Silvio Berlusconi ha un pò trovato un giudice a Strasburgo…

            Se non a Berlino, rileggendo Bertolt Brecht o Enrico Broglio, secondo altri, Silvio Berlusconi ha trovato un giudice a Strasburgo leggendo più modestamente oggi sul Corriere della Sera Giovanni Bianconi. Che riferisce della decisione presa pur con molto comodo dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di non ritenere infondato il ricorso presentato nel 2014 dai difensori dell’ex presidente del Consiglio contro la condanna definitiva per frode fiscale. Che gli aveva procurato l’anno prima la pratica dei servizi sociali, sostitutiva di tre anni di detenzione, e la decadenza da senatore, per non parlare delle implicazioni politiche. Esse furono la spaccatura del Pdl nel governo di Enrico Letta, l’indebolimento della maggioranza faticosamente formatasi all’inizio della legislatura e nel 2014 la crisi azionata dal nuovo segretario del Pd Matteo Renzi. Che peraltro succedendo a Letta non avvertì alcun imbarazzo a concordare col “pregiudicato”, decaduto e quant’altro Berlusconi un percorso di riforme addirittura costituzionale ed elettorale.

            Nel togliere la polvere dal fascicolo giudiziario del 2014, a dimostrazione -dirà qualche magistrato contrario alla riforma del processo penale- che i tempi della giustizia non sono troppo lunghi solo in Italia, la Corte di Strasburgo ha chiesto al governo italiano di rispondere entro il 15 settembre a dieci domande per chiarire bene se Berlusconi ebbe più di sette anni fa un processo davvero giusto, col rispetto di tutti i diritti della sua difesa, e non subì invece forzature o violazioni funzionali alla sua condanna. Fra cui, per esempio, il rifiuto di alcune testimonianze, il mancato riconoscimento dell’impedimento a partecipare ad alcune udienze che pertanto dovevano essere rinviate, con effetti sulla prescrizione, e altro ancora.

            Non dimentichiamo infine che sulla credibilità, diciamo così, della sentenza definitiva di condanna emessa da una sezione feriale -cioè estiva- della Cassazione, pesa una confessione registrata del giudice relatore, il compianto Amedeo Franco, di una decisione presa praticamente per partito preso.

            Forse, per carità, a metà settembre il governo Draghi e, più in particolare, la Guardasigilli Marta Cartabia risponderanno alla Corte di Strasburgo difformemente da quanto si aspettino i difensori di Berlusconi, ma è ugualmente significativo, a dir poco, che alla Corte europea siano sorti quanto meno dei dubbi sul trattamento riservato all’ex presidente del Consiglio, nel frattempo “riabilitato”, eletto al Parlamento europeo e partecipe della maggioranza di governo in Italia, preferito dal Pd e forse persino dai grillini ad altri partner come Matteo Salvini.

            Ironia della sorte, questa “svolta”, come l’ha definita il Corriere riferendo del giudice trovato dal Cavaliere a Strasburgo, è stata “bucata” -come si dice in gergo tecnico- sulla prima pagina del Giornale di famiglia nel giorno in cui, accomiatandosi dalla direzione perché attirato da altre avventure professionali, Alessandro Sallusti ha espresso la convinzione che “prima o poi la storia riconoscerà a Berlusconi i meriti” che gli spettano “in tutti i campi” in cui si è cimentato come “uno dei due o tre straordinari uomini che il nostro secolo ci ha regalato”. Che poi sarebbero due: il Novecento e il Duemila, durante i quali l’unico errore commesso da Berlusconi, secondo la sua sondaggista di fiducia Alessandra Ghisleri in una intervista al Fatto Quotidiano, sarebbe quello di non avere “definito una successione”, tanto si ritiene unico nel suo “carisma”.

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I successi nella lotta alla pandemia spiazzano i nostalgici di Conte

            Ora che l’Istituto Superiore della Sanità -non il portavoce del nuovo presidente del Consiglio, in carica da tre mesi, o del  nuovo commissario straordinario per la pandemia virale, in carica ancora da meno- ha annunciato “il crollo dei contagi”, come ha titolato il Corriere della Sera, precisando che 35 giorni dopo la somministrazione della prima dose del vaccino i ricoveri in ospedale sono diminuiti del 90 per cento e i decessi del 95, chi glielo va a dire agli amici di Giuseppe Conte? Che sembrava l’uomo della Provvidenza ignobilmente allontanato da Palazzo Chigi con un complotto, o qualcosa del genere, e ora è appeso nel vuoto all’incarico conferitogli da Beppe Grillo di rifondare un MoVimento appeso a sua volta al forziere -si fa per dire- di Davide Casaleggio. Che, a corto ormai di soldi, si tiene stretto l’elenco degli iscritti come l’ultimo tesoro rimastogli.

            Massimo Giannini sulla Stampa -accusato recentemente proprio dall’ex presidente del Consiglio di fare un tifo smodato per Draghi sfidando anche i consigli storici di Charles Maurice de Talleyrand alla moderazione nel servaggio- ha realisticamente esortato a “mettersi l’anima in pace i nostalgici che nei palazzi e nei giornali ancora si ostinano a osservare il presente con gli occhiali del passato e a ripetere ogni volta “quando c’era Conte”. A costoro adesso non rimane che sognare ad occhi aperti la crisi del governo Draghi per effetto della guerra di carta in corso fra il segretario del Pd Enrico Letta e il leader della Lega Matteo Salvini: una guerra aperta non si sa bene da chi -anche se a me sembra da Letta per dare sostanza alla segreteria vuota del partito ereditata da Nicola Zingaretti-ma quotidianamente riproposta dai giornali come se Roma fosse Gerusalemme e l’Italia lo Stato di Israele. “La sporca guerra”, ha chiamato ieri, sempre sulla Stampa, Lucio Caracciolo quella riesplosa in Medio Oriente. Stento tuttavia a identificare Enrico Letta con Benjamin Netanyahu  e Matteo Salvini con Isma’hil Hanijel, leader di Hamas, anche perché persino sulla tragedia mediorientale il segretario del Pd sé è fatto scavalcare dal capo leghista nella difesa di Israele. E penso che per lui sarà difficile rimontare pure su questo versante.

            Guerra per guerra, sia pure per fortuna di tono e contenuto diverso, lasciatemi rivolgere un pensiero di gratitudine al tanto bistrattato -dai nostalgici di Conte- generale Francesco Paolo Figliuolo. Alle cui decorazioni per dileggio il vignettista del Fatto Quotidiano aveva aggiunto caciocavalli e polli arrosto scommettendo su un epilogo tragicomico della sua avventura.

            Non so se anche il generale, come il presidente del Consiglio, ha accettato l’incarico rinunciando al compenso. In caso contrario spero che gliene abbiano attribuito uno all’altezza non tanto dei suoi gradi quanto del valore delle sue prestazioni, diversamente da come Massimo D’Alema ha lamentato che abbiano fatto con lui i compagni della federazione culturale dei socialisti europei. Che dopo averlo pagato così male come presidente e conferenziere gli hanno pure chiesto mezzo milione di euro indietro facendogli a Bruxelles una causa in fondo emblematica della ingloriosa fine del comunismo di casa nostra. Casa, ripeto, non Cosa, di cui si occupa ormai come un segugio Michele Santoro, avendone perso le tracce.

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Quei 210 chilometri (soltanto) che separano Catania da Palermo

La vignetta di Makkox sul Foglio

            I duecentodieci chilometri che separano Catania da Palermo corrono naturalmente nella stessa regione e nello stesso Stato, ma non per la Giustizia, al maiuscolo. Vi corrono solo per la giustizia al minuscolo, com’è quella cui è stata ridotta dai nostri legislatori di certo, con codici, norme e quant’altro prodotte e pubblicate con tutti i timbri dovuti, ma ancor più dai magistrati che le applicano nel tempo che rimane a loro disposizione nei tribunali, dopo quello che impiegano per curare le proprie carriere e sgambettarsi a vicenda secondo moduli ormai tristemente noti. Che fanno notizia, e scandalo, più degli imputati dei loro processi.

Il Consiglio della Magistratura di Superiore, con la maiuscola voluta dalla Costituzione, ha soltanto il nome. E lo scrivo non con compiacimento o per denigrare l’istituto presieduto dal capo dello Stato, ma solo con rammarico, e perché indottovi dalle cronache che lo investono sempre di più come una barca malandata.

Il titolo di prima pagina della Verità

            Per quanti sforzi potranno o vorranno fare gli esperti o i sacerdoti dell’attuale sistema giudiziario -di cui solo a reclamare una profonda e vera riforma si rischia il linciaggio, o si viene scambiati per sovversivi- nessuno potrà mai riuscire a spiegare alla gente comune perché da uno stesso fatto contestato in uffici distanti appunto 210 chilometri, non dico un  ex ministro, com’è nel nostro caso Matteo Salvini, ma un imputato qualsiasi possa essere prosciolto -o farla franca, come direbbe un magistrato che ora ha  qualche problema più personale di cui occuparsi- o indifferentemente essere rinviato a giudizio, e magari essere condannato come un sequestratore di poveri disgraziati trattenuti sadicamente a bordo di navi, peraltro regolarmente assistite e rifornite, per il tempo necessario a definirne pratiche e destinazioni in un continente di cui condividiamo i confini meridionali.

            Lo stesso Fatto Quotidiano, che non può certamente essere considerato un giornale prevenuto contro magistrati e Magistratura, pur con caratteri simili a quelli di un bugiardino che troviamo nelle confezioni dei medicinali, ha commentato così in prima pagina il processo che l’ex ministro leghista dell’Interno ha evitato a Catania e quello che lo aspetta invece a settembre a Palermo per questioni di migranti a bordo di navi condotte verso i porti italiani: “Sequestro Gregoretti (nave della Marina): Salvini prosciolto a Catania. Per Open Arms (nave privata) invece è a processo. Ma sarebbe stato più logico il contrario”. Peraltro, le due navi si erano mosse con i loro carichi nello stesso anno e nella stessa stagione estiva: 2019.

  L’amministrazione della giustizia italiana, sempre al minuscolo, non riesce quindi a soddisfare neppure la “logica” di un giornale come quello diretto da Marco Travaglio, dove il solo termine “garantista” fa rizzare i capelli, o farli cadere a chi li ha ancora. O solo a sentir parlare di referendum sui temi e problemi della Giustizia, con la maiuscola, che il Parlamento non riesce da decenni a risolvere, si è tentati di correre in montagna per impugnare le armi contro gli invasori, Che vogliono andare alle urne solo per rispondere con una matita sì o no a domande che non possono essere stampate sulle schede senza cinquecentomila richieste e il consenso finale della Corte Costituzionale, dopo quella della Corte di Cassazione. Povera giustizia, per quanto già minuscola.

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Il Draghi uber alles che accentua la crisi di Conte anche fra i grillini

Ciò che dovrebbero fare i magistrati -parlare per atti- e invece non fanno scambiandosi messaggi più o meno cifrati, sta dimostrando di volere e saper fare il presidente del Consiglio Mario Draghi. Il quale, anziché inseguire o rintuzzare quanti gli contestano, per esempio, di avere preso il posto di Giuseppe Conte solo per imitarlo, prepara le sue decisioni di cosiddetta discontinuità in silenzio e le annuncia solo quando le adotta. Parla insomma per atti.

            Così egli fece con Domenico Arcuri rimuovendolo da commissario straordinario per l’emergenza pandemica e sostituendolo col generale degli alpini Francesco Paolo Figliuolo e così ha appena fatto rimuovendo il prefetto, generale e non so cos’altro Gennaro Vecchione dal vertice dei servizi segreti -o più precisamente dal Dis, acronimo della direzione delle informazioni e della sicurezza- e sostituendolo con l’ambasciatrice Elisabetta Belloni.

            L’idea di provocare “l’ira di Conte” o di dargli “uno schiaffo”, come ha titolato a torto o a ragione qualche giornale, non ha minimamente trattenuto il presidente del Consiglio. Che si è preoccupato solo di assicurarsi il consenso del capo dello Stato e di informare il presidente del comitato parlamentare per la sicurezza. Né lo ha trattenuto la paura del prevedibilissimo racconto  del Fatto Quotidiano, il giornale custode, diciamo così, della buona memoria del precedente governo Conte. Che in prima pagina -senza spararla, debbo riconoscerlo, più di tanto, limitandosi ad un richiamino- ha scritto di “favore ai 2 Matteo”, intesi come Salvini e Renzi, ma propendendo più per una “vittoria della Lega” che di Italia Viva. E. in più, ha lamentato che al Dis “Mancini resta e Vecchione salta”, pur essendogli stato rinnovato l’incarico nello scorso mese di novembre per altri due anni.

            Questa storia di Mancini che resta, con le sue funzioni che non sono certamente di un semplice 007, dev’essere risultata particolarmente indigesta a quanti hanno gridato allo scandalo per quel filmato diffuso da Report, su Rai 3, dello stesso Mancini a colloquio con Renzi nel piazzale di un’Autogrill sotto Natale, non certo per consegnarli una scatola di biscotti, come ha cercato di spiegare l’ex presidente del Consiglio. Che ha minimizzato, diciamo così, la circostanza che in quei giorni egli fosse alle prese con l’ancora presidente del Consiglio Conte anche per come gestiva direttamente, senza delegare niente a nessuno, proprio i servizi segreti.

            Il fatto è, questa volta al minuscolo lasciando la maiuscola all’omonimo giornale, che il Marco Mancini in così buoni rapporti con Renzi, sfortunatamente ripresi entrambi da un’attrezzata spettatrice di Report costretta ad una sosta dai bisogni fisiologici del padre, non sembra proprio un agente infedele al capo del governo di turno. Eh no, se uno che di servizi s’intende come Carlo Bonini ha appena rimproverato su Repubblica all’ex presidente del Consiglio di avere perduto tempo proprio appresso a Mancini. Così almeno ho capito -e se ho capito male, mi scuso subito con entrambi- leggendo a commento del cambio di guardia appena deciso al Dis che questo è “il momento in cui il Mediterraneo torna ed essere l’epicentro di imprevedibili nuovi rapporti di forza e il nostro Paese è chiamato a recuperare il tempo perduto negli anni in cui, a Palazzo Chigi, si è perso più tempo a dare udienza a Marco Mancini, a dare la caccia alle “infedeltà politiche” negli apparati, piuttosto che ad occuparsi di cosa diavolo avessero in mente Vladimir Putin e Recep Tyyp Erdogan sulla Libia”. E meno male -aggiungo, sempre che abbia capito bene- che il momento è arrivato e Draghi non se l’è lasciato scappare

            Non ha avuto probabilmente torto Massimo Franco a scrivere sul Corriere della Sera, sempre a commento dell’avvicendamento deciso al vertice dei servizi segreti, che “chi continua a teorizzare la continuità fra l’attuale governo e quello presieduto da Conte da ieri faticherà un po’ di più”. Ma temo che faticheranno non meno quanti ancora nel Pd, più in particolare da Enrico Letta a Goffredo Bettini, continuano a scommettere sulla stabilità, affidabilità e quant’altro dei rapporti col movimento grillino perché finito nelle mani sicure di Conte. Che mi sembrano invece ogni giorno meno sicure, e non solo per le vertenze giudiziarie o d’altro tipo con Davide Casaleggio e la sua associazione. Il cui maggiore o più ambito patrimonio è addirittura l’elenco degli iscritti che Conte non sa più a chi chiedere. O pensa di poter ottenere solo grazie ad un‘Autorità di garanzia che non ha potuto non prendersi tutto il tempo necessario anche ad essa per venire a capo di quel ginepraio improvvisato dal comico genovese.

Anche nel passaggio delicato ai vertici del Dis il povero Conte è rimasto solo nella sua ira o delusione attribuitegli dai giornali, vista la fretta con la quale il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il reggente del movimento 5 Stelle Vito Crimi hanno espresso il loro compiacimento: il primo anche per la possibilità offertagli di piazzare un fedelissimo al posto di Segretario Generale della Farnesina.

Pubblicato sul Dubbio

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L’evoluzione di stile tutto grillino del Ministero della Giustizia

            Per chi aveva cominciato a rifarsi piacevolmente gli occhi, diciamo così, associando il Ministero della Giustizia -dopo il passaggio quasi triennale di quell’eterno spettinato Alfonso Bonafedealla figura sempre ordinata ed elegante di Marta Cartabia sta diventando a dir poco sgradevole la rappresentazione adottata da qualche giorno dal Fatto Quotidiano. Nella cui redazione evidentemente si rimpiange al Ministero di via Arenula Bonafede come a Palazzo Chigi Giuseppe Conte. Che rispetto all’altro ha almeno dalla sua parte -lo riconosco- una certa eleganza d’abbigliamento ed anche una foto di commiato persino toccante, con quel personale affacciato alle finestre sul cortile che applaudiva il presidente uscente con la fidanzata, sino a far piangere il portavoce Rocco Casalino. Di cui tutto francamente immaginavo, dopo averne lette tante sul suo stile di lavoro, fuorché il cedimento all’emozione in una circostanza di quel genere.

            Oggi, venerdì 14 maggio 2021, il giornale dove ancora riescono a ritrovarsi, in tutti i sensi, quasi tutte le anime, tendenze, correnti, umori e quant’altro  del MoVimento 5 Stelle, uscito dalle elezioni politiche del 2018 come una volta capitava alla Dc, cioè da forza di maggioranza relativa, il Ministero della Giustizia è associato  nella vignetta di prima pagina a tre mignotte, come vengono chiamate a Roma quelle donne succinte, diciamo così, che rappresentano nella immaginazione di Riccardo Mannelli “Grazia, Graziella, Grazialcazzo e Giustizia”. Speriamo adesso che nessun lettore di Travaglio, prendendolo in parola e perdendo la testa, non irrompa assatanato nel palazzo di via Arenula a cercare di far loro la festa.

            Due giorni prima, mercoledì 12 maggio, lo stesso Mannelli aveva offerto o proposto -dite voi- ai lettori del giornale più letto sotto le cinque stelle un’altra rappresentazione volgarotta, a dir poco, della “Giustizia strafatta”, inventandosi una tavola numero 22 dell’Enciclopedia illustrata di Italypedia. Che fantasia e che gusto, con quella bilancina della giustizia appesa a quell’obbrobrio di donna bendata che grida ai quattro venti non so se più il suo godimento o il suo schifo! E’ la satira, bellezza.

Per niente triviale, per carità, ma altrettanto polemica era stata il giorno prima, martedì 11 maggio, la rappresentazione del Ministero della Giustizia, della sua nuova titolare e dei suoi progetti di riforma offerta ai lettori del Fatto Quotidiano con titolo, fotomontaggio e sommario. Per fortuna era mancato il contributo vignettistico di Mannelli.

            Il titolo gridava: “(In)giustizia- Riesumate due leggi ad personam del Caimano- La svolta Cartabia è quella di Berlusconi”. Il sommario spiegava così i “processi à la carte” coltivati dalla guardasigilli: “Su pressione di Forza Italia, Lega e Italia Viva la ministra ricicla la Pecorella (bocciata dalla “sua” Consulta) sull’appello dimezzato e le “priorità” dei reati decise dal Parlamento”. Ripeto: dal Parlamento, non dal Governo, o dal ministro, o da un posteggiatore abusivo tratto a sorte. Il fotomontaggio, infine, proponeva la guardasigilli in accenno festoso di danza, come in un cabaret, fra il solito Berlusconi in doppiopetto e l’altrettanto solito Salvini in maniche di camicia.

            Consentitemi a questo punto un pensiero di comprensione e di solidarietà al presidente del Consiglio Draghi per le prospettive che lo aspettano alle prese con i grillini delle varie tendenze sui temi della giustizia.

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L’incursione di Draghi nei servizi segreti della stagione di Conte

            Nelle cronache dell’avvicendamento appena disposto da Mario Draghi al vertice dei servizi segreti fra il rimosso prefetto Gennaro Vecchione e l’ambasciatrice Elisabetta Belloni, già Segreteria Generale del Ministero degli Esteri, non si trova una parola -dico una- di Giuseppe Conte a giustificazione dell’”ira”, dello “schiaffo ricevuto” e altro ancora che i titoli dei giornali gli hanno attribuito. L’ex presidente del Consiglio è rimasto zitto, avvolto in tutti i problemi che ha alla fantomatica testa dell’ancor più fantomatico MoVimento 5 Stelle affidatogli da Beppe Grillo, con tutte le grane giudiziarie nel frattempo aumentate per le resistenze di Davide Casaleggio addirittura a consegnare l’eletto degli iscritti. Al suo posto, sono giunte dalle parti che pure  Conte dovrebbe rappresentare gli auguri calorosi ad Elisabetta Belloni del ministro grillino degli Esteri Luigi Di Maio, fiero del prestigio riconosciuto al Corpo Diplomatico, e del pur contestato, scaduto e non so cos’altro “reggente” del movimento Vito Crimi.

            Ma l’ira -ripeto- di Conte è in qualche modo accreditata dal modo in cui un giornale come Il Fatto Quotidiano ha rappresentato in prima pagina l’operazione appena compiuta da Draghi: “Il favore ai 2 Matteo”, cioè Renzi e Salvini, entrambi in effetti entusiasti. “Ha rivinto la Lega”, ha insistito il giornale di Marco Travaglio sottolineando che al Dis -acronimo della direzione generale delle informazioni e sicurezza- “resta Mancini e Vecchione salta”.

            Mancini è quel dirigente dei servizi -Marco- ripreso sotto Natale scorso con Renzi nel piazzale di un autogrill mentre maturava la crisi del secondo governo Conte anche per effetto delle accuse che lo stesso Renzi rivolgeva al presidente del Consiglio ancora in carica di gestire troppo a modo suo, diciamo così, i servizi segreti disponendo dell’amico prefetto Vecchione, generale della Guardia di Finanza.

            Eppure Mancini non poteva né potrebbe essere scambiato per un congiurato nei riguardi di Conte se è vero ciò che ha scritto oggi su Repubblica un esperto della materia come Carlo Bonini. Secondo il quale è finalmente arrivato il momento di “recuperare nel Mediterraneo, tornato ad essere l’epicentro di imprevedibili nuovi rapporti di forza”, il tempo perduto a Palazzo Chigi andando appresso “a Marco Mancini, a dare la caccia alle infedeltà politiche negli apparati, piuttosto che ad occuparsi di cosa diavolo avessero in mente Vladimir Putin e Recep Tayyp Erdogan sulla Libia”, così importante per gli interessi italiani.

            Severo sul Corriere della Sera è stato anche Giovanni Bianconi scrivendo del rapporto di Conte con Vecchione come “diretto e costante”, aggravato dalla “mancata nomina, fino agli ultimi giorni della sua permanenza a Palazzo Chigi, dell’autorità delegata ai servizi”. Finisce così “una stagione sciagurata -per tornare a Bonini su Repubblica– di cui Conte era stato l’ostinato e goffo regista: quella che aveva confuso il governo dell’Intelligence, del suo capitale d’informazioni riservate, con un giro di nomine nelle municipalizzate, in una logica di occupazione tarata sulla fedeltà amicale al leader del governo”. Di “stagione finita dei veleni”  scrive infine  Il Foglio commentando l’uscita da “Piazza Dante”, la sede dei servizi segreti, di “Gennaro Vecchione amicissimo di Giuseppi”, come Donald Trump alla Casa Bianca  chiamava al plurale di Brooklyn l’allora presidente del Consiglio Conte.

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Il Fatto lancia l’offensiva di Di Battista e ospita Conte come per riparare

            In coincidenza forse riparatrice con la pubblicazione di un libro di Alessandro Di Battista dal significativo titolo Contro!, inteso anche nei riguardi dell’ex presidente del Consiglio arresosi alla formazione del governo di Mario Draghi, ”nauseante” per il suo passato e, a dir poco, preoccupante per il presente e per il futuro, Il Fatto Quotidiano ha improvvisato un forum con Giuseppe Conte per metterlo a suo agio. E per difendersi, pur senza mai nominarlo direttamente, al pari dei suoi intervistatori, dal contestatore operante nella nebulosa, ormai, delle 5 Stelle.

            Il senso della lunga intervista è stato così tradotto dal giornale nel titolo di apertura: “Forum con Conte- “Draghi governa, non si parli ora di Colle”- “Programma 5S pronto. Alleati al Pd, mai succubi”. Nel sommario si aggiunge il termine di poco più di quindici giorni che l’ex presidente del Consiglio si è dato per diffondere il nuovo programma del movimento affidatogli da Beppe Grillo  e si forniscono, fra virgolette, altri particolari delle idee e degli umori dell’intervistato: “Sostengo il governo, però niente uomini della provvidenza, né cedimenti sulla giustizia”. Renzi? “Sullo 007 risponda. Magari lo reincontro in qualche autogrill…”, come accadde sotto Natale al dirigente dei servizi segreti Marco Mancini ripreso da un presunto telefonino galeotto di una signora disgraziatamente -per lo stesso Mancini e per Renzi- fedele della trasmissione televisiva di Rai 3 Report condotta da Sigfrido Ranucci. Col quale Renzi, per difendersi dal sospetto di avere complottato con Mancini contro Conte ancora a Palazzo Chigi, ha ingaggiato una partita anche giudiziaria dagli sviluppi imprevedibili.

            Alle informazioni contenute nei titoli del Fatto  sull’intervista dell’ex presidente del Consiglio  aggiungo di mio il passato politico di elettore democristiano, quanto meno, confessato da Conte descrivendosi di “formazione cattolica democratica”, proveniente dal “centro moderato che guarda a sinistra”, secondo una celebre espressione di Alcide De Gasperi, e una certa discrepanza fra quello ch’egli ha effettivamente detto e quello che gli attribuisce sommariamente il giornale di Travaglio sulla crisi della giustizia e sulla riforma di cui ha bisogno.

            Premesso di considerare “malconcia” l’immagine della magistratura che “esce dallo scandalo del Csm”, la cui ultima edizione riguarda peraltro verbali secretati che riguardano anche lui per passate prestazioni forensi, Conte ha detto: “Nessun magistrato si deve permettere di avere atteggiamenti subalterni nei confronti della politica, perché fa un danno a tutta la categoria. E nessuna forza politica in Parlamento deve approfittarne per mettere sotto schiaffo la magistratura. Prima di parlare di commissioni d’’inchiesta, riformiamo il Csm: la polvere di deve sedimentare”. Mi sembra una posizione d’attesa, che però Il Fatto ha tradotto in una di supporto all’attacco proprio oggi sferrato, pur per altri versi, alla nuova ministra della Giustizia Marta Cartabia per la forza e la fretta che ha di riformare processi, prescrizione e altro.

            Travaglio in persona ha definito “ricatto” la posizione della guardasigilli, che dovrebbe limitarsi a soddisfare le attese riformatrici dell’Unione Europea attenendosi come una “Cartabia copiativa” ai testi lasciati al Ministero dal predecessore Alfonso Bonafede, compresa evidentemente la figura dell’imputato a vita per quella prescrizione che cessa col primo grado di giudizio.   

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Ripreso da http://www.policymakermag.it il 13 maggio

Le scommesse già perdute da Enrico Letta al Nazareno

            Non sono ancora passati due mesi dalla sua elezione a segretario del Pd, il 14 marzo scorso, richiamato in tutta fretta dal suo “esilio” accademico a Parigi per sostituire Nicola Zingaretti, rosso di vergogna dichiarata per il poltronificio a cui aveva ridotto il partito, ed Enrico Letta già appare più logorato del suo predecessore. Egli ha perduto entrambe le scommesse fatte con una certa imprudenza al ritorno dalla Francia.

            La prima scommessa è stata quella contro Matteo Salvini, proponendosi di contestarlo sino a provocarne l’uscita dalla maggioranza di emergenza realizzata da Mario Draghi, su impulso di Sergio Mattarella al Quirinale, dopo l’autoaffondamento del secondo governo di Giuseppe Conte: altro che il complotto lamentato dai nostalgici del professore.

            Nella sua ossessione antileghista Letta è arrivato ad essere più realista del re sul terreno oggettivamente impopolare della difesa di un coprifuoco che Draghi per primo aveva avvertito di poter cambiare anche a breve, come sta per avvenire.

            Trovo di particolare efficacia la rassegna degli scontri verbali fra Letta e Salvini che Mattia Feltri ha offerto oggi ai lettori della Stampa, e del Secolo XIX, per concludere a “fantastica dimostrazione di come a volersi distinguere a tutti i costi, va a finire che non si notano le differenze”, confondendo per felpe anche gli abiti del segretario del Pd, generalmente più sobri e meno militareschi o palestrati di quelli del “capitano” leghista.

            L’altra scommessa di Letta, ancora più rovinosa, della prima, è quella sulla capacità di Giuseppe Conte non dico di rifondare il MoVimento delle 5 Stelle su incarico personale di Beppe Grillo, ma almeno di rimettere un po’ d’ordine e di moderazione in quel casino -scusate il termine-che esso è diventato, peggiorando peraltro dopo le difficoltà  familiari del “garante”, “elevato” e quant’altro.

            L’ultima fregatura, chiamiamola così, Conte l’ha data a Letta non sostenendo ma rilanciando la ricandidatura di Virginia Raggi a sindaco di Roma  per le elezioni d’autunno. Eppure il segretario del Pd si era spinto ad offrire praticamente la presidenza della regione Lazio ai grillini in cambio del passaggio dell’attuale presidente Zingaretti al Campidoglio, dando peraltro per scontato imprudentemente il consenso degli elettori.

            Lo smacco inferto da Conte a Letta sulla scalinata capitolina, e destinato a ripercuotersi nelle altre città dove si voterà in autunno e il segretario del Pd pensava di fare accordi con i grillini, ha imbaldanzito a tal punto la Raggi da farle dire in una intervista oggi alla Stampa che sarà, testualmente, “la candidata di tutti, anche di chi vota Pd”. E dovrebbe invece votare per il candidato sostanzialmente di ripiego di Letta, che è l’ex ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, già insidiato nella sua area, chiamiamola così, dall’attivissimo Carlo Calenda.

            Se non è una debacle questa di Enrico Letta, poco ci manca, obiettivamente. E a fargli drizzare i capelli che non ha non occorre neppure che torni a scomodarsi quell’impertinente di Matteo Renzi per invitarlo a “stare sereno”, come fece alla fine del 2013 accingendosi a scalzarlo da Palazzo Chigi.

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Gotor riscrive i rapporti fra Saragat e Moro negli anni di piombo

Il titolo dell’Espresso

Ancora una volta da cronista, e quindi un po’ anche da testimone, non mi ritrovo nella storia d’Italia a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, quelli in particolare, della cosiddetta strategia della tensione, riscritta sull’ultimo numero dell’Espresso dallo storico ed ex senatore del Pd Miguel Gotor. Che, essendo nato -beato lui- solo nell’aprile del 1971, non ha ricordi personali cui attingere ma solo qualche libro che evidentemente lo ha particolarmente colpito: in questo caso uno scritto nel 1978 da un giornalista cautamente nascostosi dietro uno pseudonimo e forte solo, o soprattutto, di notizie ricevute da un amico inglese dei servizi segreti di Sua Maestà.

Quest’ultimo, tuttavia, a sostegno delle sue informazioni ha indicato a Gotor -se non ho capito male- un articolo a più mani uscito su un giornale britannico ma sfortunatamente rivelatosi poi ispirato da due giornalisti dell’Espresso. Che è lo stesso settimanale dove è comparsa la storia della strategia della tensione dell’ex senatore piddino, e che a suo tempo -non dimentichiamolo- scoprì a suo modo il colpo di Stato mancato nel 1964 con una mezza copertura, diciamo così, dell’allora presidente della Repubblica Antonio Segni.  

Moro omaggia Saragat in una foto d’archivio

Per farvela breve, Gotor ha maturato la convinzione che nel 1969 Aldo Moro, allora ministro degli Esteri, informato mentre era a Parigi della bomba esplosa il 12 dicembre nella sede milanese  della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, e preceduta da altri episodi per fortuna senza vittime, fosse ascrivibile a un terrorismo fascista finalizzato, con l’aiuto di servizi segreti italiani ma forse anche americani, a produrre il panico necessario a svolte politiche autoritarie in Italia. Sotto Natale egli andò a parlarne a Castel Porziano con Saragat, che lui stesso nel 1964 aveva praticamente mandato al Quirinale per succedere all’infortunato e impedito Segni, colto da un ictus mentre lo stesso Saragat, presente Moro allora presidente del Consiglio, lo accusava di avere trescato col generale comandante dei Carabinieri per dare uno sbocco a destra alla crisi di governo scoppiata quell’estate. Stavolta, nel 1969, era Moro che accusava Saragat praticamente della stessa cosa in uno scontro conclusosi con un compromesso: Moro avrebbe accettato di credere che dietro la bomba di Milano ci fossero gli anarchici e Saragat avrebbe rinunciato alle tentazioni di sciogliere anticipatamente le Camere.

Mariano Rumor giura da presidente del Consiglio davanti a Saragat

Ma Saragat, a dispetto di ogni voce, a sciogliere le Camere in quegli anni non ci pensava proprio perché i socialisti, essendosi nuovamente spaccati dopo l’unificazione del 1996, avevano solo da rimetterci. Infatti il 6 luglio del 1970, quando il democristiano Mariano Rumor a capo di un governo di centro sinistra si dimise improvvisamente per uno sciopero generale chiedendo il ricorso alle urne, che peraltro avrebbe fatto comodo allo scudo crociato anche per evitare l’approvazione definitiva della legge sul divorzio, Saragat glielo rifiutò. A Rumor subentrò il collega di partito Emilio Colombo con la stessa formula di governo.

Gotor ha anche attribuito a Saragat una tale disistima verso Moro per la sua “passività” nel governare da avere ripreso i rapporti col pur “cialtrone” Fanfani, secondo confidenze che avrebbe fatto a Manlio Brosio. Peccato -per Gotor- che Moro aveva smesso di governare nell’estate del 1968, allontanato da Palazzo Chigi dai suoi amici di partito, chiamiamoli così, “dorotei”. E, pur facendo il ministro degli Esteri, rimase all’opposizione interna della Dc fino al 1973. E da oppositore interno, alla fine del 1971, quando scadde il mandato di Saragat al Quirinale, la maggioranza della Dc mise in pista per la successione Fanfani, boicottato e costretto alla rinuncia dai “franchi tiratori” dello scudocrociato e , a viso aperto, dagli alleati socialisti.

Costretti a cambiare cavallo, come si dice in questi casi, nonostante il segretario della Dc in persona Arnaldo Forlani ne avesse sostenuto la piena legittimità alla candidatura per avere guidato il partito, il governo ed essere il ministro degli Esteri in carica, Moro non riuscì ad ottenere l’investitura. I “dorotei”, sempre loro, con l’aiuto della sinistra di “Base” e dei fanfaniani, che accusarono Forlani di “tradimento”, trafficarono politicamente con liberali, socialdemocratici e repubblicani perché fosse candidato al Quirinale e venisse eletto Giovanni Leone. Per il quale Moro ordinò telefonicamente ai suoi amici, uno per uno, di votare disciplinatamente, senza lasciarsi tentare da ritorsioni per la bocciatura della propria candidatura nella votazione svoltasi nei gruppi parlamentari: bocciatura avvenuta per meno voti delle dita di una mano.

Gotor, nato- ripeto- nell’aprile del 1971, queste cose non ha potuto vederle e sentirle. Ma -Dio mio- se le faccia raccontare da qualcuno che invece le ha viste, prima di fidarsi di certe informazioni di seconda mano, fossero pure attribuite ad un ambasciatore come Manlio Brosio. Il povero Moro in quegli anni non aveva il potere immaginato da Gotor. Lo riacquistò dopo, fuori e dentro il suo partito, in termini peraltro più di prestigio che altro,  pagandolo duramente nel 1978 con quell’orribile morte di cui Mattarella ha appena lamentato i perduranti misteri.

Pubblicato sul Dubbio

Finalmente le toghe hanno un Patrono, con la maiuscola: il Beato Livatino

            Ora che i magistrati hanno finalmente un Patrono -e che Patrono, con la maiuscola, trattandosi di Rosario Livatino, ucciso a 38 anni nel 1990 dai mafiosi e promosso Beato con la cerimonia conclusiva svoltasi ieri nella Cattedrale di Agrigento- è augurabile che essi finiscano di cercare e assumere altri patroni, con la minuscola, come si sono abituati a fare da tanto tempo con i politici, massoni e non, finendo per intrecciare le loro funzioni e le loro carriere  col potere inteso nel peggiore dei modi.

            La preferenza dei magistrati per questo tipo di patronato, che sporca inevitabilmente entrambe le parti in causa, è stata confermata proprio in questi giorni col fastidio, a dir poco, opposto dagli uni e dagli altri al proposito annunciato da Matteo Salvini di tornare al metodo del compianto Marco Pannella. Che era quello di sottrarre i temi della giustizia alle tortuose e paralizzanti trattative fra i partiti, le loro correnti e quant’altro, comprese quelle dell’associazione nazionale dei magistrati, per lasciare la parola direttamente agli elettori. E senza più consentire, possibilmente, quella truffa che, volenti o nolenti, tutti i politici -ad eccezione dei pochi radicali- commisero nel febbraio del 1988 approvando una legge sulla responsabilità civile dei magistrati che vanificò il cristallino risultato del referendum svoltosi solo qualche mese prima, nell’autunno del 1987. In cui l’80,21 per cento degli elettori abrogò le norme del vecchio codice che proteggevano le toghe dal rischio di pagare gli effetti dei loro errori: uniche fra tutte le categorie operanti nel nostro paese, dai medici agli ingegneri.

La camicia insanguinata di Livatino nel reliquario

            Non sia mai, su questi argomenti gli elettori diventano agli occhi dei magistrati e dei politici che tengono loro banco dei pericolosi sprovveduti da chiudere a casa con due mandate, peggio che in un blocco da pandemia virale. Bisogna evitare in questo caso il contagio non da virus, ma da “buon senso”, per ripetere un’espressione felicemente usata ieri sul Corriere della Sera da Goffredo Buccini pur scrivendo non dei referendum ma solo del Beato Rosario Livatino e dell’eredità lasciata col buon esempio ai colleghi. “Oggi -scriveva testualmente Bonini a proposito di Livatino- avrebbe quasi 69 anni, più o meno la stessa età dei suoi colleghi famosi che si sbranano tra loro sui giornali e nei talk. Da quei suoi colleghi non si pretende santità: basterebbe un po’ di buon senso. La lotta inesausta tra toghe sindacalizzate suggerirebbe un passo indietro verso la compostezza, premessa dell’indipendenza e dell’equilibrio di cui parlava Livatino nel 1984 discutendo in un convegno proprio del ruolo del giudice nella società che cambia”. E pronunciandosi -aggiungo- contro la pratica già allora in uso di magistrati che passavano dai palazzi della politica ai tribunali e viceversa attraverso porte girevoli sempre ben oleate e funzionanti.

            Ora che la credibilità della magistratura è passata dal 70 per cento della falsa epopea di “Mani pulite” ad un modesto 30 per cento o poco più, quella referendaria è scambiata per un’arma nucleare dagli interessati abituati alle trattative più o meno sottobanco per risolvere le controversie sui temi giudiziari. Forza Salvini, forza radicali e quant’altri sono davvero stanchi dell’eterna crisi della giustizia e vogliono finalmente tornare a fidarsi dei magistrati, non solo ad averne paura, come non capita solo al Vittorio Feltri di oggi. Che è diverso per fortuna da quello degli anni 90, quando correva dietro alle toghe solo per vendere, coi suoi titoloni roboanti di manette, più copie di un giornale agonizzante –L’Indipendente- diretto nella illusione di salvarlo dalla chiusura.

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