Un pò dimesso ma bugiardo il Putin dell’attesa parata del 9 maggio a Mosca

Immagine da Mosca
Titolo della Stampa

Con quella coperta sulle gambe e con quella falce e martello esibiti tra i carri armati e le truppe della malaparata -in una sola o doppia parola scelta, rispettivamente, dal manifesto e dalla Stampa- Putin sembrava proprio ricongiungersi ieri sulla piazza rossa alla scenografia sovietica di 77 anni fa, alla conclusione della seconda guerra mondiale, e anni successivi. Il tempo è tornato indietro per lui in tutti i sensi, anche nell’abitudine sovietica di aggredire e invadere i vicini, o confinanti, con operazioni speciali da non confondere, per carità, con guerre totali o globali, come lo stesso Putin ha voluto precisare in un discorso rivelatosi diverso da quello atteso o preannunciato da cremlinologi ormai in stato confusionale. 

Titolo della Verità

Proprio per questa diversità il discorso di Putin ha rassicurato in Italia un pò di gente sia a sinistra sia a destra, dove si è distinta la ormai solita Verità di Maurizio Belpietro con quel titolo contro la “stampa guerriera” spiazzata dal presidente russo. 

La vignetta del Corriere della Sera

Ma più che per il tono in un certo senso dimesso, comunque contraddetto dalle bombe e dai missili caduti anche ieri sull’Ucraina, non risparmiata del resto con una tregua  neppure nella giornata recente della Pasqua ortodossa, il discorso di Putin va valutato per le bugie nel tentativo di giustificare l’aggressione ai vicini, decisa -ha avuto il coraggio di dire- per “prevenire” un attacco che alla Russia stava predisponendo la Nato con la complicità di quel “nazista” dei tempi nostri che sarebbe il presidente ucraino Zelensky.  E che potrebbe ben essere quel gatto nero, immaginato e proposto da Emilio Giannelli nella vignetta di prima pagina del Corriere della Sera, che attraversa la piazza rossa tagliando la strada alla parata militare. 

La Nato era talmente impegnata a preparare un attacco alla Russia, o solo ad accerchiarla, o ad abbaiarle contro, secondo la valutazione di Papa Francesco che forse Putin non ha citato solo per riguardo al concorrente Patriarca di Mosca, che lo sta tanto affiancando nella sua “operazione speciale”; la Nato, dicevo, era talmente impegnata a preparare un attacco alla Russia che quando Putin ha scatenato truppe e missili contro l’Ucraina la prima offerta fatta a Zelenski da quella parte è stata quella di fuggire perché l’aggressione potesse esaurirsi il più rapidamente possibile secondo i piani russi. 

E’ stato solo dopo e a causa del rifiuto di Zelensky di scappare, ben protetto in Occidente, e della decisione invece di resistere con forza agli invasori che la Nato si è industrializzata a fornire al presidente ucraino gli aiuti militari richiesti per difendersi e contrattare. Di che cosa dunque ha parlato Putin nella piazza rossa? Ha detto bugie,  ripeto, tra i volti spettrali dei generali che gli stavano alle spalle, consapevoli di quante perdite avessero dovuto subire in due mesi e più di guerra occultata come operazione speciale quasi di polizia, potendo contare sulla disinformazione di un pubblico, fisico o virtuale, in piazza o in casa ad ascoltare la radio o a vedere la televisione: una disinformazione garantita al solito modo, mettendo in galera chiunque voglia o cerchi di sapere di più e di meglio, anche scendendo per strada a protestare. O occultando ai familiari la notizia della morte dei ragazzi mandati al fronte.

Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano

Per scherzo, di certo, ma tradendo ancora una volta l’ossessione di cui soffre, politica e forse anche fisica, con gli occhi forse chiusi ad ascoltare i resoconti della parata da Mosca, il direttore del Fatto Quotidiano ha immaginato Putin con una cravatta al collo di quelle regalategli negli anni d’oro della loro amicizia da Silvio Berlusconi, dedicando all’uno e all’altro la “cattiveria” di giornata della prima pagina. Sarà stata forse offerta da Biden, nella immaginazione ossessionata di Travaglio, anche la cravatta che Draghi oggi ha scelto di indossare andandolo a trovare alla Casa Bianca. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it 

I 44 anni dalla morte di Moro sembrano più di 100, tanto è cambiata la politica

Il ritrovamento del cadavere dello statista democristiano ucciso dai brigatisti rossi il 9 maggio 1978

Anche nel quarantaquattresimo anniversario della sua tragica morte – ancora più tragica, come vedremo, di quanto molti hanno a lungo ritenuto credendo alle bugie dei brigatisi rossi che lo avevano assassinato il 9 maggio 1978- si è provato da qualche parte a immaginare come Aldo Moro avrebbe reagito ai problemi e alle emergenze dei nostri tempi: lui che di emergenze aveva gestito da regista della Dc quella del 1976. Che era stata di ordine economico, politico e di sicurezza per il fenomeno del terrorismo, nero e poi anche rosso, affacciatosi in Italia con la strage di Piazza Fontana nel 1969. 

Marco Follini al TPI
Titolo del Dubbio

L’ex senatore Marco Follini, già vice presidente del Consiglio con Silvio Berlusconi in sofferenza reciproca, durata peraltro meno di sei mesi, fra il 2 dicembre 2004 e il 15 aprile 2005, un democristiano doc che su Moro ha scritto recentemente un saggio toccante, non ha certamente avuto torto a rispondere così pochi giorni fa, in una intervista a chi gli chiedeva che cosa rimanesse oggi del leader da lui conosciuto e molto apprezzato: “Moro sarebbe fortemente a disagio perché tutta la sua costruzione politica era legata a un’idea che oggi non ha più libero corso in questo Paese. Moro era consapevole che la democrazia è il dialogo con gli altri e non il mettersi davanti allo specchio per mostrare i muscoli. Come dico nel mio libro, dal suo punto di vista la politica non era mai un evento. Era un processo. Era un arabesco, non una freccia”. Una freccia a dir poco, aggiungerei pensando all’immagine di “sangue e merda” coniata tanti anni fa dall’ex ministro socialista Rino Fornica. 

Abituato a reagire alle più feroci critiche di volta in volta espresse nei suoi riguardi su qualche giornale ostile al centrosinistra -da lui perseguito da segretario della Dc e infine realizzato in modo organico da presidente del Consiglio nel 1963- chiedendo al suo fidato portavoce Corrado Guerzoni di fare escludere il feroce giornale di turno dalla “mazzetta” dei quotidiani che gli veniva recapitata a casa di prima mattina, Moro avrebbe finito oggi, in qualsiasi postazione politica o istituzionale gli fosse capitato di trovarsi, senza più giornali da sfogliare.

Nonostante la circostanza reale ricordata da Follini di un uomo che “non amava gli americani” ricambiato, ma “a Washington con un punto di ostilità in più”,  risultatagli forse fatale nella drammatica prigionia nell’appartamento in cui i sequestratori lo tennero rinchiuso prima di ucciderlo, mi permetto di presumere che Moro non avrebbe risparmiato oggi agli americani la “comprensione” ripetutamente espressa loro da presidente del Consiglio all’epoca della guerra in Vietnam. Che russi e cinesi da una parte e americani dall’altra, ma questi ultimi direttamente, con tanto di truppe al Sud e bombardamenti al Nord, condussero a lungo: altro che l’Ucraina di oggi, dove di truppe straniere ci sono solo quelle russe di invasione e occupazione contrastate dagli aggrediti con aiuti anche militari degli Stati Uniti e altri paesi occidentali. Fra i quali c’è l’Italia di Sergio Mattarella al Quirinale, moroteo come il padre Bernardo e il fratello Piersanti, e del tecnico Mario Draghi a Palazzo Chigi, forte più del prestigio internazionale guadagnatosi soprattutto alla presidenza della Banca Centrale Europea che di un’appartenenza politica, per quanto configurabile come un liberalsocialista decisamente atlantista.

Vi avevo promesso all’inizio di rivelarvi le circostanze della morte di Moro ancora più tragiche di quelle emerse dalle bugie dei suoi assassini. Che dissero di averlo trattato con rispetto anche nella morte,  affascinati a loro modo dalla personalità che avevano sequestrato sterminandone la scorta solo per esigenze, diciamo così, di lavoro. 

Giuseppe Fioroni al TPI

Leggete qui ciò che delle modalità della morte dell’ostaggio accertate dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta ha recentemente raccontato  l’ex ministro del Pd Giuseppe Fioroni, che l’ha presieduta: “Abbiamo stabilito una dinamica più precisa di quella esecuzione”. Non un colpo di grazia? chiede l’intervistatore in base al racconto appunto dei brigatisti rossi. “Al contrario. Colpi al cuore e al corpo, sparati con perizia perché non morisse”, rivela Fioroni concludendo: “Moro è morto dissanguato dopo un’agonia. Volevano che soffrisse”, più ancora degli agenti della scorta freddati 55 giorni prima nella mattanza di via Fani, a Roma. 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it

Ognuno esibisce quello che ha nella dannata guerra in Ucraina

In questi giorni di guerra feroce in Ucraina, per quanto considerata da qualcuno “per procura” nel caso proprio dell’Ucraina, che sarebbe manovrata di notte dalla Casa Bianca e di giorno dalla Nato, o viceversa, come preferite, Putin e Zelenzky esibiscono ciascuno quello che ha per festeggiare i 77 anni trascorsi dalla vittoria dei loro paesi, allora uniti sovieticamente, sui nazisti che avevano cominciato la seconda guerra mondiale in alleanza con Stalin  per spartirsi la Polonia, e poi proseguita contro la Russia.

Zelensky a Kiev
Parata a Mosca

A Mosca Putin esibisce le sue truppe e i suoi armamenti nella parata tradizionale davanti al Cremlino dando dei nazisti agli ucraini che non hanno salutato come liberatori i russi mandati il 24 febbraio scorso ad occuparne il territorio, incautamente sicuri di una “operazione” tanto “speciale” quanto rapida, di eliminazione anche fisica del presidente democraticamente eletto nel 2019 con più del 70 per cento dei voti: Zelensky, appunto, un comico felicemente trasformatosi in leader internazionale, diversamente da altri che in Italia stiamo ancora sperimentando. 

L’intervista di Enrico Letta al Corriere della Sera
Il concerto di Bono Vox nella metropolitana di Kiev

In Ucraina questo leader combattente e coraggioso, rifiutatosi di scappare per un esilio disonorevole, esibisce quello che ha e che non è meno importante, forse ancora più efficace, delle truppe e dei missili mostrati nella Piazza Rossa: l’ottimismo e voglia di vivere liberamente della sua gente e l’amicizia degli americani e dei loro alleati. La prima, la voglia cioè di vivere liberamente, si vede nelle immagini del concerto improvvisato da Bono Vox e gli U2 in una stazione della metropolitana di Kiev. La seconda, l’amicizia e il sostegno degli americani, si trova nella foto dell’incontro, in terra ucraina, fra le mogli di Biden e di Zelensky, svoltosi quasi in coincidenza con il G7 a distanza cui hanno partecipato i loro mariti. E  che si è concluso col proposito generale di non far vincere la guerra a Putin semplicemente perché l’Ucraina ormai è da considerarsi europea. Lo ha detto come più chiaramente non poteva in Italia il segretario del Pd Enrico Letta in una intervista al Corriere della Sera così titolata, fra virgolette, nel richiamo in prima pagina: “L’Ucraina è Europa: tocca a noi costringere il Cremlino alla pace”, sino ad ora rifiutata da Putin scommettendo sulla incapacità di tenuta dell’Europa e, più in generale, dell’Occidente. 

Mario Draghi

Il presidente del Consiglio Mario Draghi domani incontrerà il presidente americano esattamente sulla linea esposta, anzi condivisa da Enrico Letta, anche se ogni tanto si levano pure dal Pd voci di dissenso o di allarme, come quella dell’ex capogruppo alla Camera Graziano Delrio trionfalmente salutata da altri partiti o leader critici della maggioranza: da Giuseppe Conte, il presidente del MoVimento 5 Stelle, a Matteo Salvini, il capo della Lega, ritrovatisi quasi insieme dopo la clamorosa rottura del 2019.

Giuseppe Conte e Luigi Di Maio
Titolo del Fatto Quotidiano

Eravamo abituati sino a ieri a registrare con riserve la posizione polemica di Conte, che da Draghi voleva addirittura che non andasse negli Stati Unti ad “obbedire”, secondo il titolo del solito Fatto Quotidiano, senza passare prima per un dibattito parlamentare ed essere magari bloccato. Le riserve nascevano dalla ben diversa posizione del ministro degli Esteri grillino Luigi Di Maio, che nel MoVimento è amico di Conte come sapevano esserlo fra di loro i democristiani delle stagioni più rissose della cosiddetta prima Repubblica. Ma va registrata la novità di un Di Maio che si è unito a quanti nella maggioranza sostengono che con le armi ricevute dagli occidentali gli ucraini non possano né debbano colpire territori della Russia, neppure quelli da cui partono i missili che devastano ulteriormente il Paese di Zelensky. Ciò significherebbe aiutare gli ucraini solo a soccombere il più tardi e sanguinosamente possibile, non certo a vincere. 

Ripreso da http://www.policymakrmag.it

Sorpresa: Putin ha difficoltà nella guerra all’Ucraina ma seduce un pò il Corriere

Con tutta la prudenza, per carità, imposta dall’astuta mobilità dell’editore cartaceo e televisivo Urbano Cairo, è quanto meno curioso che alla vigilia della missione di Mario Draghi negli Stati Uniti -da qualcuno paragonata a quella storica di Alcide De Gasperi nel 1947, propedeutica a scelte atlantiste tali da tradursi subito nella rottura della collaborazione di governo della Dc con i comunisti e i socialisti già incamminati sulla strada del fronte popolare, sconfitto nelle elezioni dell’anno dopo-  il Corriere della Sera abbia deciso di manifestare oggi tutta la sua preoccupazione, e disapprovazione, che si torni indietro di 75 anni. E le elezioni italiane dell’anno prossimo si possano svolgere con la paura dei cosacchi a Roma, non solo in Ucraina, e un degasperiano Draghi deciso, costretto e quant’altro a scontrarsi, ma questa volta forse perdente, con uno schieramento sostanzialmente favorevole alla Russia di Putin. Il quale, partito con l’ambizione di imitare Pietro il Grande, sta miseramente ripercorrendo la strada di Stalin e dei successori sovietici.

Dall’editoriale di Antonio Polito
Titolo dell’editoriale del Corriere della Sera

“Fattore Z”, come la lettera scelta da Putin per contrassegnare la sua guerra all’Ucraina, “e coalizioni alla prova”, è il titolo dell’editoriale di Antonio Polito dedicato sul più diffuso giornale nazionale agli “scenari italiani”. “Senza il piano Marshall e senza Pio XII”, ma con Papa Francesco in Vaticano, poco o per niente convinto degli aiuti anche militari che l’Occidente sta fornendo agli ucraini aggrediti, “non è neanche detto -ha scritto Polito- che finirebbe allo stesso modo” del 1948 una “regressione” allo scontro tra sostenitori e avversari dell’uomo di turno seduto al Cremlino. 

Il fotomontaggio del Fatto Quotidiano
Dalla prima pagina del Corriere

Una mano alla paura, preoccupazione e quant’altro di un Corriere insolitamente allineato a quella specie di coppia gialloverde di Giuseppe Conte e Matteo Salvini, sostanzialmente ricostituitasi nella vasta maggioranza realizzatasi attorno a Draghi per una somma di emergenze, l’ha data l’ebreo, come il presidente ucraino Zelensky, e solitamente atlantista Carlo De Benedetti. Che, pur disponendo di nuovo di un suo giornale, il quotidiano Domani, dopo avere perduto la Repubblica  per colpa dei figli, ha preferito affidare in una intervista proprio al Corriere un messaggio  al presidente americano Biden, a Draghi e quant’altri che meglio non poteva essere riassunto in questo richiamo in prima pagina: “La guerra a Putin? Non è interesse di noi europei”. Che dovremmo quindi riconoscerci con Conte, e il suo aedo Marco Travaglio, nel fotomontaggio copertina del Fatto Quotidiano di oggi contro Biden e il segretario generale della Nato che imbavagliano Zelensky: colpevole di essersi mostrato disposto a rinunciare alla già perduta Crimea nella speranza, o illusione, di fare trasferire Putin dal tavolo di comando della guerra scatenata contro l’Ucraina a quello delle trattative diplomatiche per chiuderla.  

E’ uno strano destino politico, direi, anche quello dell’editore De Benedetti. Che pure solo qualche mese fa, riconoscendo i limiti del suo nuovo giornale, aveva confidato a Lilli Gruber, che ogni tanto lo invita nel salotto televisivo dell’editore Cairo, che il quotidiano preferibile per una informazione quotidiana più completa fosse La Stampa, oggi schierata contro Putin assai più chiaramente e convintamente del Corriere.  Cui  egli ha quindi preferito ora affidare, ripeto, le sue opinioni o i suoi umori sulla guerra che per “procura” americana starebbero conducendo gli ucraini per salvare la loro pelle, dopo avere in parecchi già perduto la casa e i campi. Dove non cresce più il grano cadendovi i missili e altri ordigni russi di fuoco.  

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I fumi che preoccupano Grillo non sono quelli dell’Ucraina, ma degli inceneritori dei rifiuti

I fumi che ossessionano Beppe Grillo, il garante e ora anche consulente remunerato del MoVimento 5 Stelle presieduto da Giuseppe Conte, non sono quelli che si levano in Ucraina sulle case, sugli edifici pubblici, sui ponti, sulle strade distrutte dai missili o dalle truppe russe d’invasione, ma quelli degli inceneritori ai quali sta pensando il sindaco di Roma Roberto Gualtieri per liberare la città dalle immondizie lasciategli in eredità dalla pentastellata Virginia Raggi. 

Dal blog di Beppe Grillo

Sono gli inceneritori a dispetto della cui realizzazione, incoraggiata dal governo, Conte ha ordinato ai ministri del suo ormai sostanziale partito di non votare il decreto degli aiuti per più di 14 miliardi di euro disposti a favore dei più bisognosi colpiti dagli effetti economici della guerra scatenata da Putin in Ucraina. “Bruciare rifiuti -dice il titolo del principale articolo del blog personale di Grillo, ora a disposizione ben pagata dal suo MoVimento- è la negazione dell’economia circolare”, in attesa o in contemplazione della quale a Roma i cinghiali sono diventati di casa per le immondizie a loro disposizione in ogni zona, anche centrale, della città. 

Giuseppe Conte

E’ una forza di governo, pur appestata dalla monnezza, come si dice appunto a Roma, quella che Grillo si vanta di avere portato in Parlamento e che ancora reclama di imporre la sua “centralità” in una legislatura proseguita solo grazie alle urgenze via via sopraggiunte alla formazione del primo governo Conte: le emergenze sanitarie, economiche e sociali evocate l’anno scorso dal presidente della Repubblica per mandare a Palazzo Chigi Mario Draghi, anziché chiamare gli italiani anticipatamente alle urne, cui si è aggiunta ora l’emergenza bellica. Nella quale siamo coinvolti con gli aiuti militari all’Ucraina autorizzati in aprile fino a dicembre dal Parlamento con un voto quasi unanime forse sfuggito all’attenzione dell’ex presidente pentastellato del Consiglio. Il cui quasi partito, pur rappresentato al Ministero degli Esteri da Luigi Di Maio, lamenta di non essere sufficientemente informato di ciò che il governo fa e spedisce all’Ucraina di notte e di giorno, come altri paesi, per non farla soccombere all’assalto di Putin. 

Eppure questa è roba ragionevolmente secretata in tutte le forme dovute e consentite dalla Costituzione, per cui è semplicemente insensato che si reclami di parlarne in aula a Montecitorio o a Palazzo Madama, in un apposito dibattito pubblico utile, con tanto di mozioni finali da mettere ai voti, anche per legare mani e piedi al presidente del Consiglio nella missione imminente negli Stati Uniti. Dove egli incontrerà il 10 maggio il presidente Joe Biden, impegnato ormai ogni giorno a incitare gli alleati a sostenere in tutti i modi, e fino in fondo, l’Ucraina aggredita. 

Alla fine Draghi, coperto da una posizione  ferma del Quirinale frequentemente ribadita dal presidente Mattarella, è sbottato. E ha fatto informare i giornali, tra la “delusione” espressa da Conte, che del viaggio negli Stati Uniti e della guerra, più in generale, risponderà nella seduta della Camera del 19 maggio destinata alle interrogazioni rapide: il famoso question time.

Titolo del Foglio

Ormai l’insofferenza fra i due -Draghi e Conte- non potrebbe essere più evidente. E pare – stando almeno alle informazioni del Foglio- che al Quirinale non abbiano intenzione di incoraggiare tentazioni dello stesso Draghi di accorciare per questo la legislatura. Anzi, Mattarella vorrebbe portarla avanti raschiandone il barile, cioè mandandoci alle urne a maggio dell’anno prossimo, pur essendosi votato il 4 marzo per il precedente rinnovo delle Camere, nel 2018. Altri rospi evidentemente dovrà rassegnarsi a ingoiare la coppia, ora, di Conte e Grillo, in ordine rigorosamente alfabetico. 

Se i magistrati non si fidano neppure di se stessi nel giudicare il loro lavoro

Titolo del Dubbio

Tra dichiarazioni critiche di singoli magistrati, documenti con più firme e tazebao affissi o circolanti nei tribunali in vista dello sciopero fissato per il 16 maggio contro la riforma pur parziale della giustizia, approvata dalla Camera e all’esame del Senato, sta letteralmente scoppiando il problema della scarsa rappresentatività dell’associazione o sindacato di categoria. Che pur vanta più di novemila iscritti su meno di diecimila   magistrati operanti in Italia: ma iscritti sulla carta, perché in realtà a prendere le decisioni è una minoranza del 15 per cento. Lo abbiamo già rilevato a proposito dei 1400 partecipanti all’assemblea generale del 30 aprile all’Angelicum, dove votarono per lo sciopero in poco più di mille.

I dirigenti dell’associazione hanno incautamente ritenuto di emendarsi da ogni colpa o responsabilità nella gestione correntizia della categoria espellendo l’ex segretario Luca Palamara, colto con le mani nel sacco, diciamo così, nella pratica delle trattative da sottogoverno per promozioni e destinazioni da deliberare formalmente nel Consiglio Superiore della Magistratura. Lo hanno espulso – prima ancora che Palamara finisse davvero sotto processo in tribunale- come se quel modo balordo di gestire promozioni e incarichi, a grappoli o singoli, lo avesse inventato lui, e non lo avesse invece ereditato dai colleghi che lo avevano praticato con la stessa disinvoltura, a dir poco.

Tutti i nodi prima o dopo vengono al pettine. Esso potrebbe rivelarsi, per le polemiche interne che lo stanno distinguendo, proprio lo sciopero del 16 maggio, indetto in fondo contro gli stessi magistrati. Che non si fidano neppure di se stessi, come li ha giustamente accusati l’avvocato Gian Domenico Caiazza commentando le reazioni dell’associazione contro i fascicoli dove si potranno finalmente trovare  i veri contenuti delle prestazioni delle toghe, di cui tener conto nella prosecuzione delle loro carriere, sempre dipendenti dal Consiglio Superiore.

Pubblicato sul Dubbio

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Le scuse opportunistiche di Putin agli ebrei non lo fermano nella guerra

Sarebbe davvero da sprovveduti scambiare per resipiscenza, o recupero sia pure momentaneo di buon gusto e buon senso, la telefonata con la quale Putin si è scusato col premier israeliano per la sortita del ministro degli Esteri russo sulle presunte origini ebraiche di Hitler, da abbinare all’ebreo e odiato -a Mosca- presidente dell’Ucraina Zelensky. 

Titolo del manifesto
Il fotomontaggio del Fatto Quotidiano contro Draghi e Guerini

Non di resipiscenza, buon gusto, buon senso e simili si è trattato ma solo di opportunismo, essendosi rapidamente diffusa la notizia della tentazione d’Israele, dopo l’improntitudine del ministro degli Esteri russo, di non continuare a restare praticamente alla finestra ma di unirsi agli occidentali negli aiuti militari all’Ucraina. E gli israeliani -a Mosca lo sanno bene già dai tempi sovietici- in materia di armi e addestramento hanno imparato ad essere bravissimi per l’eterna condizione di allarme, e spesso anche di guerra, in cui vivono sin dalla nascita del loro Stato. Non sono certamente quella coppia italiana di Mario Draghi  e Lorenzo Guerini, presidente del Consiglio e ministro della Difesa, immaginata nel fotomontaggio del solito Fatto Quotidiano su un carro armato agli ordini del presidente americano Joe Biden nella guerra “per procura” – dicono i pacifisti- che gli ucraini sono riusciti ad opporre a quella cominciata da Putin contro di loro senza neppure dichiararla. E che prosegue imperterrita a “Martiriupol”, come ha titolato il manifesto, e altrove  per amputare, quanto meno, un Paese che originariamente Putin voleva annettersi completamente, allarmato da una Nato che “abbaiava”, secondo un’espressione adoperata da Papa Francesco e scambiata per  un sostegno al Cremlino. Il Pontefice l’aveva usata invece per sottolineare e denunciare la sproporzione, diciamo così, della reazione di Putin, cioè l’insensatezza e la gravità dell’aggressione, invasione e quant’altro di un’Ucraina colpevole solo di essere confinante con la Russia e troppo attratta dall’Europa e, più in generale, dall’Occidente. 

Il Papa convalescente dopo l’intervento al ginocchio
La vignetta del Corriere della Sera

Sui rapporti fra Putin e il Papa, o viceversa, è divertente la vignetta di prima pagina del Corriere della Sera, in cui Emilio Giannelli strappa Francesco dalla sedia a rotelle sulla quale è costretto in questi giorni per il suo ginocchio e lo fa saltare sulla schiena di un curvo Patriarca di Mosca per gridare “pace” in faccia a un Putin quasi napoleonico. L’unico errore che si può contestare a Giannelli è il titolo al singolare che ha voluto usare, o forse hanno usato quelli della redazione del giornale: “Putin e la Chiesa”. Nel nostro caso sono due le Chiese: quella ortodossa di Kirill, supina al Cremlino o addirittura istigatrice, e quella cattolica romana e universale di Francesco. 

Due parole, infine, sull’altra guerra, per fortuna tutta politica, prodotta da Putin stavolta in Italia. Dove la maggioranza di governo, già indebolita di suo da una doppia campagna elettorale in corso, per le amministrative di giugno e per quelle generali dell’anno prossimo, salvo anticipo, è a pezzi  anche o soprattutto per la linea fortemente atlantista adottata da Draghi di fronte al conflitto in Ucraina: un Draghi peraltro che, avendo ottenuto dal Parlamento quasi all’unanimità, l’autorizzazione ad aiuti “anche militari” a Zelensky fino a dicembre, non si sente obbligato a ripresentarsi alle Camere, come invece gli chiede un giorno sì e l’altro pure il grillino Giuseppe Conte, spalleggiato spesso più o meno apertamente dal leghista Matteo Salvini. 

Titolo della Stampa
Titolo di Repubblica

Due titoli giornalistici danno bene l’idea della situazione. Uno è quello di Repubblica su un commento di Francesco Bei: “Una danza tribale intorno al premier”. L’altro è quello della Stampa su un commento dell’ex direttore Marcello Sorgi: “Ma adesso Conte non tiri la corda”. Che potrebbe spezzarsi più rovinosamente per lui che per Draghi, col quale è perfettamente allineato il ministro grillino degli Esteri Luigi Di Maio. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Ora è guerra anche fra i Papi pur disarmati di Mosca e di Roma.

L’ambasciatore russo in Vaticano Alexandr Avdev
Kirill e Francesco ai bei tempi ecumenici

Si è dunque chiuso rapidamente lo spiraglio aperto dall’ambasciatore russo presso il Vaticano, Alexandr Avdev, sulla proposta di Papa Francesco di un incontro al Cremlino con Putin per cercare di fermare la guerra in Ucraina. Qualcuno dal Ministero russo degli Esteri si era dimenticato di avvertire l’ambasciatore del peso che ha su Putin il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill, Cirillo per noi italiani. Che è favorevolissimo a quella guerra e ora per giunta è a rischio di sanzioni da parte dell’Unione Europea per le sue enormi ricchezze. Il “fratello” Cirillo, come ha continuato a chiamarlo il Papa nella recente intervista al Corriere della Sera in cui ha rivelato anche una polemica telefonata intercorsa fra di loro proprio sulla guerra in Ucraina, deve avere posto un veto cui Putin non ha potuto sottrarsi, se mai ha avuto davvero la tentazione di un incontro col vescovo e Papa di Roma. 

La vignetta del Foglio

La guerra insomma si è estesa. Ora, pur disarmati, sono in guerra anche i due Papi. I loro rapporti sono diventati sarcastici. Li ha ben rappresentati una gustosa vignetta di prima pagina del Foglio, a colori, in cui un Francesco un pò malmesso, coi sandali da frate ai piedi, impreca contro “le ville e i miliardi” di un Cirillo ormai meno fratello dei tempi in cui si incontravano e si scambiavano promesse di familiarità ecumenica. 

Naturalmente le interferenze religiose, con quei 150 milioni di fedeli che Cirillo ritiene di avere conservato nonostante gli insulti di Putin da lui condivisi agli ucraini, considerati in buona parte nazisti e pederasti, aggravano le prospettive della guerra. Non a caso gli assalti a quel che resta delle acciaierie di Mariupol, dove sono asserragliati combattenti ucraini irriducibili, sono ripresi ancora più forti dopo che Putin aveva pubblicamente ordinato al suo ministro della Difesa di rinunciarvi per risparmiare vittime russe, lasciando i nemici senz’aria, come in una tomba.  Non una mosca -aveva appunto detto- deve più volare in quei sotterranei. 

Più dura e addirittura si aggrava la guerra in Ucraina e più crescono in Italia le difficoltà del governo e della maggioranza, insidiati dalla convergenza contro più sostanziosi aiuti militari al Paese aggredito dalla Russia fra Giuseppe Conte e Matteo Salvini, pur separatisi così clamorosamente nell’estate del 2019, quando erano rispettivamente presidente del Consiglio e vice presidente e ministro dell’Interno. 

Titolo di Repubblica

Alla volontà ribadita da Draghi davanti al Parlamento europeo di proseguire negli aiuti militari all’Ucraina, e ad altro che non è piaciuto ai grillini in materia economica, Conte ha reagito chiedendo pubblicamente se non vi è l’intenzione dello stesso Draghi, e di altre parti della maggioranza, di spingere i pentastellati fuori dal governo. Dove in ogni caso si può sospettare che ben difficilmente il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si dimetterebbe per adeguarsi ad una crisi ordinata da Conte per reazione a qualche decisione o scelta “provocatoria” di Draghi.

Titolo del Riformista

Non è per niente forzato il titolo del Riformista sulla situazione della maggiorana e del governo: “Una sola cosa Conte non sopporta: Draghi”. Piuttosto, esso è incompleto. Manca di aggiungere che l’intolleranza è ormai reciproca. Neppure Draghi sembra più sopportare il suo predecessore, per quanto possa essere forse imbarazzato, almeno nelle apparenze, Enrico Letta come segretario del secondo partito della maggioranza per consistenza parlamentare: il Pd. 

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Il bilancio fallimentare di 28 anni vissuti col sistema maggioritario

Titolo del Dubbio

I 17 governi, 11 presidenti del Consiglio e 7 legislature susseguitesi nei 28 anni trascorsi dal 1994 -quando si votò per la prima volta in Italia col sistema non più proporzionale ma misto, prevalentemente maggioritario, poi addirittura con l’indicazione del candidato alla guida del governo nella scheda elettorale- sono o dovrebbero essere più che sufficienti per condividere il bilancio “fallimentare” appena lamentato da Paolo Delgado sul Dubbio a proposito della svolta voluta dai promotori del referendum elettorale del 1993. Che era stato preceduto nel 1991 da quello contro i voti plurimi di preferenza, ridotti a uno solo, sperimentato l’anno dopo nella campagna elettorale rivelatasi la più costosa della storia repubblicana per i candidati che vi avevano partecipato, e perciò soppresso anch’esso nelle elezioni successive. 

Marco Pannella e Mario Segni insieme

           Le meraviglie promesseci con i loro referendum dal compianto Marco Pannella e dal mio carissimo amico Mariotto Segni, che aveva letteralmente stregato Indro Montanelli con le sue visite nella redazione del Giornale, si sarebbero dovute tradurre in questi 28 anni -ripeto- trascorsi dal 1994 in sei legislature e altrettanti governi e presidenti del Consiglio, tutti nominati solo formalmente dal presidente della Repubblica, essendo ancora in vigore l’articolo 92 della Costituzione approvata nel 1947, ma in realtà scelti, indicati, designati, come preferite, dagli elettori, poveri illusi. 

Silvio Berlusconi e Romano Prodi insieme
Mario Draghi e Mario Monti insieme

            Degli 11 presidenti del Consiglio succedutisi a Palazzo Chigi nella stagione maggioritaria solo due hanno avuto la fortuna di passare per la loro indicazione sulla scheda elettorale: Silvio Berlusconi e Romano Prodi, il primo riuscendo a restare a Palazzo Chigi per una decina d’anni peraltro non continuativi, e il secondo per meno di quattro, neppure essi continuativi. Tutti gli altri presidenti del Consiglio sono stati selezionati, diciamo così, di seconda e terza mano dalle segreterie dei partiti o personalmente dal capo dello Stato, come Lamberto Dini da Oscar Luigi Scalfaro nel 1995, Mario Monti da Giorgio Napolitano  nel 2011 e Maro Draghi l’anno scorso da Sergio Mattarella. E – altra particolarità delle sorprese del quasi trentennio più o meno maggioritario- uno dei presidenti del Consiglio usciti dai giochi interni di partito non era neppure stato eletto al Parlamento: Giuseppe Conte, Giuseppi per l’amico Donald Trump. Egli fu nominato in modi dichiaratamente scettico da Mattarella, che avrebbe preferito gli fosse stato proposto dai grillini e dai leghisti qualcuno eletto precedentemente anche solo ad un Consiglio Comunale. Conte invece non solo gli fu proposto senza precedenti neppure amministrativi e fu ugualmente nominato, ma realizzò continuativamente, fra il 2018 e il 2019 due maggioranze politiche di segno opposto: una con la Lega e senza il Pd, l’altra col Pd e senza, anzi contro La Lega.

Giulio Andreotti
Giuseppe Conte

           Fu detto e scritto, a giustificazione di tanta disinvoltura, che anche a Giulio Andreotti era capitato nella cosiddetta prima Repubblica di realizzare maggioranze opposte di governo: senza, anzi contro, e col Pci. Ma fra l’una e l’altra erano passati almeno quattro anni: nel 1992 senza o contro il Pci, alla testa di un governo centrista con i liberali, e nel 1976, alla guida di un governo interamente democristiano, con l’appoggio esterni dei comunisti e la formula della ”solidarietà nazionale” inventata da Aldo Moro  E non del “compromesso storico” perseguito da Enrico Berlinguer, come invece  qualcuno ogni tanto scrive e dice a proposito di quel passaggio politico con un’assai presunta autorità di storico. Povera storia, e povero Moro, che tanto si industriò, sino alla vigilia della morte per mano dei brigatisi rossi, a tenere i comunisti fuori dal governo, anche dopo che Berlinguer si era spinto a dirsi più “garantito” dall’ alleanza atlantica che dai vecchi rapporti di amicizia e solidarietà con la Mosca dell’Unione Sovietica.

        Per tornare alle mancate meraviglie del sistema maggioritario miseramente “fallito”, secondo le giuste conclusioni tratte da Paolo Delgado, peccato che forse non avremo materialmente il tempo di tornare al vecchio e certamente preferibile sistema proporzionale. Col quale ho personalmente votato per una quarantina d’anni senza aver mai venduto un mio voto di preferenza, e senza essermi mai sorpreso delle alleanze politiche poi strette dal partito via via prescelto, essendomi sempre stato chiaro il suo orientamento per il dopo-elezioni.

La guerra in Ucraina

           La situazione politica, già difficile per la campagna elettorale praticamente in corso a vari livelli, anche nazionale, si sta aggravando per gli effetti della guerra in Ucraina e della linea adottata da Draghi, considerata troppo atlantista dalla coppia un po’ riformatasi fra Salvini e Conte. Se il rinnovo delle Camere fosse anticipato per il sopraggiungere di una crisi, dalla quale sono in tanti ad essere tentati pur smentendo a parole, non ci sarebbe il tempo né politico né materiale, ripeto, di modificare la legge elettorale in vigore. Di cui tutti pure parlano più o meno male.

Pubblicato sul Dubbio

Putin apre forse al Papa per l’Ucraina e Draghi comincia a scaricare Conte

Titolo del Corriere della Sera
Titolo del manifesto

Mentre sulla “linea del fuoco” in Ucraina, come la chiamano al  manifesto, si apre forse uno spiraglio con i segnali giunti al Vaticano dall’ambasciata russa sulla disponibilità di Putin, finalmente, all’incontro propostogli dal Papa una quarantina di giorni fa, si apre in Italia un’altra linea di fuoco tutto politico, per fortuna, senza bombe e sangue. 

Titolo della Stampa

Ad aprire questo fuoco virtuale è stato addirittura un uomo dai nervi abitualmente saldi come il presidente del Consiglio Mario Draghi. Che, stanco del comportamento del suo predecessore Giuseppe Conte, con un piede nella maggioranza e nel governo e l’altro fuori sui temi economici, sociali e di politica estera, nonostante la presenza d Luigi Di Maio alla Farnesina, ha deciso di accettare e rilanciare la sfida. Forse egli si è davvero convinto, come gli attribuisce un retroscena della Stampa, che a questo punto convenga accorciare la campagna elettorale in corso e la durata di questa tormentatissima legislatura anticipando all’autunno il rinnovo delle Camere. Così finalmente i pentastellati potranno regolare i conti al loro interno, senza scaricare le tensioni sul governo, e tornare in Parlamento a ranghi più ridotti, senza la “centralità” conquistata nelle elezioni del 2018. 

Il guaio -l’unico forse della partita- è che un anticipo delle elezioni politiche condannerà  assai probabilmente i partiti  a tenersi la legge elettorale in vigore, che consente o favorisce, come preferite, col sistema maggioritario la formazione di alleanze artificiali. Che poi, dopo le elezioni, si sfaldano e contribuiscono anche dall’opposizione ad aumentare la confusione e a rendere il Paese ingovernabile. 

Una prova è stata data in questa legislatura dal centrodestra, dove all’opposizione sono rimasti sempre i fratelli d’Italia di Gorgia Meloni, mentre forzisti di Silvio Berlusconi e di Matteo Salvini sono stati per un pò fuori e per un pò dentro il governo, ma su posizioni diverse, come nel caso della politica estera e, più in particolare, della guerra in Ucraina. Su cui Salvini fa concorrenza a Conte nel contestare la linea fortemente atlantica di Draghi. Che può contare in Parlamento, sempre su questi temi, più sull’opposizione di destra, o “conservatrice”, come adesso Meloni preferisce chiamarla, che sulla maggioranza. Un vero casino, scusate la parolaccia ormai entrata nel linguaggio ordinario anche dei più raffinati salotti, televisivi e non. 

Titolo del Mattino

Il teatro, diciamo così, scelto da Draghi per accettare e rilanciare la sfida, in particolare, dei grillini è stato addirittura il Parlamento Europeo. Dove il presidente del Consiglio -appena costretto a Roma a subire il no dei ministri pentastellati ad un decreto di aiuti per 14 miliardi  di euro ai più bisognosi- è andato a descrivere i danni che sta procurando all’economia nazionale il famoso bonus voluto dai grillini per il rifacimento delle facciate degli edifici. 

Sempre a Strasburgo ma su un altro tema, quello della guerra in Ucraina, scelto dai grillini per distinguersi da Draghi -sino a chiamarlo a rapporto a Montecitorio prima che vada il 9 maggio a Washington per incontrare il giorno dopo il presidente americano alla Casa Bianca- il presidente del Consiglio ha fortemente ribadito la scelta di aiutare militarmente gli ucraini a salvare la loro libertà , sovranità e democrazia minacciata dai russi. Ed ha ammonito a non mettere sullo stesso piano gli aggressori e gli aggrediti, Putin e Zelensky.  

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

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