si è solo consumata a lungo la tragedia di troppi immigrati annegati con i loro sogni di fuga dalle guerre e dalla miserie, ma si sta celebrando la festa ipocrita di almeno una parte del volontariato. Che non accetta controlli e discussioni sui suoi ingenti mezzi e su come li usa, sostenendo che il salvataggio delle vite messe in pericolo dai trafficanti di carne umana debba bastare e avanzare per coprire tutto il resto, anche eventuali complicità con quei mascalzoni, raccogliendone i segnali prima delle vittime, e così aiutandoli a spendere meno, usando imbarcazioni fatiscenti, e guadagnando di più.

E’ severamente vietato, e comunque disdicevole, criticare o dubitare del volontariato come una volta accadeva con i sindacati, che potevano pure dissestare con la loro sostanziale cogestione le aziende pubbliche, dalle ferrovie in su o in giù, indifferentemente, ma non potevano essere contestate senza che gli incauti censori si beccassero l’accusa di attentato alla libertà, alla democrazia, alla Costituzione e via blaterando.

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Le ultime dal fronte del volontariato offeso dai sospetti, dai ragionamenti e dalle segnalazioni del capo della Procura di Catania Carmine Zuccaro, convocato dal Consiglio Superiore della Magistratura con una tempestività che da sola lo fa apparire come un imputato, provengono dalla Commissione Difesa del Senato. Dove, con una deformazione delle notizie che farebbe morire d’invidia il Ministero della cosiddetta cultura popolare di qualsiasi dittatura, è stata annunciata la smentita, o sconfessione, di Zuccaro ad opera del collega capo della Procura di Siracusa, Francesco Paolo Giordano. Il quale, gestendo un territorio portuale più affollato di immigrati rispetto a quello di Zuccaro, sarebbe doppiamente attendibile nella presunta esclusione di complicità, connivenza e quant’altro, voluta o solo casuale, fra i soccorritori privati e i trafficanti che operano sulle coste africane.

Ma si è trattato e si tratta di una esclusione, appunto, presunta perché Giordano ha detto anche altro. Che per fortuna si è potuto ascoltare, sia pure in differita, nei pur pochi minuti dedicati da qualche telegiornale all’audizione del magistrato davanti alla commissione parlamentare: telegiornali di cui ora si spera che i direttori non finiscano sotto processo politico e cacciati su due piedi.

Il capo della Procura di Siracusa, dopo gli apprezzamenti doverosi -non si sa mai- per la presenza delle venti e più organizzazioni di volontari in attività nel Mediterraneo con le loro imbarcazioni, le loro attrezzature ricetrasmittenti, il loro personale e la loro disponibilità a soccorrere più naufraghi possibile, ha detto ai senatori che non tutte collaborano allo stesso modo con chi è chiamato a controllarle, o vi tenta. Già, perché pure il volontariato ha regole e leggi da rispettare, anche quando si avventura fuori dalle acque cosiddette territoriali. Alcune collaborano di più e altre di meno -ha raccontato Giordano- per farsi identificare in tutti i sensi. E altre forse non collaborano per niente.

E’ perfettamente inutile quindi che i signori di queste organizzazioni, in barba o senza, in giubbotto di servizio o in abito civile, si mettano a pontificare sui loro meriti e sui demeriti di chi osa occuparsene senza trattarli da santi. Cerchino piuttosto di convincere i loro colleghi, soci o come altro debbano o possano essere chiamati, a collaborare con chi giustamente vorrebbe capire provenienze di mezzi, ragioni e modalità di tanti puntuali appuntamenti fra trafficanti e soccorritori.

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Un’altra notizia sbandierata dai detrattori del capo della Procura di Catania è la smentita dell’esistenza di un fascicolo, o qualcosa di simile, dei servizi segreti sulle operazioni di soccorso dei volontari. Sarebbe una smentita anch’essa del sapore e valore doppio, provenendo dal presidente del comitato parlamentare di sicurezza, e di vigilanza sugli stessi servizi segreti: il leghista Giacomo Stucchi, dello stesso partito guidato da Matteo Salvini, che dispone evidentemente di notizie diverse perchè, insieme con i grillini e altri esponenti politici sprovvisti di anello al naso, ha ripetutamente chiesto notizie su intercettazioni eseguite da servizi segreti stranieri e forse anche italiani. Di esse d’altronde ha parlato, o vi ha accennato, il procuratore di Catania lamentandone l’inutilizzabilità ai fini inquirenti perché non disposte e non gestite dall’autorità giudiziaria, secondo le modalità del codice di procedura penale.

Il Copasir, acronimo del comitato parlamentare presieduto dal legista Stucchi, è più volte incorso in passato in errori, paradossalmente imposti proprio dalla segretezza del lavoro proprio e dei servizi relativi. Ne fu vittima persino qualche presidente del Consiglio, che non nascose il proprio disappunto per avere dovuto incorrere alla Camera o al Senato, o in risposte scritte a interrogazioni, in figuracce: per esempio, a proposito dell’identità di informatori e quant’altri dei servizi. Figuriamoci, poi, del contenuto delle loro operazioni.

D’altronde, a ben pensarci, solo il concetto del controllo parlamentare dei servizi segreti è un ossimoro, per non dire un’ipocrisia. Non se l’abbia a male -perchè non c’è nulla di personale contro di lui in questa opinione- il senatore bergamasco Stucchi, diplomato di un istituto tecnico commerciale, già consulente aziendale e giornalista, come dice la sua biografia ufficiale. Che ne fa quindi in qualche modo persino un collega.

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Addio all’amico Valentino Parlato

Addio, Valentino. Te ne sei andato pure tu, in punta di piedi, secondo le tue abitudini. L’ultima volta che ti ho visto è stata purtroppo solo in foto, grazie al comune amico Umberto Pizzi, che ti aveva ripreso in un incontro, presente anche Giorgio Napolitano, per la presentazione di un libro del comune e vecchio amico Emanuele Macaluso.

         Ti avevo visto, in verità, affaticato e curvo. E poi, in un’altra foto, seduto con una mano appoggiata ad un bastone. E mi era venuta una stretta al cuore. Che ora si è trasformata in un rimorso per avere disertato quell’incontro. Avrei avuto l’occasione di riabbracciarti per l’ultima volta e di scambiare con te le ultime impressioni, sconsolate con la stessa intensità, sia pure su versanti opposti: tu per lo stato in cui si è ridotta la tua sinistra, io per lo stato in cui si è ridotto da solo, più ancora che per la feroce irruzione del giustizialismo in politica, il riformismo liberalsocialista. Che ha rappresentato l’ultimo stadio della mia evoluzione di moderato, come tu ti divertivi a dirmi sfottendomi con l’amicizia e la signorilità che ti distinguevano.

         Quanti congressi della Democrazia Cristiana abbiamo seguito insieme, tu per il tuo Manifesto e io, allora, per il Giornale di Indro Montanelli. Di cui ti divertivi a dire, non ho mai capito se per sfottermi ancora o per convinzione, che disponesse dei pezzi meglio informati su quel partito: i miei. E mi raccontavi anche di avere a questo proposito discussioni in redazione con i tuoi compagni, che diffidavano di un giornalista dichiaratamente anticomunista come me. Tu mi dicevi di rispondere loro che sì, ero anticomunista, ma i racconti che facevo delle intricate vicende democristiane, da cui dipendevano poi gli sviluppi della situazione politica, erano “esatti”.

         Grazie, Valentino. Anche delle tante discussioni avute in quel bar di via Tomacelli, a Roma, di fronte al palazzo dove lavoravi. Discussioni in cui non ti ho sentito mai esprimere un parere più che rispettoso sui tuoi “compagni”, come continuavi a chiamarli, che pure ti avevano fatto il torto di espellerti dal Pci, con altri “eretici”, illusi che si potessero conciliare la democrazia e il comunismo. Ne dovevano passare di anni perché a quella speranza, o illusione, arrivassero nel partito comunista italiano anche altri, incapaci però di riconoscere davvero, e in tempo, i loro torti passati e le vostre ragioni.

         Un abbraccio forte, Valentino. E aspettami, se veramente si può,  perché prima o poi dovrò raggiungerti.

 

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Il curioso modo di Renzi di praticare la serenità

Matteo Renzi ci sorride sopra, o cerca di sorriderci, se gli rimproverano il danno ormai irreversibile procurato al dizionario della lingua italiana quando, ancora fresco della prima elezione a segretario del Pd, liquidò il governo di Enrico Letta dopo un hashtag in cui lo aveva esortato a stare “sereno”. Cioè, a non avere preoccupazioni.

D’altronde, il suo collega di partito aveva cercato a Palazzo Chigi di mettersi al riparo da pericoli non intromettendosi minimamente nella lunga e travolgente scalata congressuale dell’allora sindaco di Firenze alla guida del Pd. E ciò sino a subirne l’intimazione -diciamo la verità- a non correre dietro a Silvio Berlusconi, che tra l’estate e l’autunno del 2013 aveva minacciato la crisi della maggioranza delle cosiddette larghe intese se il governo avesse continuato a fare il Pilato della situazione, come fece, di fronte alla pratica della sua decadenza da senatore. Che fu decisa in applicazione retroattiva della cosiddetta legge Severino, dopo una condanna definitiva per frode fiscale.

Eppure fu poi proprio Renzi, una volta segretario del partito, a ridare un ruolo politico a Berlusconi ricevendolo nella sede del Pd per negoziare e stringere il famoso Patto del Nazareno sulle riforme costituzionale ed elettorale, che dovevano essere parte rilevante del suo governo, pur rimanendo per il resto all’opposizione il partito del senatore decaduto. L’intesa durò poco più di un anno, sino a quando Renzi non tornò a giocare con l’aggettivo “sereno” e rifilò a Berlusconi la fregatura -intesa naturalmente in senso politico- della scelta solitaria di Sergio Mattarella come candidato blindato al Quirinale per la sostituzione dello stanco e dimissionario Giorgio Napolitano.

Non parliamo poi della serenità avvertita da Massimo D’Alema dopo un incontro a Firenze col non ancora segretario del Pd, al quale aveva fatto capire quanto ci tenesse, per la competenza che riteneva di avere acquisito nella sua azione di governo, ad occuparsi solo di Europa, magari entrando nella commissione di Bruxelles che sarebbe stata nominata dopo il rinnovo primaverile del Parlamento di Strasburgo, nella primavera del 2014.

In fiduciosa attesa l’aspirante commissario scrisse anche un libro sui problemi europei presentato pure da Renzi a pochi passi da Montecitorio e da Palazzo Chigi, in un triangolo che doveva essere della felicità ma fu invece della delusione. A Bruxelles Renzi volle o riuscì solo a mandare la giovane ex funzionaria di partito e sua ministra degli Esteri Federica Mogherini, ora sempre più orgogliosa del ruolo pur figurativo, più che reale, di commissaria della politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea, visto che le diplomazie nazionali sono le meno discrete nella difesa delle loro prerogative.

 

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Oltre che sorriderci, o tentare di sorriderci sopra, Renzi ha di tanto in tanto lamentato di essere stato frainteso nell’approccio disinvolto alla serenità. Ed ha persino promesso di riscattare quanto meno la sua buona fede in un libro autobiografico di ormai imminente pubblicazione, per il quale ha già riscosso dalla casa editrice Feltrinelli un grosso anticipo che gli ha permesso di contribuire dignitosamente, con la moglie insegnante Agnese, a mantenere la famiglia dopo avere perduto la paga prima di sindaco di Firenze e poi di presidente del Consiglio. Dei compensi come segretario del partito che è appena tornato ad essere, non so. E francamente neppure mi interessa perché sono fortunatamente e orgogliosamente vaccinato dalle ossessive curiosità dei falsi moralisti, pronti a indignarsi solo dei compensi e dei cosiddetti privilegi altrui, considerando inezie i propri, compresa spesso l’abitudine all’evasone fiscale.

Temo tuttavia, per lui, che Renzi si porterà appresso una certa diffidenza anche con i chiarimenti che dovesse fornire nel libro in uscita. Lo dimostra la mano che metaforicamente hanno appena portato in tanti sulla pistola sentendosi sceriffi, tenuti alla difesa del governo del conte Paolo Gentiloni dalle ripercussioni del ritorno di Renzi alla segreteria del Pd. Eppure egli per prima accusa gli ha assicurato l’appoggio. E mercoledì scorso, in una lunga telefonata a Eugenio Scalfari, che ne ha riferito domenica ai lettori di Repubblica, aveva previsto e sostenuto elezioni alla scadenza ordinaria della legislatura, nella primavera dell’anno prossimo.

Fra gli sceriffi del governo Gentiloni, come li ho scherzosamente chiamati sapendo bene che le loro pistole sono cariche solo di parole, c’è stato il mio amico, e direttore di formiche.net, Michele Arnese, giustamente allarmato dai tanti segnali da tutti avvertiti da qualche tempo di contrasti tra Renzi e i ministri tecnici dell’Economia, Pietro Carlo Padoan, e dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, su problemi vecchi e nuovi del governo: ultimo, in ordine di tempo, il quasi fallimento di Alitalia. Contrasti in ordine ai quali Arnese ha ragioni da vendere a chiedersi se essi sono destinati a crescere, ora che il potere contrattuale di Renzi è aumentato con la riassunzione formale della segreteria del partito, se l’ha veramente mai dismessa nelle more del congresso e delle primarie. Che alla fine ha stravinte col 70 per cento dei voti, contro il circa 20 per cento del concorrente Andrea Orlando e il 10 di Michele Emiliano, stando ai dati più aggiornati di quelli noti lunedì mattina, e comunque contestati dal guardasigilli per qualche punto che gli sarebbe stato sottratto a torto.

 

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Assicurazioni, promesse, dichiarazioni, confessioni, progetti e quant’altro del ri-segretario del Pd attendono naturalmente la verifica con gli sviluppi della situazione politica, cioè con i fatti. Che sono e saranno gli unici ai quali doversi attenere, a cominciare dalla sorte che avrà il tentativo sollecitato al Parlamento dall’ormai insofferente presidente della Repubblica di “omogeneizzare” le due leggi in vigore per il rinnovo delle Camere, in modo da essere in grado di gestire con la pienezza delle sue funzioni e prerogative, compresa la possibilità di rimandare gli italiani alle urne anticipatamente, se dovesse sopraggiungere una crisi di governo. Che evidentemente il capo dello Stato non esclude anche perché conosce l’uso che Renzi fa del concetto di serenità.

Se le Camere dovessero riuscire nel miracolo di rimediare alla situazione quanto meno paradossale in cui il sistema politico è stato messo dalla certificazione di immediata applicabilità rilasciata dalla Corte Costituzionale ad entrambe le leggi elettorali, per quanto non omogenee, da essa modificate con parziali amputazioni, bisognerà vederne le ripercussioni sul clima politico. E ciò specie quando, in autunno, si dovrà procedere alla stesura della legge finanziaria del 2018. Che tanto più corrisponderà alle attese rigoriste di Bruxelles, Berlino e forse anche di Parigi, come capiremo domenica da chi andrà all’Eliseo, tanto più renderà rischiose per il Pd e il suo segretario le elezioni alla scadenza ordinaria. Ignorare questa realtà sarebbe come mettere la testa sotto la sabbia.

 

 

 

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La volpe di Berlusconi e l’uva di Matteo Renzi

            In attesa, mentre scrivo, delle reazioni a sinistra, da parte soprattutto dei fuoriusciti dal Pd, alle affollate primarie -con due milioni di votanti- che hanno restituito a Matteo Renzi la segreteria del partito, bisogna accontentarsi della reazioni a destra. Che sono state, al solito, di sufficienza, essendo viste da quelle parti, soprattutto da Silvio Berlusconi e amici, le primarie come un esercizio inutile, adatto a misurare più gli imbrogli di cui è capace chi vi partecipa o le organizza che il consenso vero attorno ai candidati alle cariche di turno.

         Ogni volta che vi ha dovuto cedere a parole, per l’insistenza degli alleati e di alcuni rompiscatole del suo stesso partito, Berlusconi si è tirato indietro all’ultimo momento con molti pretesti e una sola ragione. I pretesti sono la mancanza di una legge che le disciplini, il momento sempre inopportuno, la sua temporaneamente ridotta agibilità politica e altro ancora, L’unica ragione è il rifiuto quasi antropologico di vedere messa in discussione la propria leadership, ritenendo offensiva solo l’idea che possa misurarsi con qualche aspirante alla successione.

         Così anche le primarie di fine aprile volute e vinte da Renzi per chiudere la partita apertasi con la sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale, e sviluppatasi con la scissione del Pd, sono state liquidate dal Giornale di famiglia dell’ex presidente del Consiglio come tempo perso. O come -peggio ancora- l’annuncio di pericolo o di morte del governo Gentiloni, di cui pure il partito di Berlusconi è all’opposizione, per cui una sua crisi dovrebbe essere salutata come una buona notizia dai forzisti, non come una sciagura, o quasi.

            Il meno che si possa dire, di fronte a simili contraddizioni, è che Berlusconi è un po’ la volpe della famosa favola di Fedro. E la capacità di un partito e di un leader di affrontare il giudizio degli elettori e dei simpatizzanti, in un gioco in cui qualcuno accetta di rischiare anche di perdere, come vorrebbe una vera democrazia, è l’uva, sempre della famosa favola di Fedro. Un’uva troppo alta per essere colta con un balzo e perciò tanto acerba da potersi risparmiare la fatica impossibile di coglierla

La taglia di Renzi passa da extra small a extra large

Matteo Renzi è dunque passato dall’extra small del 4 dicembre, quando la sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale ne ridimensionò molto la figura politica, all’extra large del 30 aprile: con quei due milioni di partecipanti alle primarie, di cui oltre il 70 per cento favorevole al suo ritorno alla segreteria del Pd, il 21 per cento al guardasigilli Andrea Orlando e meno dell’8 per cento al governatore pugliese Michele Emiliano.

Ci saranno rimasti un po’ male non tanto i due concorrenti sconfitti, che Renzi ha assennatamente ringraziato per avere contribuito alla mobilitazione dei simpatizzanti ed elettori del partito, quanto i fuoriusciti dal Pd. Penso ai vari Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, che pensavano di avere procurato all’odiato avversario con la scissione un danno irreparabile.

I due- Bersani e D’Alema, in ordine naturalmente alfabetico, anche se il secondo può vantarsi di essersi trascinato appresso l’altro nella lotta senza quartiere all’”intruso”- sono stati per un po’ indecisi se continuare a fargli la guerra, fuori dal Pd, per interposta persona mandando i loro compagni ai gazebo per sostenere Orlando ed Emiliano, o tenerli rigorosamente lontani per fare scendere il livello della partecipazione alle primarie di tanto da delegittimare la vittoria di Renzi, considerandola scontata.

Alla fine i due ex Pd, ora Dp, debbono avere optato per il boicottaggio delle primarie, pensandosi magari favoriti dal solidissimo ponte festivo del primo maggio -altro che quelli che crollano di tanto in tanto sulle strade- e dalle buone previsioni del tempo. Ma hanno fallito anche in questo.

Così il buon Antonio Padellaro, che sul Fatto Quotidiano da lui fondato ma ora diretto da Marco Travaglio ha un po’ la parola e la penna più educate e umane, può tirare un sospiro di sollievo. Egli aveva temuto un tale flop ai gazebo da evocare per la successiva edizione delle primarie la famosissima frase pronunciata da uno sprezzante Giancarlo Pajetta per commentare una deludente, per lui, seduta della Camera: “L’ultimo che esce, spenga la luce”.

Padellaro, come molti altri, prevedeva “addirittura il dimezzamento” dell’affluenza alle primarie rispetto ai due milioni e ottocentomila voti dell’altra vittoria di Renzi, nel 2013. E lo stesso Renzi prudentemente si era detto soddisfatto se solo i partecipanti fossero stati superiori al milione, visto che la disaffezione è un fenomeno generale, figuriamoci poi quando viene fomentata e diventa strumento di lotta politica, come si è cercato di fare contro di lui.

 

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Prima di tornare a Renzi e alle sue prospettive, spendo ancora due parole sui suoi due concorrenti sconfitti. Che contavano entrambi su risultati migliori, cioè su una distanza minore dal segretario.

Orlando, con tutta la vecchia nomenklatura post-comunista rimasta nel Pd e schieratasi a suo favore, a cominciare dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano per finire al simpatico tesoriere rosso Ugo Sposetti, aveva accarezzato il sogno del 30 per cento dei voti. Che avrebbe potuto consentirgli, nella pur improbabile ipotesi di una ricostituzione del centrosinistra “ampio” auspicato da Giuliano Pisapia, di aspirare alla presidenza del Consiglio, come “l’unico -aveva detto lui stesso- capace di unire” i separati.

Il guardasigilli è stato sicuramente danneggiato dal mancato soccorso dei fuoriusciti, che avrebbero potuto presentarsi ugualmente ai gazebo dichiarandosi ancora potenziali elettorali del Pd e continuando così con altri mezzi -ripeto- la guerra a Renzi. Ma ancor più gli ha nuociuto forse quella curiosa partecipazione alla campagna contro il capo della Procura della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro. Che lui ha contribuito ad incolpare di avere voluto infangare tutto indistintamente il volontariato operante nel Mediterraneo con l’allarme sul rischio che una parte di esso colluda con gli scafisti accorrendo in tempo, su chiamata, a soccorrere in acque libiche gli sventurati imbarcati a forza dai trafficanti su natanti fatiscenti, utili solo a ridurre le spese e aumentare i guadagni.

Nella foga della sua partecipazione al discredito del procuratore di Catania il guardasigilli ha persino rotto la solidarietà di governo attaccando il ministro degli Esteri, accusato per la sua fiducia “al cento per cento” nel magistrato catanese di avere voluto indifferentemente -pensate un pò- arruolarsi con i grillini per spirito masochistico o tornare a farsi piacere a destra, riscattandosi dal tradimento rinfacciatogli sia dai leghisti sia dai forzisti per essere rimasto al Viminale nell’autunno del 2013, dopo l’ordine di Berlusconi di lasciarlo.

Un guardasigilli che si comporta in questo modo, banalizzando a livello di lavanderia o osteria un problema enorme come il rischio di strumentalizzazione politica ed economica del fenomeno drammatico dell’immigrazione, non può essere francamente attendibile come aspirante né alla segreteria di un partito considerato centrale per gli equilibri del Paese né alla guida di un governo di coalizione di centrosinistra miracolosamente più solido di quelli autoaffondatisi, tutti, negli ultimi vent’anni e più della storia italiana.

Sulle difficoltà fisiche, poi, che avrebbero danneggiato Emiliano, azzoppatosi durante un ballo al di sopra delle sue capacità, non vorrei calcare troppo la mano esprimendo l’opinione che proprio quell’incidente gli abbia garantito un’esposizione mediatica superiore ai suoi presunti meriti politici.

 

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Ed ora veniamo a ciò che si è scritto e si potrebbe ancora scrivere su come Renzi intenda o possa investire il successo del suo ritorno effettivo alla guida del Pd.

Più delle congetture e dei retroscena, come spesso si chiamano enfaticamente le fantasie di cronisti, analisti e quant’altro, voglio rimanere al resoconto che Eugenio Scalfari ha fatto, proprio nel giorno delle primarie, di una “lunga conversazione telefonica” avuta mercoledì scorso con l’ormai amico Renzi. Che, arcisicuro di vincere la partita, gli ha garantito o promesso, come preferite, che lascerà a Palazzo Chigi l’amico e conte Paolo Gentiloni sino alla fine “ordinaria” della legislatura, cioè sino alla primavera dell’anno prossimo.

Renzi è inoltre riuscito a convincere “purtroppo”- parola dello stesso Scalfari- il suo interlocutore, che in precedenza gli aveva consigliato il contrario, dell’opportunità di tornare dopo le elezioni a Palazzo Chigi, conservando anche la carica di segretario. E ciò- gli ha spiegato- per meglio portare avanti la missione che più di tutte proprio Scalfari gli ha in qualche modo affidato, pur non avendolo voluto votare alle primarie per non fargli “montare troppo la testa”. E’ la missione di una riforma davvero federale e sovranazionale dell’Europa, visto che -potrei aggiungere con qualche ironia- non gli è riuscito di riformare la Costituzione italiana.

Sulla praticabilità, oltre che utilità, di un ritorno di Renzi anche a Palazzo Chigi è forse bene fermarsi a dire che chi vivrà vedrà.

 

 

 

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