Quei rapporti di nuovo empatici fra Renzi e Berlusconi che inquietano Giorgia Meloni

Chissà se dei rapporti empatici fra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi di cui si occupa oggi Il Foglio sullo sfondo delle preoccupazioni che avrebbero già procurato alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, fa parte anche qualche telefonata o messaggino telematico di comprensione o solidarietà del senatore di Scandicci per le reazioni alla promessa fatta dal Cavaliere ai giocatori del Monza di premiarli con un “pullman di troie” in caso di vittoria sulla Juventus e/o sul Milan. 

Magari neppure a Renzi, cresciuto in fondo alla scuola dei boy scout, come disse una volta di lui Jhon Elkann parlandone con Sergio Marchionne e un giornalista in attesa di assunzione alla Fiat; neppure a Renzi, dicevo, non sarà molto piaciuta la battuta che lo stesso Berlusconi ha definito da “spogliatoio”. Ma un gesto, peraltro riservato, di  sostegno di fronte ad eccessive reazioni critiche potrebbe ben essere rientrato nel desiderio e insieme interesse di Renzi a ravvivare una vecchia simpatia. Che si interruppe nel 2015 per il mancato accordo sull’elezione del successore di Giorgio Napolitano al Quirinale. Fu allora che si chiuse la stagione fogliante -dalla testata giornalistica che l’aveva avviata- di Renzi “royal baby” di un Berlusconi restio a coltivare davvero un successore in casa, tra i tanti forzisti aspiranti al ruolo di delfino ma via via risultati agli occhi, e al cuore, del Cavaliere sprovvisti di quel “quid” necessario al caso. 

Che Renzi, del resto, goda ad Arcore e dintorni di una maggiore considerazione o fiducia rispetto al suo socio politico Carlo Calenda è emerso con chiarezza di recente, in occasione della visita proprio di Calenda a Palazzo Chigi per un confronto con la Meloni sulla manovra finanziaria allora in cantiere. In risposta ai giornalisti che la incalzavano per strada con domande su quella visita la capogruppo berlusconiana al Senato, Licia Ronzulli, liquidava come “irrilevante” il ruolo dell’interlocutore al quale la presidente del Consiglio aveva invece deciso di dare ascolto ricevendolo in pompa magna, diciamo così, con tanto di delegazione del terzo polo non comprensiva -guarda caso- di Renzi. Che, un pò più avanti negli anni pure lui, non potrà essere reincoronato “Royal baby” da un officiante Giuliano Ferrara ma potrà ben risultare a Berlusconi più gradito, più sintonico di Calenda: l’uomo peraltro al cui movimento -“Azione”- bussarono le allora ministre Mara Carfagna e Mariastella Gelmini dopo avere lasciato Forza Italia per protesta contro la fiducia negata al governo di Mario Draghi. Esse cercarono e trovarono calorosa accoglienza mentre da Arcore si guadagnavano le solite accuse di tradimento e ingratitudine. 

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Di Pietro non si lascia distrarre dall’euroscandalo. Pensa ancora alla sua mancata Mafiagate

Mentre tutti, più meno. ne evocano la figura per il paragone cui, a torto o a ragione, si presta la sua figura di quando era magistrato con quella del belga Michel Claise, che sta facendo letteralmente tremare  l’Europarlamento col cosiddetto “Qatargate”, Antonio Di Pietro dalla sua masseria molisana nella quale ha voluto confinarsi da solo, se il suo si può davvero definire un confino, come io non ritengo, è tornato a lanciare le sue esche nelle acque degli storici, ma anche dei politici, rimasti sinora insensibili, o quasi, alle sue proteste per il lavoro incompiuto di inquirente una trentina d’anni fa. Allora anche lui faceva tremare un Parlamento, quello italiano, per le indagini su Tangentopoli, o “Mani pulite”, come le chiamarono più enfaticamente nella Procura di Milano dove egli lavorava. E al tempo stesso faceva sognare il pubblico giustizialista che reclamava sempre più arresti, sempre più avvisi di garanzia, che bastavano da soli a sputtanare chi li riceveva, e sempre più rinunce volontarie dei parlamentari alle norme di garanzia per le loro funzioni introdotte nella Costituzione dai cosiddetti padri della Repubblica. 

A dispetto di questa realtà percepita allora nel Paese, provocando peraltro un bel pò di suicidi e alla fine la tante volte celebrata caduta della cosiddetta prima Repubblica, Di Pietro si è riproposto in una intervista a Panorama più come “una lepre” che come “una volpe”, più come l’inseguito che l’inseguitore, più come la vittima che il giustiziere. Per quanto sorretto dal suo capo Francesco Saverio Borrelli, alla cui morte lui, non più magistrato, sarebbe andato ad onorarlo in lacrime, magari scusandosi in cuor suo per talune incomprensioni poi esplose anche in pubblico fra di loro, Di Pietro si sentiva ostacolato dai “servizi segreti deviati”, come li chiama con tutta la competenza a lungo attribuitagli in materia di servizi segreti regolari. A capo dei quali ci fu più di un politico della cosiddetta seconda Repubblica tentato di farlo approdare, fallito il tentativo di arruolarlo nel primo governo di Silvio Berlusconi come ministro dell’Interno, magari in tandem con l’amico e collega Pier Camillo Davigo alla Giustizia. Poi  “Tonino” sarebbe diventato, ma con Romano Prodi, soltanto ministro dei Lavori Pubblici, spedito però in quella specie di tana del lupo che il dicastero di Porta Pia era diventato come svincolo delle tangenti della prima Repubblica.

Ma perché i servizi segreti “deviati” ce l’avevano tanto con lui, lasciando anche qualche traccia raccolta, secondo Di Pietro, fra il 1995 e il 1996 nelle carte del Copasir, il comitato interparlamentare che praticamente vigila almeno sui servizi segreti regolari? E’ lo stesso Di Pietro a rispondere dicendo a Panorama che l’obiettivo di chi gli metteva “i bastoni fra le ruote” era di non fargli “rivelare le connessioni tra appalti e mafia”, ben più gravi dei finanziamenti illegali della politica scoperti dall’inchiesta di “Mani pulite”. Connessioni -ha spiegato sempre Di Pietro- raccontate in “un rapporto dei Ros”, cioè dei Carabinieri, consegnato nel 1992 a Paolo Borsellino e costatogli praticamente e veramente la vita nell’attentato di via D’Amelio, a Palermo, successivo a quello di Capaci a Giovanni Falcone. 

Morto Borsellino, col quale Di Pietro ha raccontato di avere “parlato” in tempo solo per convenire sulla necessità di “fare presto” il loro lavoro, sarebbe svanito quel prezioso e clamoroso filone che avrebbe potuto far passare le cronache giudiziarie da “Mani pulite” a “Mafia pulita”, come lo stesso ex magistrato ed ex politico ha proposto di chiamarla. Qualcosa -sembra di capire- che avrebbe fatto impallidire la Tangentopoli politica scoperta dalla Procura di Milano, declassandola ad una vicenda minore, una specie di Tangentopoli dei poveri.

E noi, poveri Pirla, stiamo ancora a pensare e a scrivere di questo magistrato belga in qualche modo emulo – con il milione e mezzo di euro sequestrato ai frequentatori maggiori e minori del Parlamento di Strasburgo- del Di Pietro di quei miserabilissimi sette milioni di lire, se non ricordo male, sequestrati il 17 febbraio 1992 a Mario Chiesa nell’ufficio di presidente del Pio Albergo Trivulzio. Quando impareremo, finalmente, a distinguere cose e uomini, o donne? Quando finiremo di scambiare lucciole per lanterne? Lucciole, ripeto, senza allusione alle “troie” appena rovesciate sulle cronache politiche dal solito Berlusconi parlandone, per scherzo, con i calciatori del Monza e provocando la solita bagarre. 

Visto che Di Pietro non ha parlato per la prima volta, e penso neppure per l’ultima, del colpaccio mancatogli a suo tempo da magistrato, cinicamente inchiodato all’aspetto in fondo minore del torbido di trent’anni fa, mi chiedo perché non si proponga un’inchiesta parlamentare su questa vicenda. Sembra che  quella solo su Tangentopoli, o “Mani pulite”, venga considerata troppo modestamente, e immoralmente, condizionata da presunti o reali propositi revanscisti di corruttori e corrotti segnati dal tempo. Fatevi sotto, coraggio, onorevoli deputati e senatori del Parlamento da poco rinnovato e ristretto. 

Pubblicato sul Dubbio

Berlusconi nei guai, ma non troppo, per un suo “pullman di troie”

La solita scorsa quasi notturna dei giornali consentita dalla solerte rassegna stampa del Senato mi ha dato l’impressione di una svolta mediatica, e in qualche modo anche politica, nei riguardi di Silvio Berlusconi. Che è stato beccato in prima pagina, fra i giornali più diffusi, solo dal Corriere della Sera e da Avvenire per la sua promessa certamente più infelice che spiritosa di un “pullman di troie” ai giocatori del Monza in caso di vittoria sulla Juventus e/o sul suo ex Milan. Tutti gli altri, quotidiani, grandi e piccoli, hanno generalmente contenuto o relegato la notizia, e relative reazioni, all’interno: a cominciare da Repubblica, che bisogna sfogliare sino a pagina 12 per trovare il commento di Piero Colaprico -senza richiamo in prima, ripeto- al “Cavaliere battutista che inciampa ancora sul vetero sessismo”. Un commento completato, aggravato, condito, come preferite, da una foto che ritrae Berlusconi mentre parla accanto alla solitamente imperscrutabile fidanzata e deputata forzista Marta Fascina. 

Diversa è la foto scelta dal Giornale di famiglia di Berlusconi a pagina 10 per corredare una breve difesa dell’ex presidente del Consiglio dal “polverone” dei critici liquidati dall’interessato come “poveri di humor”. Fra i quali vanno evidentemente annoverati anche i vertici del già ricordato Avvenire, il giornale dei vescovi italiani che in prima pagina ha espresso “tristezza” per le parole di Berlusconi, invitato a smetterla col suo repertorio di battute e barzellette. La foto scelta dal quotidiano di famiglia ritrae l’anziano birichino sorridente con quattro giocatori del Monza, dei quali tre appaiono sicuramente divertiti dal Cavaliere.

Ancora più severo di Avvenire è stato il Corriere della Sera sparando in prima pagina contro Berlusconi il richiamo di una cronaca dettagliata di Tommaso Labate sulla “battuta choc” dell’ex presidente del Consiglio e sulle reazioni, più   un commento per niente minimalista di Massimo Gramellini titolato “Poco Cavaliere”.  

Ben diversi -compiacenti, tolleranti, divertiti, come preferite- sono stati gli amici del Foglio, fedeli alla tradizione di trattare Berlusconi come “l’amor nostro”, anche dopo averlo perduto come editore, o quasi. Giuliano Ferrara ha scherzosamente inserito “le solite troie del Cav” nella rappresentazione politica del centrodestra al governo, o destra-centro come preferiscono chiamarlo con opposti sentimenti i critici e i fratelli d’Italia oggi in festa, peraltro, per i dieci anni compiuti dal partito fondato da Giorgia Meloni. Che non immaginava certo, partorendolo, di poter arrivare, almeno così rapidamente, addirittura a Palazzo Chigi. Makkox, il vignettista del giornale fondato da Ferrara, si è a suo modo travestito da Berlusconi per scusarsi della battuta sul pullman di troie dicendo. “Ok! Ok!…Un pullman elettrico…”.

Vi confesso che lì per lì la prima, rapida scorsa dei giornali mi ha fatto credere, sperare, apprezzare e quant’altro una sorprendente conversione del Fatto Quotidiano al buon gusto o alle buone maniere verso Berlusconi. L’editoriale del direttore Marco Travaglio, a dispetto di un titolo come “Fateci ridere”, se l’è presa con Paolo Cirino Pomicino, Giorgio Napolitano e altri evocando le “mani pulite” di trent’anni fa e il Qatergate di questa fine d’anno. Ma poi ho visto che alla battuta di Berlusconi sul pullman delle troie il Fatto Quotidiano ha dedicato all’interno, con modesto richiamo in prima, il commento corrosivo di Pino Corrias titolato sull’”ultimo treno di B”, ma soprattutto “la cattiveria” di giornata. Che dice in prima pagina, dopo avere riportato le sue parole: “B. ricorda al suo Monza di essere l’unico rappresentante della tradizione cristiana”. Oddio, Travaglio si bergoglizza? O riscrive a suo modo la storia di Maria Maddalena aggiornandola ai tempi del sempre odiato Berlusconi? Al direttore del Fatto stanno preparando un posto o una rubrica ad Avvenire? 

L’imitazione belga, peraltro mal riuscita, dell’italiano Antonio Di Pietro

Neppure il politicamente compianto ma tuttora vivo e vegeto Antonio Di Pietro, Tonino per gli amici e dimostranti che una trentina d’anni fa percorrevano le strade di Milano incoraggiandolo a farli “sognare” con la ramazza giudiziaria, impugnata dal sostituto procuratore della Repubblica contro protagonisti, attori e comparse della cosiddetta prima Repubblica; neppure lui, ripeto, aveva osato spingersi dove Davide Carretta sul Foglio ci racconta oggi fosse arrivato due anni fa a dire il magistrato belga Michel Claise. Che sta facendo tremare l’Europarlamento con indagini, arresti e immagini fotografiche di quello che i giornali hanno battezzato “Qatargate”, ma con spruzzatine anche marocchine, secondo anticipazioni che compaiono e scompaiono nelle cronache giudiziarie. 

Sentite, sempre nel racconto di Davide Carretta, che cosa Claise diceva nel 2020 parlando non della sua attività di romanziere, giallista e quant’altro ma delle convinzioni sullo stato della democrazia maturate nel suo lavoro di giudice istruttore. La criminalità finanziaria -osservava in una intervista al quotidiano Le Soir– è un fenomeno storico “legato al corpo dell’uomo. Ciò che conosciamo oggi è una situazione senza precedenti. Siano fottuti. Assolutamente. La democrazia, il principio democratico per me è fottuto….dal denaro sporco”, per cui “non si riesce più a sapere chi è cosa”.

Evidentemente c’è qualche paese nel nostro mondo cosiddetto occidentale, nella nostra civilissima Europa, dove la giustizia viene amministrata peggio che in Italia. Due anni fa, alla pubblicazione di quell’intervista di Michel Claise, nessuno sopra di lui nelle gerarchie giudiziarie ritenne ch’egli non avesse ormai più la obiettività, serenità, neutralità e quant’altro necessario per indagare e giudicare sulla corruzione in generale, e in particolare su quella in politica, così radicalmente considerata “fottuta”.

Come in Italia trent’anni fa, quando peraltro gli inquirenti di “Mani pulite” si occupavano di corruzione senza essersi mai spinti prima a parlare di una democrazia “fottuta”, si reagì mediaticamente e politicamente a Tangentopoli inseguendo e superando l’accusa, un pò per vigliaccheria e un pò per opportunismo, così  oggi al Parlamento europeo vedo che la gara ormai è a chi scavalca di più monsieur Claise. 

Quest’ultimo, per carità, è riuscito a fare meglio e di più di Di Pietro, che il 17 febbraio del 1992 arrivò a scoprire e fare sequestrare pochi miserabili milioni delle vecchie lirette a Mario Chiesa nell’ufficio di presidente del Pio Albergo Trivulzio, contro il milione e mezzo circa di euro, pari a circa tre miliardi delle vecchie lire, messi in fila davanti ai fotografi dagli inquirenti di Bruxelles: in tagli peraltro così piccoli da essere stati stipati in sacchi da chi li aveva ricevuti. Ma è anche vero che qui si parla assai impropriamente di tangenti, non essendosi trovato lo straccio di un affare, nel senso proprio del termine, concesso o ottenuto in cambio di quel denaro. 

Non è un titolo costruito sulla sabbia del garantismo quello del Riformista su Panzeri e Kaili, l’ex europarlamentare italiano e la deposta vice presidente greca del Parlamento europeo, entrambi di sinistra, finiti “in cella” in attesa che si trovi “il reato” col quale mandarli al processo. Per quanto possa essere rivoltante, per carità, quello spettacolo di banconote esposte ai fotografi, già usate in Italia dal Fatto Quotidiano per deridere il povero ex parlamentare -pure lui- Pier Luigi Bersani, che protestava contro “la mucca” di destra nella sede del Pd quando lui ne faceva ancora parte, ma non si accorgeva delle altre mucche di sinistra “alla mangiatoia”; per quanto tutto questo, ripeto possa essere disdicevole, l’abitudine di mandare in galera gente senza neppure conoscere il reato da contestarle è una schifezza ancora peggiore. Così sì  che viene fottuta la democrazia, per dirla con l’ineffabile e mal riuscita imitazione belga dell’ex super Tonino italiano.

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Al Senato non si era mai visto un capogruppo dissentire…dal suo stesso gruppo

Non siamo, per carità e per fortuna, allo “choc” dell’Europarlamento registrato da Avvenire per quei sacchi di danaro raddoppiato in pochi giorni di indagini e sequestri, da seicentomila a più di un milione e trecentomila euro di sospetta e corruttiva provenienza qatariota, ma anche il Senato italiano è alle prese con un inedito nella sua storia: una specie di dichiarazione anticipata di voto in dissenso dal gruppo di appartenenza pronunciata paradossalmente dalla capogruppo. Che è la forzista ultraberlusconiana Licia Ronzulli, con tanto di sorpresa esplicitata a botta calda in una trasmissione televisiva dal presidente del Senato Ignazio La Russa. La cui elezione, peraltro, avvenne in apertura della legislatura a dispetto della stessa Ronzulli, astenutasi con alti colleghi di partito dalla votazione mancando l’obiettivo della bocciatura per i voti giunti al candidato nel segreto dell’urna da ignoti senatori di opposizione. 

Questa volta tutto si svolge a cielo aperto, diciamo così. Il bersaglio della Ronzulli non è stato, o non è, La Russa ma la conversione di un decreto legge del governo che ha consentito, fra l’altro, il rientro in servizio ospedaliero dei medici sottrattisi alla vaccinazione propria e altrui contro il Covid nel momento della maggiore diffusione della pandemia. La passata e perdurante azione di contrasto a questi medici da parte della Ronzulli, nel frattempo assurta alla funzione di capogruppo del suo partito al Senato dopo avere mancato la partecipazione al governo, ha reso l’interessata incompatibile non con il suo nuovo ruolo politico, come si potrebbe pensare, ma con il suo voto al provvedimento favorevole come quello di tutti gli altri senatori dello stesso partito. 

Il Giornale della famiglia Berlusconi, pur dando alla notizia l’onore dell’apertura della prima pagina, ha declassato a “un caso in maggioranza” la “trincea” in cui ha voluto mettersi la Ronzulli. Il Corriere della Sera e Libero, sempre in prima pagina, hanno preferito invece alzare il tiro scrivendo di “strappo”, cioè scomodando una parola nella quale i più anziani cronisti e osservatori politici si erano imbattuti, o alla quale si erano abituati, seguendo eventi più consistenti e drammatici come i rapporti fra il Pci di Enrico Berlinguer e la centrale comunista di Mosca. Altri tempi, altri temi, altri uomini e altre donne, non so se più per fortuna o per disgrazia. Dipende naturalmente dal modo di vedere o avvertire cose e persone. 

Il solito Fatto Quotidiano, per esempio, nel richiamo del caso Ronzulli in prima pagina, per volerlo chiamare alla maniera prudente del Giornale, ha voluto vedere, indicare, denunciare e quant’altro lo zampino di Berlusconi in persona titolando: “B. usa Ronzulli contro Meloni”. Non così esplicito ma ugualmente allusivo, in funzione antimeloniana, è il titolo del Riformista sulla cronaca e sull’analisi della navigatissima Claudia Fusani: “Le inquietudini di Forza Italia: Meloni avvisata- Ronzulli si ribella e vota contro il decreto rave”. 

Di tutt’altro segno, quasi evangelico, è la lettura dell’Huffpost con quel “travaglio interiore” attribuito al “no di Ronzulli al reintegro dei medici no vax”. Magari, la capogruppo non ne ha neppure parlato con Berlusconi, sorprendendo pure lui, anche se è francamente difficile credere che siano andate effettivamente così le cose ad Arcore e dintorni. 

Certo, una cosa permettetemi di pensarla e di scriverla. Immagino Giorgia Meloni ancora più convinta delle resistenze opposte alla candidatura della Ronzulli a ministro di peso nel suo governo. Dove con i “travagli” che ha, per restare al linguaggio evangelico -ripeto- dell’Huffpost, quella che è poi diventata capogruppo forzista al Senato avrebbe potuto crearle chissà quanti e quali altri problemi. 

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La vocazione maggioritaria del Pd tradita sin dalla nascita

E’ una vita che non vedo e non sento Umberto Ranieri, che conobbi e imparai ad apprezzare alla Camera tanti anni fa sentendolo sfogarsi contro i compagni di partito -il Pci- arroccatisi in un anticraxismo da lui considerato “un suicidio”. Mi raccontava delle smorfie che raccoglieva quando, sui banchi di Montecitorio dove sedevano i comunisti, commentava gli interventi del  leader socialista dicendo semplicemente al vicino di turno: “Ma quello ha ragione”. Aveva ragione, in particolare, Craxi a porre il problema della modernizzazione della sinistra e, più in generale, delle istituzioni con coraggiose riforme opponendosi alle quali si relegava il Pci a partito della conservazione. 

Poi sarebbero arrivati addirittura gli anni dell’impazzimento giudiziario, quando dare ragione ai socialisti significava diventare complici del malaffare in essi personificato. Ma già prima Enrico Berlinguer -che Stefano Bonaccini, il principale candidato alla segreteria del Pd,  indica orgogliosamente come il proprio modello-  soleva indicare come “un gangster” parlandone nel partito, istigato dal suo portavoce Tonino Tatò in tanto di appunti e lettere poi pubblicate. 

Non lo vedo e non lo sento, dicevo, da una vita. Ma ho continuato a leggere Umberto Ranieri ovunque mi sia capitato di trovare i suoi scritti, tra Il Mattino della sua Napoli e Il Foglio. E proprio sul Mattino mi sono riconosciuto, come al solito, nell’articolo contro “la tentazione di agganciarsi al carro grillino”, gridata ieri nel titolo, avvertita sulla strada del congresso del Pd e in qualche modo subita anche dal segretario uscente: un “altro Enrico”, come più volte si è compiaciuto di definirsi l’ex o post-democristiano Letta. Dal quale Ranieri si aspettava che non si dimettesse nel modo irrevocabile col quale l’ha fatto e guidasse piuttosto l’azione di contrasto ai grillini. 

“Temo che sia in atto con la indifferenza o la complicità di Enrico Letta -ha scritto Ranieri- la distruzione dell’essenza stessa delle origini: il partito a vocazione maggioritaria”. “Il Partito democratico- ha scritto Ranieri in un altro, precedente passaggio- appare oggi un partito intimidito, in cui si coltiva una illusione mortale: l’idea di risalire la china inseguendo i resti del grillismo guidati “dall’avvocato del popolo”. Si giunge, per favorire un tale obiettivo, al punto di liquidare la stessa esperienza di governo dei democratici (i più solerti a farlo, quelli che di quei governi hanno ininterrottamente fatto parte). Colpisce che il Pd, senza reagire, abbia lasciato che la sconfitta politica del 25 settembre si trasformasse in disfatta e abbia accettato, senza fiatare, che la disfatta di 5Stelle, sette milioni in meno di voti, si trasformasse in una vittoria”. 

Mi sembra francamente difficile dare torto a Ranieri, o relegarlo -come si faceva nel Pci quando se ne contestavano i ragionamenti – al ruolo innocuo di cultore della filosofia, in cui a suo tempo si è laureato. Altro che filosofia. La rinuncia alla originaria vocazione maggioritaria contestata al Pd è un fatto incontrovertibile, non un espediente filosofico. Dirò anche quello che forse Ranieri ha sottaciuto per carità di partito o, magari, di rapporti personali con chi per primo disattese quella vocazione dopo averla proclamata nel 2007 fondando il Pd: Walter Veltroni. Che alle elezioni politiche dell’anno dopo, peraltro anticipate per il naufragio del secondo ed ultimo governo di Romano Prodi, rifiutò l’alleanza con i radicali di Marco Pannella preferendole quella con l’ltalia dei Valori bollati di Antonio Di Pietro. Cui per giunta concesse, dopo il voto, di mettersi in proprio nel nuovo Parlamento, contro l’impegno assunto di far parte dello stesso gruppo. Separati -si disse- si colpisce meglio il comune nemico, tornato ad essere il Berlusconi che invece nella campagna elettorale Veltroni non aveva neppure voluto chiamare per nome, parlandone come del leader del principale schieramento avverso, allo scopo proprio di non personalizzare lo scontro. 

I frutti di quella curiosa operazione nel Pd non tardarono a maturare con le dimissioni dello stesso Veltroni da segretario: la prima di una serie che non è finita. Poi toccherà -sono pronto a scommetterci sopra- al segretario di un eventuale Pd rifondato sulla o con la tentazione denunciata da Ranieri di “agganciarsi al carro grillino” di Conte. Che è in attesa di accordarsi col “nuovo gruppo dirigente” del Partito democratico reclamato dopo la propria, falsa vittoria del 25 settembre scorso. Che poi al governo sia andato non Conte, non la sinistra, non il centrosinistra ma il centrodestra, anzi il destra-centro col trattino di Giorgia Meloni è un accidenti che poteva capitare solo al “peggiore”, come Beppe Grillo, il garante del movimento guidato da Conte, ha deciso di definirsi nel titolo dei suoi nuovi spettacoli in programma da febbraio. 

A raccontarla sembra una commedia. E invece è la tragedia della sinistra italiana. Che  ha tuttavia radici lontane, come sa bene Umberto Ranieri. 

Pubblicato sul Dubbio

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Il saliscendi avventuroso di Ignazio La Russa sulla scala del Senato

Ignazio La Russa ha evidentemente deciso di vivere nel nodo più visibile possibile, e impossibile, cioè avventuroso almeno sul piano politico, la sua esperienza di presidente del Senato. O -come si aggiunge spesso sui giornali, ad opera di amici e avversari- di seconda carica dello Stato. Egli infatti è per Costituzione il supplente del presidente della Repubblica in caso di impedimento. 

Reduce dalla tribuna reale del teatro della Scala per la prima della nuova stagione lirica, dove ha raccolto la quota di applausi a lui spettante, stretto tra la figlia di Sergio Mattarella e la  esordiente presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in qualche modo definibile sua figlioccia politica, La Russa ha voluto approfittare di un raduno di alpini, sempre a Milano, per mettere in cantiere, diciamo così, un disegno di legge non ancora pervenutogli ma che, pur firmato da altri senatori amici, godrà delle sue simpatie, a dir poco. Esso, aggiornando, modificando e quant’altro una legge da lui stesso voluta quando era ministro della Difesa ma rimasta inapplicata non si sa per quale ragione, consentirà un servizio militare volontario di 40 giorni, anziché di tre settimane. Col quale gli interessati, oltre ad acquisire un rapido addestramento di valore pratico e morale, potranno guadagnarsi qualche vantaggio negli studi e nei concorsi pubblici. 

L’idea, la proposta, l’annuncio, chiamatelo come volete, ha avuto forse un successo mediatico inferiore alle aspettative del presidente del Senato e dei suoi collaboratori, essendo prevalentemente finita nelle pagine interne dei giornali, fatta eccezione per un titolo medio di prima pagina sul Tempo, un modesto richiamo sul Giornale e la solita “cattiveria” mattutina del Fatto Quotidiano. Più generosi sono stati i telegiornali.

Colto, in particolare, in flagranza di invasione di campo, quanto meno, o di fuori gioco, per il merito attribuitosi di “preparazione” del provvedimento, La Russa si è guadagnato questo salace e volgarotto commento del giornale di Marco Travaglio: “Càpita, quando non hai un cazzo da fare”. Cameratescamente, a dispetto delle preferenze politiche ostentate dal direttore del cattivissimo Fatto Quotidiano, ci può pure stare, per carità. E con la condivisione di quegli esponenti di sinistra affrettatisi a criticare il presidente del Senato, o a cadere “nel panico”, come ha scritto Il Giornale nel già modesto richiamo in prima pagina riferendo della reazione del Pd. 

Ciascuno ha naturalmente le sue preferenze, o visioni, sulle priorità del Paese, o sulle sue urgenze, anche nella cosiddetta sessione finanziaria dei lavori parlamentari, a meno di venti giorni dalla scadenza ultimativa per l’approvazione della legge di bilancio, evitando quel ricorso all’esercizio provvisorio che anche il presidente del Senato ha recentemente avvertito come una mezza sciagura.   Ciò che non riesco francamente a capire dell’attivismo, diciamo così, di un ormai vecchio e navigato parlamentare come Ignazio La Russa è la pratica, sostanziale sottovalutazione del ruolo conquistato a conclusione -posiamo ben dirlo senza volontà di dileggio- della sua lunga carriera politica. Che egli non si rende forse conto di immiserire ogni volta che scende lungo la scala percorsa in salita per alimentare le cronache o cronachette politiche: da un’incursione nella vicina sede nazionale del suo partito mentre si svolgono eventi non pertinenti al proprio ruolo istituzionale, alla intestazione a dr poco imprudente di disegni di legge altrui, come quello sulla naja volontaria di 40 giorni. A giustificare la quale il portavoce di La Russa ha detto sul serio, senza ridere, che in fondo si tratta di “una proposta di legge che stava per essere presentata da un gruppo di senatori di centrodestra quando si interruppe improvvisamente la legislatura”: quella scorsa, naturalmente. 

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I trucchi del mestiere di screditare e destabilizzare le istituzioni, ora anche quelle europee

Anche a costo di scandalizzarvi, e nonostante la mobilitazione mediatica alla quale si è sottratta solo la prima pagina di Avvenire, che almeno oggi ha ignorato l’argomento, vi dirò che più dell’Europa investita dalla corruzione -secondo la generalità dei giornali con i loro titoli a caratteri più o meno da scatola, a cominciare dall’”Eucorruzione” di Repubblica e dalla “Tangentopoli d’Europa” della Stampa- mi ha colpito la dabbenaggine del grande corruttore che sarebbe il Qatar. 

Il “Qataritangenti” che ha fatto brillare la fantasia del manifesto mi sembra, gratta gratta, un colossale infortunio dell’Emirato appunto del Medio Oriente. Che ha scambiato per l’Europa, e il suo Parlamento, una famiglia -non di più, almeno per le notizie sinora emerse dalle indagini belghe- di inconsistente rilevanza politica capeggiata dall’italiano -ahimè- Pier Antonio Panzeri, e allargatasi in qualche modo alla vice presidente greca dell’assemblea di Strasburgo, Eva Kaili. Che molto generosamente La Verità di Maurizio Belpietro ha promosso, come in un concorso di bellezza, a “star della sinistra”. O del’”eurosinistra in pezzi”, come ha titolato Il Giornale. 

Via, chi ha sentito davvero nominare prima di questa faccenda il Panzeri, i suoi familiari e collaboratori e la Kaili? E che razza di “sacchi” e “valigie” di contanti possono essere stati trovati, rimossi, sequestrati, svuotati e verificati nella loro consistenza, secondo le cronache, se complessivamente contenevano seicentomila euro? Evidentemente di piccolo, piccolissimo, misero taglio: da cinque, dieci, venti euro a pacchetto.  E questo denaro, più quello volatilizzato in viaggi e vacanze a gratis, come si dice a Roma, è stato corrisposto come “tangenti” rispetto a quali affari specifici, economici o politici, passati evidentemente per qualche atto del Parlamento europeo? Me lo chiedo conoscendo bene, dai tempi per niente mitici di “Mani pulite” a Milano, il carattere aleatorio di certe cronache  giudiziarie pilotate nei fatti dalle procure di turno con una disinvoltura talmente diffusasi da essere appena finita in una clamorosa denuncia del ministro della Giustizia Carlo Nordio.

Ci andrei piano, insomma, a parlare e a scrivere di “istituzioni sconfitte”, come hanno fatto i giornali del gruppo Riffeser Monti alludendo al loro carattere europeo, sotto il peso del “potere e denaro”. C’è soltanto uno, o più di tutti uno, nel mondo ad avere interesse a immaginare e rappresentare così l’Europa. E’ quel successore di Stalin che ha deciso di essere al Cremlino Vladimir Putin invadendo, saccheggiando, devastando, insanguinando, affamando l’Ucraina, che sta resistendo con un coraggio imprevisto a Mosca e sostenuto dall’Occidente. 

Pazienza se, ignorando tutto questo, a dir poco, e strumentalizzando come al solito le cronache giudiziarie, uno come Marco Travaglio scrive sul Fatto Quotidiano che “la sinistra affarista e furbastra” è ora in Europa “nuda come mamma l’ha fatta”, e come finirebbe probabilmente di essere solo se si mettesse agli ordini e al seguito dell’italiano Giuseppe Conte, impegnato in questi giorni a svuotare il Pd. A proposito del quale Travaglio, sempre lui, scrive: “Chissà se, di qui al congresso, almeno uno dei candidati o degli 87 saggi spenderà due parole o due righe su un dettagliuccio rimosso da oltre 40 anni: la questione morale”. Pazienza, ripeto. Fa parte del repertorio. Ma che ci caschino, realizzando un gioco di sponda,  pure quotidiani d’area cosiddetta moderata come Il Giornale e la Verità è avvilente.

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Renzi spiazza Calenda assaltando il governo col ritrovato amico Franceschini

Miracolo, a quanto pare, al Nazareno proprio mentre sul Corriere della Sera Antonio Polito annuncia che “il Pd si considera già sciolto”, tanto da impegnarsi in un dibattito su come chiamare quello che gli succederà. Partito Democratico del Lavoro con la sigla Padel o Pdl, che fu a suo tempo scelta da Silvio Berlusconi, nel centrodestra, per il Partito delle Libertà, al plurale, infelicemente improvvisato com Gianfranco Fini? 

Matteo Renzi, pur notoriamente impegnato a costruire con Carlo Calenda una “federazione” terzopolista, ha di colpo azzerato tutte le aperture del suo socio alla manovra finanziaria del governo di Giorgia Meloni all’esame del Parlamento per condurre col Pd una battaglia anche “ostruzionistica” contro l’abolizione del bonus cultura di 500 euro ai diciottenni. Che con un emendamento è stata progettata dalla maggioranza di centrodestra per destinare sempre alla cultura, ma in altro modo, qualcosa come 230 milioni di euro l’anno. 

Renzi ha improvvisamente ricostituito col suo ex collega di partito Dario Franceschini l’asse del 2016, quando istituirono insieme il bonus: lui da presidente del Consiglio e l’altro da ministro dei beni culturali. Si tolga quindi dalla testa la presidente del Consiglio di eliminare o solo trasformare un bonus -sostengono all’unisono i due amici ritrovati- copiato in Europa da Francia, Spagna e altri paesi. Una simile ostinazione, visti i tempi anche quest’anno strettissimi per l’approvazione della legge di bilancio, potrebbe così tanto rallentarne il percorso parlamentare da rendere inevitabile il ricorso all’esercizio provvisorio. Che, per quanto previsto dalla Costituzione, è generalmente considerato una disgrazia. Contro la quale si è già levata la voce del presidente del Senato Ignazio La Russa invocando lo spirito unitario da lui stesso appena avvertito, accanto al capo dello Stato, nel palco reale della Scala, a Milano, nell’apertura della nuova stagione teatrale. 

Pur di difendere il bonus ai diciottenni, indigenti ma anche ricchi, senza distinzione di reddito delle loro famiglie perché -come ha chiesto Stefano Rolli nella vignetta del Secolo XIX- per un giovane “a che serve essere povero se non sei anche ignorante?”;  pur di difendere, dicevo, questo bonus Renzi si è dimenticato di avere promesso il giorno prima sostegno pressoché incondizionato al governo  Meloni per la riforma della giustizia anticipata alle competenti commissioni parlamentari dal guardasigilli Carlo Nordio. Al quale, compiaciuto, si erano talmente allargate le orecchie, nell’ascolto, da scatenare ieri la fantasia dileggiante del Fatto Quotidiano in una vignetta di dichiarata “satira difensiva”, dominata da un NO gigantesco ricavato con le prime due lettere del nome del ministro. Un NO evocativo -ahimè- anche di quello gridato, purtroppo con successo, nella campagna referendaria del 2016 sulla riforma costituzionale intestatasi orgogliosamente da Renzi nella doppia veste di presidente del Consiglio e di segretario del Pd. 

Benedett’uomo, non vorrei che per il senatore di Scandicci diventasse un’abitudine quella di impiccarsi politicamente da solo, trascinandosi appresso i malcapitati amici di turno.  

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Uno scambio di prigionieri rivelatore delle bugie e del cinismo di Putin

Senza volere minimizzare altre nefandezze, a cominciare da quella efficacemente denunciata dal manifesto con i cappi iraniani in prima pagina a corredo del titolo “Boia chi mullah”, penso che meriti una segnalazione, e adeguata riflessione, lo scambio di prigionieri appena avvenuto a Dubai fra russi e americani. Esso mette a nudo la spregiudicatezza di Putin e di quanti lo assecondano in Occidente rappresentando quella in Ucraina come una guerra per procura condotta dagli americani contro i russi per assecondare la produzione e il commercio delle armi destinate ai resistenti all’aggressione. Ebbene, lo scambio a Dubai -non il primo della guerra fredda ripresa fra la Russia e gli Stati Uniti dopo il crollo del muro di Berlino- è avvenuto fra una cestista americana restituita dai russi a Biden e un trafficante d’armi consegnato, restituito o quant’altro dagli Stati Uniti, che lo avevano imprigionato, a un Putin del quale si può quanto meno dire che lo avesse in simpatia, o comunque fosse interessato a farlo liberare. 

Le dimensioni umane e politiche fra i due prigionieri sono ben descritte e sintetizzate in questo modo dal Foglio in prima pagina: “Gli americani hanno riportato a casa la cestista Brittney Griner e i russi Viktor Bout, il trafficante d’armi più famoso del mondo, a lungo al secondo posto nella lista delle persone più ricercate dagli Stati Uniti, quando al primo c’era Osama bin Laden, il capo di al Quaeda che nel 2001 organizzò gli attentati contro New York e contro il Pentagono. Griner era stata arrestata e condannata a nove anni da trascorrere in una colonia penale per le cartucce della sigaretta elettronica all’olio di cannabis trovato nel suo bagaglio a Mosca”. L’accusa naturalmente era stata di contrabbando di droga, come se l’icona gay del basket americano occultasse lo spaccio dietro la sua attività atletica. 

Con le sue bugie, personali o di sistema, sul traffico di droga e d’armi Putin meriterebbe quanto meno nelle vignette un naso come quello di Pinocchio. Altrettanto i suoi sostenitori, ripeto, in Occidente. Dove stiamo sprecando il nostro tempo a decrittare dietro le parole e le mosse vaganti al Cremlino tempi e modi di una disponibilità, finalmente, del successore di Stalin -altro che Pietro il Grande- a cessare il fuoco, sul quale ieri ha pianto a Roma il Papa sotto la statua della Madonna in Piazza di Spagna, e a trattare davvero la pace in Ucraina, anche contro gli interessi del “suo” Viktor Bout.

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